Ennesima sfida per
Colin Stetson, questa volta si tratta di una colonna sonora per “Hereditary”: un film horror che saluta l’esordio del regista Ari Aster, presentato in anteprima al Sundance Film Festival, già segnalato dalla critica come uno degli eventi del 2018. Un entusiasmo condiviso anche dal pubblico, fautore dell’imprevisto successo del film, i cui incassi hanno già superato ben otto volte il budget di spesa (dieci milioni di dollari).
Non è nuovo ad esperienze del genere Colin Stetson, avendo il musicista di Ann Arbor (Michigan) già realizzato commenti sonori per brevi film d’autore e documentari. La differenza è nella intensa connessione tra musica e immagini che caratterizza “Hereditary”.
Non è un album di routine per il musicista americano, coinvolto nel progetto senza alcuna limitazione creativa o stilistica: le composizioni sono state infatti elaborate visionando il montaggio definitivo della pellicola, ottenendo così una completa integrazione tra la musica e le tematiche sovrannaturali che si agitano nell’interessante trama del film (in uscita in Italia il 25 luglio).
D’altronde il regista Ari Aster ha dichiarato di aver tratto ispirazione dalla musica di Stetson durante la realizzazione del film e di aver chiesto al sassofonista di preservare il tono asciutto e mai nostalgico delle sua musica, così da rappresentare fino in fondo quel male che avvolge il dramma familiare e psicologico di “Hereditary”.
Stetson, come altri illustri predecessori, coglie l’occasione per approfondire il lato oscuro della propria ricerca sonora, senza mai alzare i toni, anzi rinunciando a urli e frastuoni che producono sì uno shock nell’ascoltatore o nello spettatore, ma non lasciano mai quel senso di vuoto e di disorientamento che è figlio del terrore più puro.
Stetson e Aster prediligono una lenta agonia, la musica si nutre degli stessi spazi vuoti che nel mondo delle immagini si decrittano in un’estenuante attesa dell’ineluttabile.
Più che tagli sono graffi, quelli che Stetson provoca sul tessuto musicale, lasciando l’ascoltatore in uno stato catartico, sospeso, in perenne attesa di una fase risolutiva che sveli ora la trama del film, ora il
leit-motiv di una colonna sonora che sembra evitare quel pathos gothic-horror tipico di operazioni analoghe.
Le tracce sono spesso frastagliate, volutamente incomplete, tronche, quasi a voler lasciare un ulteriore spazio all’immaginazione, solo alcune fasi della colonna sonora provano a condensare in modo più canonico l’enorme flusso emotivo e armonico.
Il musicista attinge a tutto il patrimonio sonoro già esplorato nella propria carriera di
sessionman e solista - elettronica, jazz, ambient, industrial, metal - elaborando sonorità che non distolgono mai lo spettatore dallo scorrere delle immagini, anzi, sottolineandone la natura psicologica profonda, che vede personaggi decisamente comuni proiettati in un incubo.
Sempre abile nel modificare la genesi dei suoni, Stetson supplisce alla deliberata estromissione degli archi raddoppiando il suono del clarinetto con la voce, ottenendo così sonorità auliche mai tronfie. Allo stesso modo l’uso in sincrono di un clarinetto contrabbasso e un clarinetto basso crea vibrazioni simili a quelle di un synth. Anche quelle che sembrano percussioni sono frutto di ingegnose tecniche di manipolazione dei suoni: in questo caso attraverso i tasti degli strumenti a fiato registrati con microfoni posizionati nelle immediate vicinanze.
Superfluo a questo punto segnalare un brano piuttosto che un altro, i ventitré capitoli di “Hereditary” sono un flusso unico, che scorre impetuoso ma senza incalzare, anche se il suono brutale e animalesco del sax in “Dreaming”, il battito noise di “Charlie” e “Get Out” e la maestosità di “Reborn” si fanno notare senza frantumare l’atmosfera. E’ comunque lecito che l’attenzione si soffermi su alcune tracce, come la claustrofobica “Funeral” o l’elaborata e lunga “Steve”, che catturano interessanti tracce di avanguardia neoclassica.
Infine, quello che va sottolineato è la non trascurabile autonomia della colonna sonora creata da Stetson, anche se, innegabilmente, fruita nel contesto delle immagini aumenta il suo fascino mesmerico, calando lo spettatore-ascoltatore in un incubo senza fine.