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A tutto Cannes

Trionfa Michael Haneke: al regista austriaco la Palma d'oro per "Amour". Ma vince anche Matteo Garrone, a cui va il Grand Prix per "Reality"

E' finita con un'ovazione, al Grand Theatre Lumiere, per Michael Haneke, il regista austriaco che ha vinto la Palma d'oro, la seconda dopo "Il nastro bianco", per "Amour". Ma trionfa anche l'italiano Matteo Garrone, che, dopo "Gomorra", si aggiudica ancora il Grand Prix con "Reality", uno sguardo tragico sul degrado culturale italiano. "Alcuni giurati sono stati colpiti dalla miscela di humour e dramma, che ha ricordato il rinnovamento della tradizione della commedia all'italiana", ha commentato  Nanni Moretti, presidente della giuria. "Non l'ho votato solo io", ha poi risposto a chi gli chiedeva se il verdetto fosse stato unanime. "Non sapevo cosa attendermi, perché nei giorni scorsi non ho letto molto i giornali ed ero partito dalla Croisette. Certo, sono stupito e felice perché sapevo quanto forte era la concorrenza e anche perché credo che questo premio aiuterà il film a trovare nuovi spettatori", ha commentato a caldo Garrone.

Ecco il Palmarès completo, con tutti i verdetti di questa 65ª edizione del Festival di Cannes:

Palma d'Oro per il miglior film: "Amour" di Michael Haneke
Gran Premio della Giuria: "Reality" di Matteo Garrone
Miglior regia: Carlos Reygadas per "Post Tenebras Lux"
Migliore interpretazione maschile Mads Mikkelsen per "Jagten" di Thomas Vinterberg
Miglior interpretazione femminile: Cosmina Stratar e Cristina Flutur per "Dupa dealuri" di Cristian Mungiu
Migliore sceneggiatura: Cristian Mungiu per "Dupa dealuri"
Premio della Giuria: "The angels share" di Ken Loach
Premio Fipresci della critica: "In the Fog" di Sergei Loznitsa
Camèra d'Or (miglior esordio): "Beasts of the Southern Wild" di Benh Zeitlin
Sezione Un Certain Regard: Premio Un Certain Regard: "Después de Lucia" di Michel Franco; Special Jury Prize: "Le grand soir" di Benoît Delépine e Gustave Kervern; Premio alla migliore attrice: Suzanne Clément in "Laurence Anyways" di Xavier Dolan e Emilie Dequenne in "À perdre la raison" di Joachim Lafosse; Menzione speciale: "Children of Sarajevo" di Aida Begic
La sezione Quinzaine des Rèalisateurs, che non ha premi ufficiali ma lascia attribuire dei premi ad alcuni partner. Ed è stato "No" del cileno Pablo Larraìn a guadagnarsi l'Art Cinema Award.

