Tra canadesi ci si intende, evidentemente. Per la sua parabola apocalittico-grottesca sulla fine del capitale e i suoi "nuovi mostri", il regista David Cronenberg si è affidato ancora una volta al compositore, tre volte premio Oscar, Howard Shore, suo abituale collaboratore dai tempi di "Brood" (1979). Per l'occasione Shore è tornato a lavorare assieme al gruppo electro-pop canadese
Metric, con cui aveva già scritto il tema principale del terzo film della serie vampiresca "Twilight", "
Eclipse" (la colonna sonora era l'unica nota positiva dell'esangue pellicola).
I Metric scrivono assieme a Shore, ed eseguono, tre brani della colonna sonora. "Long To Live" (che possiamo udire durante i credits finali) è il capolavoro dell'album: proseguendo lungo il percorso spianato nel loro penultimo lavoro in studio (l'ottimo "Fantasies" del 2009), la band capitanata dalla sensuale Emily Haines, si lancia in un intenso e ipnotico
dream pop, che parte soffuso per poi sfociare in un climax da club. Praticamente la canzone che non riesce più agli attuali
Blonde Redhead. Altre atmosfere per l'incendiaria "I Don't Want To Wake Up", che mescola sapientemente le influenze punk e garage degli esordi dei Metric, alla rivoluzione "
sintetica" del presente. Il risultato è una torrida cacofonia di vocalizzi e
beat, che però non perde la sua ballabilità (nel film si sente nella sequenza in cui Eric Packer-Pattinson è nella discoteca). Il terzo brano, "Call Me Home", è invece un soul sussurrato che si agita attraverso suoni
industrial e un arrangiamento meno "pop" rispetto ai loro standard.
Le musiche originali di Howard Shore rappresentano l'ennesima conferma dell'eccleticità del compositore, capace di passare da lavori piacevolmente retrò e tradizionali come in "
Hugo Cabret" di Scorsese a imponenti suite wagneriane nello stile della trilogia de "Il signore degli anelli". In questo caso però il lavoro del canadese è senza dubbio segnato dal
sound dei colleghi Metric. Brani come "Rat Men", "The Gun", "Asymmetrical" o "Haircut" sono caratterizzati dal
mood tipicamente paranoico e ripetitivo (perfetto per commentare il "muto" peregrinaggio del protagonista barricato dentro la sua limousine) a cui Shore ha abituato i suoi ascoltatori sin da incubi urbani come "Seven" o "The Game", ma al contempo segnano un punto di svolta nella sua Opera: chitarre elettriche, synth, ritmi elettronici, parentesi elegantemente
jazzate ("A Credible Threat") ci consegnano un Howard Shore rinvigorito e "inusuale", che non ha paura di avventurarsi in territori per lui ignoti, che lo avvicinano semmai al lavoro del duo
Trent Reznor-Atticus Ross negli ultimi due Fincher. "White Limos", a commento dei bei titoli di testa che si srotolano su una pergamena insanguinata, è contraddistinta da un climax e una tensione stordenti, e un riff di chitarra che non stonerebbe in un film di Michael Mann. La conclusiva e lunga "Benno" esplode invece in un fragoroso crescendo
post rock, a segnalare l'apocalisse in atto.
Sembra fuori posto, ma neanche tanto, il rapper somalo K'naan, interprete (anche nel film) dell'interessante r&b di "Mecca", una delle poche cose che riescono a smuovere emotivamente il freddo protagonista dell'ultima fatica di Cronenberg.