Il potere agli operai
No alla scuola del padrone
Sempre uniti vinceremo
Viva la rivoluzione!
A sentire l'attacco musicale, che riecheggia il canto sessantottino "La caccia alle streghe" dell'italiano Alfredo Bandelli, si potrebbe pensare che i settanta minuti di cinema godardiano cui si sta per assistere siano un nuovo manifesto politico del Godard militante e rivoluzionario. Una prosecuzione, insomma, del suo periodo politico, della sua cinematografia "marxista" dura e pura. No, vi sbagliate e non dovete giudicare. La rivoluzione di cui
Jean-Luc Godard ci parla nella sua ultima fatica è totale: certo, è politica, ma è più generalmente e profondamente umanista, culturale, linguistica, cinematografica.
Il cinema. L'arte numero sette, il mezzo preferito dal genio francese, dà appuntamento in "Adieu au langage" per un suo capitolo necessariamente conclusivo, oltre cui non ci può essere prosecuzione, dopo non c'è più nulla. Forse qualcosa di diverso, un modo di intendere il mezzo diverso, aggiornato, ma mai più ciò che abbiamo conosciuto fin qui. La sinossi del film recita
"Una donna sposata e un uomo libero si incontrano. Si amano, litigano; piovono i colpi. Un cane vaga tra città e campagna. Le stagioni passano. L'uomo e la donna si ritrovano. Il cane si ritrova tra loro. L'altro è nell'uno. L'uno è nell'altro. E sono tre persone. L'ex marito fa esplodere tutto. Un secondo film comincia. Uguale al primo. Eppure diverso. Dalla specie umana si passa alla metafora. Finirà con l'abbaiare di un cane. E con le urla di un neonato". Una trama che tutto vuol dire e che nulla anticipa, se non, ancora una volta, la possibilità di creare un'opera partendo da "un uomo e una donna", qualcosa di semplice, di sempre utilizzato, una specie di thriller sentimentale che permette di mettere in scena tutto e annullarne il significato stesso. Perché Godard è questo che fa. Scrivere di un'opera così in una comune recensione è compito davvero impegnativo, costringere nei canonici strumenti critici non un film semplicemente "diverso", ma un oggetto che va oltre la definizione stessa di "film", rischia di semplificare, banalizzare. Così come è riduttivo registrare che un titolo come "Adieu au langage" sia stato presentato in concorso al Festival di Cannes: una scelta tanto discutibile quanto controproducente. Inutile affiancarlo al resto del cartellone, superfluo anche solo tentare di comporne un giudizio razionale alla stregua di qualsiasi altra pellicola.
L'addio al linguaggio di Godard è triplice. Prima di tutto, è senza dubbio il canto malinconico e rabbioso di chi registra lo svuotamento del ruolo aggregatore della comunicazione. Un'osservazione che di rivoluzionario non ha nulla, se non il modo in cui il cineasta parigino decide di inscenarla: sono i suoi stessi personaggi a muoversi inebetiti e inespressivi, incapaci di dare suono e armonia alle parole, ad articolare pensieri filosofici e politici complessi e comprensibili, se non spezzettandone la sintassi, eludendo l'obbligo alla chiarezza con affermazioni sconnesse, pronunciate e poi dimenticate. Il Godard afflitto dalla constatazione della perdita del linguaggio come consuetudine che tutti accomuna e che tutti unisce, in nome di un obiettivo di uguaglianza mai raggiunto, è quello che inquadra ragazzi alle prese con smartphone, videocamere, strumenti tecnologici di ultima generazione che hanno reso superflua la comunicazione stessa. Il primo dei tanti Godard che "Adieu au langage" ci mostra è un regista ossessionato dai supporti, dal senso del "tatto", da queste dita che digitano, si passano oggetti, ma mai volteggiano in aria gesticolando per accompagnare uno scambio dialettico.
