Come si vive un lutto? In che modo può arrivare a segnare la vita di una persona, e soprattutto come se ne può uscire ricostruendo pian piano la propria esistenza? Attorno questo tema, estremamente delicato ma al tempo stesso estremamente facile a scadere in patetismi di quint'ordine, registi come Kieslowski e Egoyan avevano realizzato capolavori come "Film Blu" e "Il dolce domani", riuscendo per l'appunto a dosare e gestire sapientemente il potenziale drammatico che lo spunto narrativo offriva.
Stessa cosa con la quale deve fare i conti anche Philippe Claudel, apprezzato scrittore e sceneggiatore francese, qui al debutto come regista. Se da una parte infatti il fulcro della storia (un omicidio avvenuto nel passato della protagonista e svelato allo spettatore soltanto dopo mezz'ora abbondante) è indubbiamente forte ed evocativo, il suo sviluppo (la riabilitazione sociale e psicologica della donna dopo il carcere, il suo reinserimento nel mondo, l'incontro/scontro con la sorella e con la madre che l'aveva ripudiata) poteva offrire il fianco a tendenze melò da lacrima facile francamente viste e riviste in tutte le salse.
Se ciò non avviene (almeno in parte: a tradire in questo caso sono una colonna sonora quasi retorica e il finale un po' troppo piegato sui sentimentalismi) è perché il regista ha avuto l'intuizione di affidare la parte (difficilissima) di Juliette a Kristin Scott-Thomas, attrice inglese dalla recitazione sempre sostenuta e controllata, mai preda di eccessi. Oltre a mettere in campo la sua faccia segnata, glaciale e imprescrutabile come una lastra di ghiaccio, la Thomas offre difatti anche una sublime prova di immedesimazione, entrando davvero nel corpo e nell'anima di una donna costretta per troppo tempo a reprimere costantemente la sua enorme sofferenza, apparentemente troppo distante e "fredda" per aver potuto compiere quello che ha fatto, in realtà desiderosa soltanto di poter tornare alla vita esorcizzando ed espellendo fuori di sé questo dramma (e a lasciarsi andare, come appunto nel finale).
Léa, la sorella (una altrettanto brava Elsa Zylberstein), non scompare di fronte a lei ma anzi, cerca di tenerle testa fino all'ultimo, rappresentando in questo confronto non il "lato buono" della famiglia bensì la partner complementare per una sorta di seduta psicanalitica a due, in cui si mettono in gioco ricordi, emozioni, segreti nascosti, rivelazioni sconvolgenti, frasi mai dette, confessioni, pianti liberatori.
Claudel però non compie mai il peccato mortale di appesantire troppo la già di per sé cupa atmosfera del film, e la risolleva costantemente con personaggi comprimari simpatici ed azzecatissimi (il nonno muto, la vivace nipotina vietnamita), citazioni cinematografiche e non (Rohmer come argomento a cena, i bellissimi quadri di Friant come commento visivo ad una nascente storia d'amore) tipiche della scuola francese, e infine una regia discreta, pulita, magari priva di virtuosismi ma in questo essenziale per seguire lo svolgimento della vicenda.
Il messaggio finale andrebbe poi preso come esempio per chi, nelle polemiche attuali che riguardano le nostre cronache, sbraita e dibatte magari senza cognizione di causa su questioni di diritto alla vita. Lo fa e non capisce come (questo ne è un esempio) persino dietro un atto palesemente ed inspiegabilmente crudele si può nascondere invece il più sorprendente gesto d'amore.
03/02/2009