Warwick Thornton, al suo primo lungometraggio, realizza un sincero e sentito film indipendente su una storia d'amore adolescenziale nel cuore del deserto australiano, in una comunità aborigena nei pressi di Alice Springs. Peccato che l'integrità di intenti e l'urgenza narrativa non sopperiscano a uno stile un po' anonimo che rende il film a tratti incolore, col rischio di cadere nel facile (magari frainteso) pietismo.
Indigenza, povertà, mosche in faccia, una band che suona costantemente la stessa canzone, una baracca con una croce di legno come chiesa, "case" fatiscenti, un container come ospedale, punizioni inferte a bastonate, un canguro per cena quando si è fortunati, e giorni tutti noiosamente uguali, passati a sniffare benzina (Samson) e a prendersi cura dell'anziana nonna (Delilah). Questo il luogo dove vivono Samson (Rowan MacNamara) e Delilah (Marissa Gibson). I due si innamorano. O meglio, lui si innamora di lei, e Delilah lo respinge finché non lo vede danzare goffamente a suo beneficio (la più ancestrale delle tecniche di corteggiamento declinata in moderna chiave rock). Devono però abbandonare la comunità, e finiscono a mendicare in città conoscendo l'orrore dell'emarginazione e l'indifferenza dell'"australiano". Il loro amore è quasi primordiale, salvifico, magari utilitaristico ai fini di una quotidiana sopravvivenza tutta da guadagnare in seguito alla loro emarginazione totale (dalla comunità prima, e dal mondo intero di conseguenza). Si prendono cura l'uno dell'altra: lui la ama col cuore (istintivamente, la cerca, la segue, la protegge), lei lo ama con la mente (pensa a come procurare il cibo, al lato pratico del loro rapporto); lui è un po' audioleso, timido e insicuro, lei forte e decisa. Ma è un sentimento che ha tutto il candore delle loro età: le uniche effusioni che si scambiano sono un bacio in fronte e l'appoggiarsi la testa su una spalla vicendevolmente. Un rapporto fatto di silenzi, sguardi, occhiate, sassi da lanciarsi, e mai una sola parola.
Nonostante le buone intenzioni e l'assoluta onestà di Thornton, il film non pare del tutto riuscito. Cast tecnico ridotto al minimo, quasi casalingo, e attori per lo più non professionisti non sono un limite, però qui creano una sorta di muro al coinvolgimento dello spettatore, che Thornton - vuoi per mancanza di esperienza, vuoi per genuina assenza di malizia e ruffianeria - non riesce a valicare del tutto. Gli intenti non sembrano quelli di un racconto freddo, asettico e un po' piatto quale poi si rivela. Il film procede con ritmi pacati e dissolvenze a nero; la fotografia rischia di diventare da cartolina tra albe e tramonti nel deserto, sole a picco e fata morgana; la struttura narrativa è debole. Una delle poche sequenze realmente coinvolgimenti è lo scontro di Delilah con il menefreghismo degli "australiani" nel tentativo di vendere uno dei suoi quadri di arte aborigena (che tanto piacciono come gesto di finta e ipocrita magnanimità solo se acquistati in un negozio) per comprare del cibo. Neanche in una chiesa riesce a trovare aiuto. L'unico che sembra bendisposto verso lei e Samson è un senzatetto (Scott Thornton, fratello del regista) - personaggio troppo caricaturale. La colonna sonora svela tutta la passione musicale di Thornton, coprendo motivi rock, pop, ska e country che potevano essere cavalcati con maggiore efficacia.
Il riferimento biblico, infine, - è il caso di dirlo -, sembra "tirato per i capelli". Sansone, eroe dalla forza sorprendente, viene tradito da Dalila quando lei ne carpisce il segreto per conto dei filistei, e quindi venduto per essere neutralizzato in seguito al taglio della chioma. In "Samson and Delilah", lei taglia i propri capelli come da tradizione di alcune comunità aborigene in seguito alla perdita di una persona cara (in questo caso la nonna), e Samson farà lo stesso quando riterrà Delilah morta e rinunciando a cercarla. L'analogia termina qui.
I tasti su cui Thornton spinge maggiormente sono l'amore come sentimento profondo e incrollabile, e il diritto alla dignità umana che, per quanto appaia banale e garantito, non è ancora così scontato; soprattutto in un paese che, al di là della facile e comoda indulgenza, delle scuse e dei risarcimenti in denaro, non sembra ancora essersi riconciliato col proprio passato. "Samson and Delilah", al di là dei buoni riscontri di Cannes, manca di un
quid per toccare le corde giuste, pur mantenendo, come detto, una lodevole genuinità di fondo.
08/07/2009