Torino è una città che si culla continuamente tra passato e presente, all’ombra dei suoi palazzi barocchi e delle sue geometrie (quasi) perfette. Torino è città di storia e di cultura, in decadenza come sostengono molti, ma la gloria non si cancella.
La gloria intellettuale e letteraria della Torino della prima metà del Novecento è oggetto di questo documentario di Giovanna Gagliardo, incentrato sulla figura di Cesare Pavese.
La regista e lo scrittore condividono non soltanto le origini langarole (Pavese nacque a Santo Stefano Belbo nel 1908, Gagliardo a Monticello d’Alba nel 1941), ma anche la passione per la scrittura: Giovanna Gagliardo ha scritto i soggetti e partecipato alla sceneggiatura, tra gli altri, di diversi film di Miklós Jancsó, prima di diventare ella stessa regista, di opere di finzione e da ultimo principalmente di documentari.
E d’altro canto Pavese, sebbene sia ricordato principalmente per le sue opere letterarie, ha avuto a che fare con la settima arte, scrivendo alcuni soggetti cinematografici negli ultimi anni della sua vita e della sua carriera di scrittore, tragicamente interrotta con il suicidio. L’avvicinamento al mestiere del cinema da parte di Pavese derivò da un’attrazione sentimentale, quella per l’attrice americana Constance Dowling (sorella di Doris, che aveva recitato in "Riso amaro" al fianco di Silvana Mangano). Quei soggetti Pavese li scrisse per convincere le due sorelle - e Constance in particolare - a restare in Italia. L’amore non ricambiato per Constance fu uno dei fattori scatenanti la depressione che portò lo scrittore al gesto estremo di togliersi la vita, il 27 agosto del 1950, pochi mesi dopo aver vinto il Premio Strega per "La bella estate", trittico di romanzi brevi che includeva "Tra donne sole", che verrà utilizzato da Michelangelo Antonioni come soggetto di "Le amiche" (1955).
Ma il rapporto tra Pavese e il cinema non è rappresentato soltanto da quel fugace avvicinamento strumentale alle sue passioni amorose. Pavese riconosceva al cinema una propria dignità artistica, distinta da quella letteraria, come ricorda il documentario in uno dei suoi frammenti, quello appunto dedicato al rapporto tra lo scrittore e la settima arte. Si tratta dell’ultimo capitolo di un film strutturato in sezioni che affrontano i vari mestieri svolti da Pavese nella sua esistenza, per comporre così il puzzle di un mestiere di vivere che richiama il titolo del diario tenuto dallo scrittore tra il 1935 e il 1950.
Si parte dal mestiere di studente: Pavese aveva frequentato lo stesso liceo di Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Leone Ginzburg e Giulio Einaudi, che in seguito daranno vita a una confraternita di intellettuali pronta a stimolarsi continuamente. Il frutto di quegli anni fu il successivo approdo a una serie di mestieri che sono quelli per i quali Pavese è oggi ricordato: quelli di poeta, di scrittore, di editore e, non meno importante, di traduttore.
Prima che un grande scrittore, Pavese fu infatti un pioniere della traduzione di classici della letteratura anglosassone: sua, ad esempio, la prima traduzione italiana del "Moby Dick" di Hermann Melville, cui si affiancarono le traduzioni di grandi classici di Dos Passos, Faulkner, Defoe, Joyce, Gertrude Stein, Dickens, Sinclair Lewis.
Vi sono poi altri mestieri soltanto accennati, come quello di insegnante, che permise a Pavese di conoscere Fernanda Pivano, una delle sue allieve più brillanti, cui trasferirà la passione per la letteratura e la traduzione.
Il Pavese politico è invece affrontato trasversalmente, non essendo stato, quello, un mestiere nel senso canonico del termine e anzi avendo egli sempre ammesso la propria indolenza in materia, immortalata nel protagonista di "La casa in collina", che ha evidenti tratti autobiografici. Una pavidità politica, quella di Pavese, ben rappresentata dall’episodio della condanna al confino per sospetti di antifascismo, che lo scrittore si vide ridurre dopo aver scritto alcune lettere accorate a Mussolini, in cui disconosceva il suo impegno politico e negava condotte antifasciste. Lettere che, in seguito, Pavese si pentì di aver scritto, perché "Gramsci non l’ha fatto".
La regista ripercorre quegli anni con equilibrio e rigore, pur nella inevitabile necessità di operare una sintesi rispetto a una figura che ha fatto sì parlare le proprie opere, ma che ha anche lasciato un’eccezionale testimonianza diretta su di sé attraverso un corpus di lettere che è stato definito "uno dei grandi epistolari del Novecento".
Con uno stile posato e piuttosto tradizionale, Giovanna Gagliardo lascia la parola, attraverso interviste di repertorio, ai protagonisti di quella stagione (tra gli altri, Tullio Pinelli, Fernanda Pivano, Norberto Bobbio), ma anche ai commentatori di oggi, che illustrano la grandezza ancora attuale di Pavese.
Immagini d’epoca di una Torino austera si alternano a riprese della Torino di oggi, che conserva il rigore sabaudo e l’eleganza francese propri di un passato blasonato.
In una fotografia che spazia continuamente tra il colore e la scala di grigi ricorre un vezzo che la regista utilizza svariate volte, quello di virare dal bianco e nero al colore singoli oggetti o parti di paesaggio, un po’ come fece Spielberg in "Schindler’s List" con il cappottino rosso della sconosciuta bambina ebrea.
Come a voler evidenziare una luce che si staglia nel grigiore, che è la luce portata da un intellettuale in un’epoca buia della storia d’Italia, ma anche la luce che egli ha fatto promanare attraverso le sue opere all’interno della sua stessa esistenza, per il resto oltremodo travagliata.
regia:
Giovanna Gagliardo
distribuzione:
Cinecittà Luce
durata:
90'
produzione:
Cinecittà Luce
sceneggiatura:
Giovanna Gagliardo
fotografia:
Roberta Allegrini
montaggio:
Emanuelle Cedrangolo