Il secondo Godard va però oltre: a 83 anni lo sperimentatore, il pioniere è ancora vigoroso e con la stessa apertura al nuovo di 54 anni fa. Ecco allora che dare l'addio al linguaggio come lo abbiamo conosciuto è anche un'occasione per riscoprire l'importanza dell'immagine. In questi settanta minuti, non comprendere alcuni dialoghi, battute, tematiche di ogni sorta buttate nella mischia del dibattito può anche non essere un dramma. Non è l'azione di un intellettuale che esige il piedistallo da cui arringare la sala gremita, non è il vezzo di colui che conosce la propria inafferrabilità e dunque la esalta a scapito dello spettatore sprovveduto. No, la scelta di incomprensibilità è quasi didattica, ha uno scopo. E lo scopo è esaltato dall'opzione totalmente spiazzante e anarchica dell'uso del 3D: Godard utilizza l'immagine del digitale in modo completamente diverso da chiunque altro, distrugge le scenografie, raddoppia, triplica i piani inquadrati e dà a chi guarda un ruolo attivo, quello di crearsi il proprio film. Fin dai vertiginosi titoli di testa, la tridimensionalità di Godard non è narrativa, è "teorica": nel suo essere a tratti disturbante ed eccessiva è una sfida al fruitore delle immagini a non ritirarsi dalla lotta, a non togliere gli occhialini, ma a diventare protagonista dell'esperimento. Ecco allora che alcune scene vi appariranno in un modo chiudendo l'occhio destro, in un altro modo chiudendo l'occhio sinistro. L'immagine e lo sguardo, abitudini perdute e troppo spesso sacrificate nella contemporaneità. Nell'opera capitale di Godard non ci sono vie di mezzo: l'occhio deve tornare a fare il suo dovere, non deve limitarsi a vedere, deve "guardare", "sintetizzare". Il tentativo di fondere un congedo dal linguaggio con un nuovo benvenuto al ruolo preminente dell'immagine è azione che desta commozione, ammirazione, stupore.
Tutti sentimenti che suscita anche il terzo Godard concentrato in poco più di un'ora di film. È il rivoluzionario
tout court, che rifiuta qualsiasi regola prescritta, che non accetta limitazioni al proprio ragionamento artistico e civile. "Vivere o raccontare?", si domanda a un certo punto la bellissima protagonista. Non ha importanza, entrambe le azioni richiedono impegno, volontà, ferree convinzioni. Il Maestro frulla tutto ciò che va a comporre il suo enorme bagaglio culturale: la filosofia, la letteratura, la pittura impressionista, le nozioni storiche sui paradossi del Novecento. I discorsi fatti dai protagonisti, nel loro "finto" melodramma amoroso, sono i ragionamenti stessi del cineasta, le riflessioni donate a cuore aperto allo spettatore. Non c'è ambizione di organicità, perché le idee per definizione non possono esserlo. Ecco perché il montaggio, video e sonoro, tende a sottolineare questa assoluta indisciplina verso l'ordine precostituito. Ecco perché veniamo bombardati da suoni e musiche costantemente "fuori tempo", puntualmente inattese, proprio come gli accostamenti fra la natura e la metafora.
Il protagonista del film è un cane, il cane di Godard. Non c'è da stupirsi: i suoi primi piani racchiudono tutte le tre forme espressive che abbiamo citato. Nel momento in cui il linguaggio non serve più, e l'immagine può ancora salvarci, lo sguardo innocente dell'animale più buono e che "è capace di amare qualcun altro più di se stesso" è l'emblema del cambiamento, del capovolgimento del punto di vista. Il film finisce, si torna a cantare di rivoluzione e poi due suoni si sovrappongono, dietro lo schermo che si è fatto nero: l'abbaiare del cane e il pianto di un neonato. Godard celebra la fine di tutto, la fine della vita artistica, l'addio al linguaggio e al cinema che ha sempre difeso. Ma ci saluta con un segnale di rinascita: non tutto è perduto. È un addio, forse, solo provvisorio, in attesa che qualche nuova forma di comunicazione arrivi. Per la lucidità del suo genio, non è da escludere che sia Godard stesso, in vecchiaia, a scoprirla e donarcela come bene prezioso.
21/11/2014