Sulle strade della Calabria in carpooling, un medico radiato, una coppia, un aspirante regista e la protagonista si perdono in una foresta abitata da villeggianti devoti a rituali sanguinari. Nella precedente lista di elementi, non è casuale il termine protagonista, descrizione della sovrastruttura del personaggio, al di fuori della narrativa. Un modo come un altro, per avvisare dell’operazione testuale di "A Classic Horror Story", esplicita fin dalle lettere cubitali del titolo.
Il film di De Feo/Strippoli evidenzia due aspetti imprescindibili: la sua natura metatestuale e la derivazione citazionistica. Partiamo dalla seconda, invitando il lettore della recensione a vedere il film prima della lettura, pena qualche rivelazione necessaria.
"A Classic Horror Story" riflette sulla classicità ma anche sulla dissoluzione di ambiguità della confezione horror. Un invito allo spettatore a perdersi in alcuni elementi di matrice americana, calchi di genere finemente replicati, associati tra loro senza alcuna particolare correlazione o riflessione altra che non sia un voyeuristico viaggio in sicurezza tra gli artefatti del genere.
Dopo il gotico "The Nest", il nuovo film di Roberto De Feo in collaborazione con l’esordiente Paolo Strippoli si avventura tra le maglie del folk horror, fortemente sottolineate dall’aggiunta di riflessioni locali sulla ‘ndrangheta inserite in sceneggiatura da Milo Tissone non lontane dalla sottigliezza con cui sono inseriti nella fiaba di "Sicilian Ghost Story", a cui si assommano varie merlettature citazionistiche, riempiendo l’assioma del film di similitudini tra "A Classic Horror Story" e la conoscenza condivisa dell’universo di riferimento.
Si potrebbe dire che l’immagine di "A Classic Horror Story" è abitata, piuttosto che abitare, dall’audiovisivo altro, etero-derivata invece di essere gioco libero e sfacciato (si pensi, con le dovute distanze, a "Quella casa nel bosco" nella cui logica ricorsiva di debiti meta- si intravedeva uno sviluppo creativo). La presa in prestito, soprattutto per quanto riguarda il lavoro sull’immagine, sulla messa in quadro, sfoga nelle atmosfere sabbiose di "Non aprite quella porta" e "Le colline hanno gli occhi", ruzzolando tra la geometria di "Midsommar" e la claustrofobia di "La casa" e spingendosi, come per "The Nest", nelle logiche di ribaltamento di senso tipiche di uno scoperchiamento metaforico (l’utilizzo che ne fa Shyamalan): istantanea di altre immagini filmiche splendida, immobile, operazione emulativa che introduce al metatesto.
Da qui si farà riferimento alle rivelazioni dell’ultima parte di film.
La rappresentazione cinematografica ad-hoc perpetrata dal regista-demiurgo in presenza delle sue pedine, rivela un j’accuse non soltanto alle difficoltà percepite dagli autori nel sistema produttivo cinematografico italiano, ma anche a chi fruisce il film sia nell’atto incompleto di vederlo/osservarlo (un salto veloce con interfaccia Netflix-like) sia nella condivisione di un sentimento frutto di stereotipi difficilmente rimuovibili, per loro natura. La consapevole autoironia dei commenti di avatar web nell’epilogo ("si capisce quando parlano?", "noi italiani non sappiamo fare cinema horror") è il contraltare di un'altra evidente presa di posizione contraria ed eguale che solitamente si fa risalire al pubblico: la facilità con cui si vogliono sottolineare i pregi di un prodotto italiano al passo con le produzioni internazionali (più spesso ancora americane, e nulla più). Entrambi sono la semplificazione di un sentimento da spettatore distratto, che invece qui dovrebbe riconoscere tutte le note composizioni horror a cui si faceva riferimento prima.
Allora cosa stiamo guardando? Un film dal notevole valore produttivo che ricrea e cita talmente bene da voler zittire quei commenti? Il rischio qui però è soltanto di far emergere quelli opposti di cui si scrive, altrettanto nebulosi quando si tratta di analizzare criticamente il film per non fermarsi alla salvaguardia cieca del prodotto italiano.
Sono interessanti le sferzate di "A Classic Horror Story" su un piano teorico, ma meno in quello di restituzione concettuale e visiva. L’immagine che si era trovata prima in debito con altro cinema, troppo somigliante e sottomessa, si deve accontentare di una invettiva secca e semplicistica, asservita all’ovvietà, cliché anch’essa di modalità di fruizione e di umori generalizzati che poco hanno a che vedere col cinema, con l’immagine e le sue unicità ma che "A Classic Horror Story" vuole, con una punta di sconsiderato coraggio, comprendere nel processo filmico. Promettente, sulla carta.
Però oltre al vario citazionismo concettuale in questo film non c'è nulla dei suddetti film, un vuoto percepibile anche nei momenti di massima dissonanza tra la violenza dei villeggianti e la dolcezza del brano "Il cielo in una stanza". Gli stessi personaggi, elenco di una trafila di cliché, sono lì posti e immobili, differentemente dall'idea di Ari Aster di renderli preda di una forza unica, orribilmente spietata e insondabile (l'orrore puro) in "Midsommar" (lo approfondiamo nello speciale Traiettorie dedicato al film).
Ci si domanda a questo punto se la sensazione sia dovuta alla scrittura del personaggio-regista: un artistucolo deriso persino dai famigliari, con evidenti problemi di budget e di processo creativo. Motivazione debole che inficerebbe la qualità del soggetto, a questo punto.
Invece che produrre un proprio senso, la mimica del personaggio-regista è una pantomima delle citazioni elencate, svuotate del loro proprio senso e finanche prive di una nuova idea, uno spunto o, magari, una contraddizione in seno all'horror.
"A Classic Horror Story" restituisce un quadro apparentemente scomodo poiché a produrre, oltre a Netflix, c'è anche Colorado Film, il cui tipico prodotto, le commedie, sono al centro di una battuta del film proprio nel momento in cui tutti i nodi vengono al pettine e si sciolgono in un testo non tanto originale quanto di sfogo ("DolceRoma"), una bolla che scoppia presto ma che, nella sua staticità, dimostra voglia di sperimentare, di cercare un valore per queste immagini in un momento storico di produttività audiovisiva in termini principalmente quantitativi. Materiale di alto valore qualitativo quanto inerte, quello di "A Classic Horror Story".
cast:
Matilda Anna Ingrid Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Will Merrick, Yuliia Sobol, Alida Baldari Calabria, Justin Korovkin, Cristina Donadio
regia:
Roberto De Feo, Paolo Strippoli
titolo originale:
A Classic Horror Story
distribuzione:
Netflix
durata:
95'
produzione:
Colorado Film, Rainbow, Netflix
sceneggiatura:
Roberto De Feo, Paolo Strippoli, Milo Tissone, David Bellini, Lucio Besana
fotografia:
Emanuele Pasquet
scenografie:
Roberto Caruso
montaggio:
Federico Palmerini
costumi:
Sabrina Beretta
musiche:
Massimiliano Mechelli