L'apocalisse secondo Cronenberg

Robert Pattinson - David CronenbergUna New York nel caos al tramonto del capitalismo, Manhattan paralizzata e un golden boy dell'alta finanza, che ha appena perso una fortuna, ma ha un solo pensiero in testa: farsi tagliare i capelli dal suo barbiere dall'altra parte della città, in uno dei sobborghi della sua infanzia.
Intanto tutto accade, tutto crolla, la città è messa a ferro e fuoco da indefiniti indignados (''Le rivolte di Occupy c'erano durante la lavorazione, ma è una bizzarra casualità", dice Cronenberg), volano spari, slogan rabbiosi, c'è chi muore e chi aggredisce e nell'apocalittico "Cosmopolis" by David Cronenberg in concorso al festival, e il nostro protagonista con la faccia dell'ex-vampiro Robert Pattinson e gli abiti di Gucci che fa? "E' sicuro che qualcuno voglia assassinarlo e vive le 24 ore più importanti della sua vita. Lo vedo come un uomo che non riesce a capire nulla del mondo. Se è riuscito bene in tutto, non è perché è uno specialista del settore. Ma lo è grazie a un istinto molto raro, qualcosa di molto misterioso e profondo, che riesce a trattare gli algoritmi come se fossero formule magiche. Nel film, come nel libro, si può vedere che il suo approccio ai dati finanziari tende a proiettarlo sempre nel futuro, tanto che non sa più come vivere il presente, non lo capisce".
E Pattinson lo ha capito il suo personaggio? "Io stesso all'inizio non capivo come avrei potuto entrare nel personaggio, ma David mi ha detto che era un buon segno. D'altra parte con questo film è stato l'opposto che con altri: più andavo avanti nella lettura della sceneggiatura meno capivo" confessa l'ex-vampiro, prossimamente impegnato tra il set di "Rover" nei panni di un ladro d'auto e "Mission:Blacklist", la storia del soldato dell'esercito che ebbe un ruolo fondamentale nello scoprire l'ubicazione del nascondiglio di Saddam, ma pronto a tornare sul set con Cronenberg ("Girerò un altro film con lui ma non so quando inizieremo a riprendere. Sarà il primo film che lui girerà in Francia, ma ha promesso che sarà davvero strano") e vedendo il film si capisce che cosa vuol dire. Da un Don DeLillo davvero difficilmente traducibile è venuto fuori un film tombale come la limousine, con tutto dentro, monitor, vivande, alcol, medici, donne, tutto, vita esclusa, limousine in cui distrugge e si autodistrugge il protagonista mentre Cronenberg, che ha scritto la sceneggiatura in soli 6 giorni, spiega: "E' raro per me scrivere tanto velocemente, ma i dialoghi del libro di DeLillo erano perfetti, li ho trasferiti così come erano sullo schermo, così come la limousine dentro cui quasi tutto accade. E' un tema importante che non ho mai veramente affrontato: il denaro, il suo potere e il modo in cui plasma il mondo. Per parlarne non ho avuto bisogno di fare ricerche specifiche sul mondo della finanza. Vediamo i suoi rappresentanti dappertutto".
Sarà per questo che nel film più che uomini e donne vediamo funzioni o gelidi emblemi che dovrebbero, ciascuno al proprio posto, incastrarsi nel puzzle astratto e devivificato del film. Per rimandarci cosa? Ovviamente il nulla. Emozioni zero, perchè Cronenberg non ha più nulla da provare se non l'estremo azzardo di idee e fantasmi che fagocitano ogni battito, ogni sudore, ogni sangue. Qui ogni corpo è macchina, ogni sesso ginnastica, ogni parola rappresentazione e il solo protagonista (Pattinson galvanizzato dalla sua perfettamente riuscita inespressività emotiva) è la sintesi di ogni Male possibile. Bello, ricco, spietato, cinico, anaffettivo, crudele, il capitalismo è lui e fa bene (in una delle poche sequenze divertenti del film) l'action-painter della crema Matthieu Amalric a sbattergli la sua torta in faccia.
Ma Cronenbreg giura che Pattinson è stato, ha fatto, ha tradotto esattamente ciò che lui voleva. Strada facendo, perché, come racconta l'attore, "dopo l'inizio in cui davvero non riuscivo a prefigurami nulla del personaggio, non mi sono posto molti interrogativi e ho lasciato che tutto il testo si evolvesse in maniera progressiva e organica, trasformandosi nelle scelte visive che avrebbero formato il film. Si è trattato di un processo vivo, anche se durante la prima settimana di riprese tutti ci stavamo ancora chiedendo che direzione avrebbe preso ogni cosa una volta terminato di girare. Tutto era molto affascinante, era come se il film si modellasse passo dopo passo".
Così l'attore che, giusto per chiudere, rivendica la veridicità (carne, sangue e battiti veri, dice lui) del personaggio che forse gli somiglia persino un po': "Anche io, come lui, non sono mai stato particolarmente socievole, ma ci tengo a dire che Eric è un uomo vero, che sta solo cercando di non gettare via tutto. Non so esattamente di cosa parli il film. C'è chi dice che parli della fine del mondo, ma forse solo perché il presente che viviamo non ha senso per nessuno. Alcuni hanno un potere eccessivo, secondo me. Ma io credo che questo film parli di rinascita e penso che ogni tanto il mondo dovrebbe essere ripulito".

