A partire dalla seconda metà del secolo scorso, le pellicole dell'orrore hanno costituito un'invidiabile palestra per compositori e musicisti amanti delle sperimentazioni e legati a quei movimenti d'avanguardia, che si sono affacciati - con le loro stridenti serie dodecafoniche, le frastornanti esperienze aleatorie, il rifiuto del melodismo e dell'armonia convenzionali - sull'abisso del novecento. Le ragioni di questa inusuale parentela tra film di genere ed avanguardie colte (che già Kubrick aveva intuito ed estremizzato, spargendo stralci delle opere di Ligeti nei tortuosi labirinti dell'Overlook Hotel) sono, probabilmente, da riferire all'istintivo disorientamento indotto da una musica, che, abbandonati consapevolmente i rassicuranti panorami dell'esperienza tonale, sceglie di spingersi sino alle impervie frontiere della dissonanza. Si comprende, dunque, come l'affinità sia, più che intrinseca, di origine culturale, legata, cioè, alle apparenti difficoltà ed estraneità (gravate dal pregiudizio elitario che tuttora ingiustamente accompagna gli esperimenti musicali del Novecento) di un linguaggio innovativo, sbilenco e non più ancorato al solido equilibrio dei tradizionali rapporti armonici. Ciò nonostante, molti compositori prestati al cinema hanno preferito credere alla stolida equazione che apparenta la dissonanza al turbamento emotivo, ritenendo sufficiente accatastare temi e timbri contrastanti nella generica cacofonia di un rintronante "sound design" per indurre il pubblico alla paura.
Non è questo, però, il caso dell'iberico Roque Baños, che, impostosi meritatamente all'attenzione del pubblico grazie al sodalizio con il regista de la Iglesia (sue le colonne sonore del grottesco "
Oxford Murders" e del recente, inclassificabile "
Ballata dell'odio e dell'amore"), sembra essersi incaricato di redimere il pressapochismo di molti suoi colleghi d'oltreoceano attraverso il recupero mirato di una tradizione compositiva di matrice sinfonica, strettamente legata alla perizia dell'orchestrazione, alla cura del contrappunto e alle eclettiche soluzioni timbriche, che tanto richiamano la libertà formale e la colta audacia di Bernard Herrmann. Non è un caso che la sezione degli archi riceva un trattamento tanto peculiare, alla disperata ricerca di un equilibrio tra l'inquietudine strisciante di sibillini flautandi e le violente sferzate dal sapore percussivo, che ritmano la tensione nelle sequenze più ansiogene. In tal modo, spingendosi ben oltre il pavido semplicismo di sparute disarmonie, Baños mette in campo il cangiante panorama espressivo di un esteso organico orchestrale, lavorando sulla personalità, il colore, gli effetti di ciascuno strumento, confondendo i timbri con millimetrica precisione, sino a raggiungere la suggestione sonora desiderata, estromettendo il facile ricorso alle possibilità offerte dall'elettronica.
In questa pretesa di artigianalità è possibile leggere non tanto un rifiuto della modernità tecnica (pure tirata in ballo con accortezza negli ululati sovrumani di un'allertante sirena), quanto la conquista di un controllo pervasivo sulle modalità espressive dello score, che si esprime anche nella volontà di dirigere personalmente la splendida Pro Arte Orchestra of London. E proprio all'organico fondato da Eugene Cruft negli anni Cinquanta è affidato il difficile incarico di restituire il complesso di sonorità tonitruanti orchestrate da Baños in un'aggressione sensoriale senza precedenti, che rivela tutta la sua potenza magmatica già nell'incipit con il brano "
I'll rip your soul out", vero condensato dei terrificanti istrionismi disseminati tra le asperità del pentagramma. E', infatti, nel rimbombo bruckneriano degli ottoni che si allarga la prima, profonda voragine auditiva della partitura, in cui, subito, si insinuano, striscianti, i violini, con l'agonia sommessa dei loro glissati, a fare da tappeto sonoro ai brulicanti colpi sul ponticello. Ma la sottile tessitura dello score non si limita a produrre l'impressione generica di un'atmosfera nebulosa e inquietante; infatti, mentre la foschia degli archi sfuma nella tesa immobilità di un silenzio incombente, gli ottoni duplicano l'assalto, sostenuti dalla corsa inviperita e distorta dei violini, memori di certe pagine del secondo Novecento, tra cui quell'inesorabile "muro sonoro" che è la "
Threnody for the Victims of Hiroshima" del polacco Krysztof Penderecki, brano spesso rievocato nei funambolismi cui il musicista costringe la sezione degli archi, al fine di esplorarne le soluzioni timbriche, le infinite sfumature espressive, in un ventaglio di opportunità che muovono dal cantilenare sbilenco dell'Evil Dead Theme alle sferzate percussive che animano il crescendo nell'estratto centrale di "
Demon possession".
Amante delle contaminazioni linguistiche e scrupoloso cultore delle avanguardie post-weberiane, Baños ha saputo introiettare oltre mezzo secolo di sperimentalismi nella pratica di una scrittura strutturata, che attinge alla tavolozza dei virtuosismi senza soccombervi e non rinuncia ad insinuare, tra le righe del pentagramma, accorte citazioni, che, lungi dall'essere motivo di straniamento per il pubblico, si amalgamano con la partitura e rivelano la qualità di un'educazione musicale eclettica che non rinuncia al confronto con i classici. E se nei ronzii dei violini in "
Bloody kiss" è possibile riconoscere un'evocazione delle sonorità aspre e graffiate del Crumb di "
Black Angels", l'apertura percussiva del brano "I'll do what i gotta do" non sfugge al contesto energico e primordiale del "
Sacre du Printemps" di Stravinsky.
Distorsioni, esplorazioni timbriche, effetti ricercati, riferimenti colti. Poco, sinora, sembrerebbe aggiungere il lavoro del compositore alle virulente cacofonie di tanti prodotti analoghi. E, allora, cos'è che rende la partitura a tal punto meritevole? Lo si è già detto: la straordinaria abilità con cui questi risaputi elementi sono combinati, l'intelligenza di un'orchestrazione apparentemente schizofrenica ed informe, in realtà rigidamente sorvegliata dalla solida direzione di Baños, l'abile uso del contrappunto - che tesse trame di fiati ululanti sull'ostinato impetuoso degli archi e trova, nel serrato dialogo tra questi ed il coro in "
The pendent/Evil tango", la sua compiuta espressione - la variegata ed imprevedibile declinazione dei pochi temi che accompagnano la pellicola: il già citato "
Evil dead theme" (che un pianoforte scordato punteggia sugli spazi ampi e rarefatti disegnati dai violini in apertura e in chiusura dello score) e la malinconica scala discendente di "Sad memories", che, sviluppata nel respiro di un'accorata melodia in "
Come back to me", è restituita in tutta la sua terrificante ambiguità dai gemiti degli archi in "Get me out of here" e ripetuta come nefasto anatema da un coro strisciante e sibillino, che sembra guardare agli esperimenti vocali del Penderecki di "
Utrenja".
L'impressione definitiva è quella di un lavoro composito, multiforme ed accuratamente instabile, capace di spingersi ben al di là delle generiche efferatezze della pellicola; un vasto laboratorio musicale destinato ad imprimersi nella mente degli ascoltatori con i suoi grappoli viscidi di suoni che fremono sui vibrati e le sue note inesauribili che si allargano a dominare lo spazio in un agghiacciante cataclisma acustico.