Benedetto Parisi (Leonardo Pieraccioni) è un maestro diplomato al Conservatorio di Lucca che, defraudato dei diritti d’autore su “La felicità”, melodia da lui composta ma non depositata, sbarca il lunario insegnando fagotto e controfagotto e sogna di aprire un laboratorio di “musica d’istinto”. La sua vita è scombinata da una piacevole scoperta: sua madre, da poco mancata, aveva adottato a distanza una bambina brasiliana, ora diventata una bellissima modella (Luna, alias Ariadna Romero) decisa a conoscere il “fratellastro” e compiere la sua “missione”.
Puntuale come ogni Natale dispari (con l’eccezione de “Il ciclone” uscito nel 1996), quasi a voler mettersi in mezzo a mondiali e europei di calcio, Pieraccioni torna nelle sale con il suo decimo lungometraggio. Anche l’alternativa toscana alle “vacanze in qualche posto” ha ormai rodato la sua vincente ricetta natalizia, tanto da rientrare a pieno titolo nella cesta del “cinepanettone”.
Memore degli ultimi “Io e Marylin” e “Una moglie bellissima” sono entrato in sala coi peggiori pregiudizi e una tolleranza – da toscano – alla “toscanità” prossima al livello di guardia. Non riuscivo a togliermi dalla testa le parole di Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti), uno dei protagonisti della serie tv Boris: “Il vero grande merito di questa fiction… è che non ci sono i toscani. Cioè nessuno che dice: la mi’ mamma, i’ mi’ babbo, passami la ‘arne, la ‘arta. Perché con quella C aspirata e quel senso dell'umorismo da quattro soldi i toscani hanno devastato questo paese.” Quando esco, “Non ho visto niente di nuovo” mi dico, ma sono di buonumore e non mi sento derubato.
Il film è leggero, allegro e se il suo scopo è semplicemente divertire per un’ora e mezza, allora può farcela. Del resto Pieraccioni si è sempre definito cabarettista prima che regista, e in questo caso, senza pericolosi virtuosismi (tipo Marilyn) e senza esagerare troppo con le “bischerate” (“Ho arrotato l’arrotino” e poco altro, sorprendentemente azzerato il ricorso al francese “trombare”), riesce a intrattenere e a tratti a far ridere di gusto.
Pieraccioni racconta in un’intervista che il soggetto nasce da una “storia vera”: una sera, guardando insieme “C’è posta per te” (la tv spenta, in certi casi, è una possibilità sottovalutata), il suo amico e collega Domenico Costanzo gli svelò di aver trovato delle foto di una ragazzina brasiliana, che sua madre aveva segretamente adottato a distanza. “Finalmente la felicità”, a detta dello stesso regista, si avvicina a raccontare la gioia vera, la felicità vera, che nel suo caso è rappresentata anche dalla musica. Pieraccioni che fin dagli esordi è anche autore di canzoni, si confessa invidioso di chi è capace di scrivere musica e sostiene che i cantautori, come De Andrè, Vecchioni, Guccini (comparso in “Ti amo in tutte le lingue del mondo”, “Una moglie bellissima” e “Io e Marilyn”) abbiano sostituito i poeti.
Il modus operandi è sempre lo stesso: la vita di un uomo normale è sconquassata dall’arrivo di un ciclone, stavolta un’unica bellissima femmina. Catapultato sul confine tra improbabile realtà e beata fantasia, il “vulgari homine” si ritrova alla mercé delle più rocambolesche fatalità e figure di merda (nella più cristallina delle quali, vedi appostamento al cerbiatto “trinariciuto” – aggettivo dispregiativo coniato da Giovannino Guareschi per indicare i comunisti – il buon Leonardo tira fuori la sua celebre espressione a metà tra l’orsetto lavatore e il cane pentito). La donna vacilla ammirata dinanzi alla vigorosa autoironia con cui il nostro riesce a cavarsela. Ma incombe la prova più dura: l’arrivo dell’ex d’apollinea bellezza (Jesus, alias Thyago Alves). Il nostro tenta di restare a galla (“…Il signore magari voleva rimanere, però gl’è arrivato Gesù, per cui io, voglio dire…credevo si fosse fermato a Eboli e invece…”), ma infine si fa da parte. Segue l’inevitabile depressione e una resa mai resa tale dall’intervento perentorio degli amici, in questo caso Sandrino (Rocco Papaleo), che lo rimette in sella verso il glorioso epilogo.
