A poche settimane dall'edizione del Torino Film Festival che celebra Marlon Brando, intervistiamo Alessandro Amato, autore per Bietti di "Essere Marlon Brando. L'attore, il divo, il mito"
A vent'anni dalla sua morte, cento dalla sua nascita, Marlon Brando continua a ispirare, incuriosire, affascinare, persino incutere timore. Perchè la sua figura è così attuale?
Credo che Marlon Brando sia così attuale a causa della complessità della sua figura pubblica. Era indubbiamente il più grande attore di quella generazione. Grande per popolarità, ma anche per la forza con cui le sue interpretazioni veicolavano il mix di predisposizione naturale e formazione tecnica che ne caratterizzava il talento. Ma è stato anche molto altro, fra cui donnaiolo impenitente e militante politico. È stato tante persone. E questo secondo me affascina l'inconscio di chiunque, uomo o donna, perché tutti possiamo immedesimarci nell'indeterminatezza. È una condizione vera.
Se vado a ritroso nella tua bibliografia, vedo La diva che non piace. Una nessuna centomila Kristen Stewart. Dopo Stewart, un altro libro dedicato a un divo. C'è qualcosa di particolare che è importante scoprire, rivelare, rispetto a questa figura quasi mitologica della contemporaneità, la diva/il divo del cinema?
I divi sono creature quasi mitologiche, come diceva Morin, nate certo da una qualche forma di pianificazione industriale (stiamo pur sempre parlando di Hollywood) ma comunque con il contributo delle nostre proiezioni. Quando si studia il divismo, il più delle volte, non si fa altro che mettere in luce un processo di investimento amoroso identitario secondo un modello feticista, per fare della psicologia spiccia. Desideriamo ciò che ci somiglia, anche quando lo rifiutiamo, come quando Kristen Stewart divenne un bersaglio facile di fan e giornali per aver tradito il sogno collettivo della coppia Bella-Edward formata con Robert Pattinson anche nella vita. Questo la rese un'icona della cultura di massa, se ci pensi, tramite i meme con il suo volto diffusi negli anni a seguire. Quell'imprevisto, quella rottura degli schemi predeterminati, il copione stracciato, ha lasciato un impatto scioccante. Mi interessava ricostruire questo affascinante percorso e spero di esserci riuscito. Con Brando invece ho lavorato da una prospettiva più interna, interrogandomi sulle scelte che lo hanno portato a sabotare il suo stesso successo. Ho cercato di guardare le cose con i suoi occhi, per questo ho scelto il titolo che richiama il noto film di Spike Jonze.
Di solito si parla di un cinema di genere, o di un cinema di un regista, o del cinema di un'epoca. Si può parlare di un cinema di Brando? Se sì, quali sono le sue caratteristiche?
Il cinema con Marlon è stato di Brando nel senso che fin da subito, già per i primi film di stampo teatrale, il suo contributo creativo è stato determinante e sostanziale. Man mano che la sua popolarità (e di conseguenza la sua forza contrattuale) cresceva, i progetti si sono evoluti in relazione alla sua disponibilità, al suo interesse per la parte e persino al suo umore. Ma non so se ci sia stato il tempo di sviluppare un "cinema di Brando", non ne sono sicuro, perché come dicevo a un certo punto le sue priorità sono cambiate e la situazione ha cominciato a precipitare. Di certo lui influenzava molto le pellicole alle quali partecipava. Ad esempio, a partire dal "nazista redento" de I giovani leoni fino a certe scene di Queimada, fece riscrivere alcuni suoi ruoli in sceneggiatura, e questo non ha certo giovato alla sua reputazione. In generale, i personaggi che gli sono stati cuciti addosso o sui quali lui è intervenuto sono uomini in balia dei loro demoni e spiccano per una dose notevole di tragicità...
A tuo parere, da critico e da estimatore, le prove migliori di Brando?
Il mio momento preferito della sua carriera è la seconda metà degli anni sessanta, dove si sente che voleva dimostrare di essere all'altezza della situazione nonché in grado di riprendere contatto con il pubblico. Quindi La caccia di Arthur Penn e Riflessi in un occhio d'oro di John Huston, nei quali si mette in gioco come non faceva forse dai tempi di Fronte del porto. Quest'ultimo è una scelta più scontata ma inevitabile perché si tratta del primo film dove ufficialmente e collettivamente si fece largo uso del Metodo Strasberg. È un lavoro che Brando inizialmente non voleva accettare perché convinto che Kazan stesse usando quel racconto finzionale per discolparsi delle delazioni durante il maccartismo. Cosa probabilmente vera (Welles lo definì «Il film di uno spione su uno spione», la mia citazione preferita in assoluto nella storia delle citazioni sul cinema) ma ciò non toglie un grammo di qualità all'interpretazione dell'attore e dei suoi comprimari... Lì si vede già tutto il carisma e il potenziale di una carriera straordinaria. Se solo si fosse dato una regolata [ride].
Nel tuo libro non citi (forse, saggiamente) uno scandalo che lo ha reso famoso, particolarmente in Italia, perché avvenuto sotto la direzione di un regista italiano, Bernardo Bertolucci.
Non so se saggiamente, in realtà, ma non l'ho citato perché pensavo non fosse giusto rivangare una serie di questioni sulle quali nessuno ha mai potuto mettere la parola "fine". Nel libro motivo la decisione dicendo che i protagonisti della vicenda sono tutti morti (naturalmente altri potrebbero ancora intervenire, intendo persone presenti su quel set...) ma ammetto sinceramente che in seguito alla pubblicazione mi sono pentito di questa scelta. Avrei potuto ricostruire l'impatto di quello scandalo sulla stampa nazionale e internazionale e l'opinione pubblica. A volte fantastico sulle conclusioni (per così dire) sociologiche alle quali sarei potuto giungere partendo da lì.
Apocalypse Now. In appena undici minuti su 153, Brando ruba la scena a Sheen, Hopper e tutti gli altri, e firma una delle sequenze più memorabili della storia del cinema.
Nella metà dei Settanta, quando il film viene realizzato, Brando ha dalla sua una posizione privilegiata nel rapporto di potere con Coppola e con Hollywood perché finalmente è tornato a essere colui che guida le contrattazioni, anche se durerà poco. La cosa buffa è che il colonnello Kurtz sulla carta aveva molto più spazio, mentre l'attore ebbe l'intuizione di tagliare praticamente tutte le scene che lo ritraevano in piedi o illuminato da fonti luminose, e questo perché a suo dire già in Ultimo tango a Parigi era evidente la sua forma un po' pingue. Ma il motivo reale, sempre secondo le sue memorie, è che aveva un grande istinto per la scrittura dei personaggi e qui si rese conto che creando attesa per la sua apparizione l'effetto sarebbe stato straordinario.