Nicole, una Barbie trash


Nicole KidmanChe cosa ci fa il Lee Daniels che ci aveva toccato il cuore con la storia di “Precious”, ragazzina obesa, nera e abusa da tutti con l'eterea bianchissima e solitamente sofisticata Nicole Kidman che qui ricompare dopo superaggiustamenti al botox confessatoi e rinnegati? Semplice, la trasforma in Barbie vintage, minigonne, trucco trash, sesso estremo e situazioni estreme. E gli esiti lasciano almeno perplessi, per non dire altro. La Kidman anche. In concorso e fuori concorso. Con vestiti e senza vestiti. In thriller e in guerra. Ecco Nicole che si fa in due al festival: in concorso nel suddetto “Paperboy” di Lee Daniels al fianco di Zac Efron, John Cusak e Matthew McConaughey, in un  film che vuol essere ad altissima densità erotica (con orgasmi indotti senza neppure sfiorarsi nei parlatoi del carcere, sodomie gratuite ed escrementi vari) e domani fuori concorso in “Hemingway & Gellhorn” nei panni dell'inviata di guerra Martha Gellhorn che fece innamorare lo scrittore. Che cosa accomuna i due film? La letteratura e Nicole che torna pronta a tutto e chiosa: “C'è anche altro che lega le due storie, la sensualità e il gusto dell'avventura che è in tutti e due i film”.
E allora pronti e via per addentrarci nell'universo trash e scivoloso di Daniels, che mixa generi e registri, melò erotico e thriller, dramma sociale e umorismo nero, sino al grottesco, al trash persino giocato con compiacimento, ribaltando (anche con una certa goduria) l’immagine della diva glam e impeccabile della Kidman a cui siamo abituati. E il bello è che il film doveva farlo Pedro Almodovar : “Io ho letto il romanzo di Pete Dexter. Almodovar aveva scritto una sceneggiatura interessantissima, ma poi ha rinunciato. Per quanto mi riguarda i personaggi erano proprio unici, per questo ho deciso che dopo 'Precious', 'Paperboy' doveva essere il mio nuovo film. Le differenze che ci sono tra romanzo e film dipendono dal fatto che volevo renderlo più personale. Ognuno dei personaggi rispecchia qualcuno che ho conosciuto e mi interessava parlare anche del mio passato, ecco il perché dell’elemento razziale. La mia famiglia per tutta la sua vita è stata al servizio dei bianchi e conosco anche la doppia faccia di queste situazioni: quello che accade in privato in case in cui bianchi e neri erano parte di una stessa famiglia e quello che accade fuori con il distacco e il razzismo”.
E, allora , vai con la storia di questa Barbie volgarotta che scrive ai detenuti ospitati nel braccio della morte, che si convince dell'innocenza del prigioniero che ha la faccia di un  John Cusack febbricitante di ambiguità e passione, che porta dei giornalisti sulla sua via  con conseguenze variegate, scorrendo tra ossessioni erotiche e sesso spicciolo, rivelazioni e scoperte dell'ultim'ora. E vai con sesso e schiaffi, pose da Barbie vintage e look fatti in casa. Come lei confessa:"Perché dovrei dire che è stato imbarazzante trovarmi dentro giochi molto sexy? Amo andare in cerca di contrasti e diversità quando faccio il mio lavoro, mi piace soprattutto lasciare spazio all'immaginazione. Faccio questo lavoro per poter vivere vite diverse, non per soldi e per questo ho accettato anche standard più bassi di quelli cui sono abituata e il trucco anni 60 è tutto fatto in casa da me, avevo il bagno pieno di make-up e ciglia finte, facevo le prove, scattavo foto e le mandavo al regista per avere il suo ok”. Anche nelle scene erotiche aspettava il suo ok? “Lì mi sono dovuta spingere molto oltre, fin dove potevo e non ho potuto indietreggiare sino alla fine delle riprese”.
E Zac Efron, indaffarato con lei proprio in queste scene, rincara: "Con Nicole sul set  ero in estasi, anche perché sono sempre stato un po' innamorato di lei. È stata la migliore opportunità al mondo. Non dovevo sentirmi a mio agio con questo personaggio. È uno che impara a conoscere le regole del mondo, quindi è normale che sia disorientato. Mi sono divertito tantissimo a interpretarlo e spero di trovare altri ruoli così”.