Buona parte della comicità del film si regge proprio sulla performance del bravo Papaleo (esilarante la scena in cui sorprende la fidanzata in compagnia della fantomatica “zia di Crotone”), che non manca quasi mai all’appello di Pieraccioni. Presenti, con dei camei, anche i fedelissimi Massimo Ceccherini e Osvaldo, padre di Leonardo, oltre che la new entry Martina, figlia dello stesso. Ricorrono altri leit-motiv pieraccioniani: la sventola di turno (meglio se esotica), la scelta di nomi stravaganti (non tanto Benedetto, quanto Argante o Jesus), l’amico cornuto e bizzarro, qualcuno o qualcosa che sale o scende dalla finestra (stavolta il ladro “acrobata”), l’impiccione (vedi il passeggero sul treno, o il giardiniere siciliano) le vecchiette deboli d’orecchio (ne “Il Ciclone” era il grande Mario Monicelli, voce di “Gino”)…
…E su tutti: l’happy end. Il trionfo dell’ingenuità, della semplicità (“i’ mondo un n’è de’ belli come te, il mondo l’è dei normali, come me”), della simpatia che conquista il cuore del gentil sesso, sempre attratto solo secondariamente dall’aspetto esteriore. La felicità a lungo aspettata ( “se non ti stanchi di aspettare, le cose arrivano” come diceva il nonno Faustino) arriva al gran completo, nel miglior lieto fine possibile.
In un’altra occasione Sandrino cita il nonno (che non compare mai nel film): “Come diceva Toquinho (in “Acquarello” del 1983, pezzo che Pieraccioni passava continuamente su Lady Radio, dove lavorava appena ventenne) il futuro è un astronave…e chi si ferma è perduto. Questo non lo diceva Toquinho ma il mio nonno Faustino, campione lucano di banalità. Evviva il nonno Faustino, cornuto anche lui.”
Suscitano un certo imbarazzo il balletto corale di "Vitti na crozza" (canto popolare siciliano reinterpretato da Gianluca Sibaldi) e la spudorata pubblicità di una nuova auto giapponese, a cui Pieraccioni dedica persino un'infelice gag.
Del resto "Finalmente la felicità" non vuol far della morale il suo punto di forza. E’ piuttosto un film che vuol mettere di buonumore, senza rinnegare affatto il suo intento letterale di incassare il consenso del pubblico (la scelta di cominciare con Maria de Filippi, pillola amara da buttare giù, è chiaramente indirizzata a estendere l’audience). Tuttavia è apprezzabile il tono che Pieraccioni, pur senza rinnovarsi e anzi, mantenendosi il più possibile entro territori conosciuti, ha impresso al suo film: rilassato, senza dover dimostrare niente, ma attenendosi a quel che sa fare meglio, cioè divertire senza essere volgare e talvolta ancora sorprendere, come col misterioso mix letale che ha ucciso la mamma di Benedetto: “La mamma… è stata uccisa da Barbara Bouchet e dall’abusivismo degli anni ’50.”
Se invece dovessimo trovarci una morale, allora è proprio quella del nonno Faustino. Bisogna crederci e aspettare, senza stancarsi. Se è quasi certo che una come Luna non arriverà, è probabile invece che possa arrivare uno come Benedetto. E così anche la felicità, che magari ci era sfuggita, potrebbe tornarci in mano come un boomerang.
«La felicità è la serenità. La felicità potrebbe essere anche troppo…è come quando in una stanza tu entri c’è trentaquattro gradi, lì per lì ti garba perché tu dici madonna che caldo, poi tu cominci a sudare… La felicità è un eccesso. Il bello è il tepore che ti dà la serenità. E il tepore è sui ventuno-ventidue.» (Leonardo Pieraccioni)
18/12/2011