Il genere biografico ha sempre vissuto di considerazioni molto polarizzate: amato dalla grande industria cinematografica, soprattutto hollywoodiana, per la capacità di far coesistere le res gestae dei "grandi" della Storia, attori di grande appeal, una definita patina di realismo e presunta verità delle vicende e la conseguente esemplarità per grosse fette dell'audience, che d'altronde risponde con un'attenzione spesso considerevole a tali produzioni, viene al contempo biasimato di frequente dalla critica per la frequente parzialità della narrazione e per certa tendenza a una rappresentazione pigra e stilisticamente basica, china a una logica produttiva minimax e all'assecondamento del fu pubblico di massa. Apparentemente la pellicola di Matthew Heineman è osservante la suddetta prassi, ma la scelta di un soggetto come la discussa reporter di guerra Marie Colvin permette a un biopic di solida classicità di innescare una riflessione, più o meno voluta, più o meno manifesta, sul suo stesso genere di riferimento e i suoi limiti.
La celebre giornalista deceduta a Homs nel corso dell'assedio da parte delle truppe governative si distinse sempre per la natura quasi missionaria che attribuiva alla propria professione e per la forte connotazione data a essa, come riportano numerosi suoi articoli e interviste, citati, a volte integralmente, in più momenti della narrazione. Da ciò deriva l'egregia rappresentazione battagliera e al contempo afflitta di Rosamund Pike, incarnante ancor più che le convinzioni della reporter la sua stessa carne, vittima del passare del tempo e della violenza dei conflitti cui assiste. Il film si concentra spesso sui corpi nella loro generalità e fragilità, non lesinando arti mozzati e scarnificazioni e connotando molti dei personaggi secondari in maniera fisicamente netta, riservando ovviamente il ruolo di elemento accentratore al corpo della protagonista, il quale si fa quindi sineddoche di tutta l'umanità mutilata, sfregiata (anche dal tempo) e accecata, come la non casuale enfasi sull'occhio ormai morto di Marie, la cui visione (della ferita) è rimandata fin quasi al termine della pellicola, quando la traumaticità di quella è stata accettata.
Più la pellicola prosegue e maggiore diventa il focus sulla sola protagonista, sulla sua fisicità e sulla percezione che ha di sé stessa e del mondo circostante, producendo un accentramento totale fedele all'umanismo sostenuto dalla giornalista e che influenza anche la struttura del film. La natura circolare di questo, chiudente la storia dentro gli ultimi undici anni di vita della succitata, dal ferimento in Sri Lanka all'assedio di Homs, e dentro l'evento stesso della tragica dipartita, ripetuto con una significativa differenza sia all'inizio che alla fine della pellicola. Così "A Private War" si configura in primis come la narrazione della morte di Marie Colvin e degli eventi che vi hanno condotto, ma anche come un esempio pratico, non si sa quanto volontario, delle teorizzazioni sulla biograficità della narrazione sviluppata da Sergej Ejzenstejn nel corso degli anni 30. Per il grande regista russo l'efficacia dei racconti che dipartono dalle vicende di una singola persona è motivata dalla esplicita "umanità" che rappresentano e da come questa universalità viene però trasmessa tramite l'individuazione a una singola matrice narrativa, rendendo quindi la comunicazione di questioni e temi di rilevanza totalizzante attraverso singole vicende esemplari.
Il film del documentarista Heineman pare essere perfettamente rappresentato da questa definizione, non ponendosi d'altronde come una decostruzione del genere e proponendo, seppur non in maniera marcatamente retorica, la celebrazione della giornalista statunitense e del suo zelo a favore delle vittime dimenticate dei conflitti, attraverso una raffigurazione pur problematica dato il suo radicalismo. Radicalismo che una pellicola intimista come "A Private War" (che con un semplice genitivo sassone potrebbe divenire la "guerra di un soldato semplice", di una soldatessa per la verità) pare non sposare, data la continua introiezione nella dimensione onirica (e il numero di incubi della protagonista cresce con l'avanzare dei minuti) dei traumi che Marie si trova ad affrontare ogni giorno, sia pubblici/professionali che privati (e viene in effetti resa piuttosto bene l'interrelazione fra le due componenti nella sua frenetica vita.
Così la narrazione diventa sempre più rapsodica (in un film che generalmente abbonda di ellissi) e la fotografia di Robert Richardson sempre più cupa e dimessa, seguendo il declino fisico della una volta avvenente corrispondente di guerra, dimostrando ciò che rende riuscito un biopic con la sovrapposizione di un cambiamento del mondo a quello dell'eroina. Simili enfasi su un'individualità posta costantemente di fronte a varie forme di grave conflittualità e sulla necessità di produrre una comunicazione che si motivi in ciò che riporta e non in ciò che risulta più efficace, ottime potenziali critiche al genere biografico, non potevano trovare migliore incarnazione in un film su una nota reporter di guerra. Come Marie Colvin, questionando la (in)visibilità della guerra e delle sue vittime, compiva il mestiere giornalistico in uno dei migliori modi possibili sottoponendolo al contempo sotto una lente critica, "A Private War" si dimostra uno dei biopic più riusciti degli ultimi anni, proprio in quanto se ne spinge ai limiti per l'inscindibile commistione fra il soggetto della propria narrazione e la sua individualità corporea e psichica, così come fra ricostruzione e riproduzione dei fatti accaduti.
24/11/2018