Benicio all'Avana


Dirigere? “Non è molto diverso dal recitare”. Lo pensa Benicio Del Toro e, francamente, è uno dei pochi. Sarà, forse, perché per lui il debutto dietro la macchina da presa è un po' atipico: non proprio il carico di un lungometraggio ma di un piccolo film affiancato ad altri piccoli film di altri registi in "Sette giorni a L'Avana" presentato al festival. Sette registi per raccontare Cuba al presente. Che vuol dire anche ciò che resta del paese del Che e di Fidel. Sette registi per un film collettivo che vede Benicio del Toro, che è stato il Che per Steven Soderbergh (e in quello che considera il ruolo più importante della sua carriera), per la prima volta dietro la macchina da presa, a girare tra La Rampa de L'Avana, la strada più popolare della città, e l’Hotel Nazionale di Cuba, luogo di soggiorno preferito da attori e registi. Non a caso, perché l'episodio da lui diretto, El Yuma, e interpretato dallo statunitense Josh Hutcherson e dai cubani Vladimir Cruz (già in "Che - L'argentino") Jorge Perugorría ("Fragole e cioccolato") e Daisy Granados segue in una quindicina di minuti le prime 24 ore di un attore americano nella capitale cubana.
Ed è un “finalmente” dietro la macchina da presa dopo una serie di progetti di regia annunciati e annullati. E per Del Toro la realizzazione di un sogno sognato a lungo: “Anche se all'inizio temevo di non esserne all'altezza e di avere attacchi di panico. E, infatti, a lungo ho pensato di buttarmi nella scrittura piuttosto che nella regia ma, scrivendo (cosa certo più rassicurante) mi accorgevo che le immagini fluivano nella mia testa come sequenze, organizzate in inquadrature. E dunque era alla regia che dovevo avere il coraggio di puntare. Cosa che mi attraeva da sempre e, insieme, mi terrorizzava. Solo il produttore è riuscito a convincermi, lui e uno scrittore come Leonardo Padura Fuentes che ammiro moltissimo”.
Ed è stato proprio lui, emblema della contemporanea letteratura cubana, a dare il via e il filtro all'operazione, persino scrivendo alcune storie e aggiustandone altre. E' stato lui a coinvolgere tutti gli altri in questa coproduzione franco-spagnola: gli argentini Gaspar Noé e Pablo Trapero, lo spagnolo Julio Medem, il francese Laurent Cantet, il palestinese Elia Suleiman,  il cubano   (l'unico vero cubano) Juan Carlos Tabío. Il bosniaco Emir Kusturica, che interpreta se stesso nell'episodio diretto da Trapero dal titolo Martes. E Del Toro col suo “Yuma”, protagonista Teddy, lo straniero, che arriva nella notte dell'Avana per la prima volta. Arriva con la mappa e tutto ciò che serve per orientarsi ma non si orienterà in questa sua tappa iniziatica. Un taxista-ingegnere lo trascinerà con sé molto oltre l'Avana turistica, laddove vedrà e toccherà cose che non è abituato a sentire e a toccare.
Che cosa è in tutto questo a ricucire e far da fil rouge? Tra lo straniero Teddy e le altre storie? “Il fine e ciò che unisce tutti i film è il racconto di Cuba come un luogo dell'anima, ciò che è per me, tanto simile alla mia Portorico” dice Del Toro. E Padura: “Raccontare una Cuba reale in cui tutto è commedia e dramma, una Cuba oltre i troppi stereotipi dominanti. Una Cuba che oggi si è aperta al mondo come mai prima”.

Una vampira on the road

Kristen Stewart - Kirsten DunstBye-Bye Bell
. Kristen Stewart tra vampiri e licantropi mai più, adesso la giovane pallida che ha fatto impazzire frotte di fan e persino (anche fuori dal set) il "vampiro" Robert Pattinson, balla da sola, si spoglia, diventa bionda e si offre come mai prima in trasgressiva versione nella traduzione cinematografica di "On the road", romanzo-manifesto della beat generation by Jack Kerouac e romanzo che si cerca di portare al cinema da 30 anni, considerando che prima di arrivare alla regia di Walter Salles i diritti sono passati da Gus Van Sant a Francis Ford Coppola, per me un vero salto, molto liberatorio".
E film che lo stesso Kerouac aveva proposto nientemeno che a Marlon Brando che neppure gli rispose. Ora, invece, il film è persino arrivato al festival e alla competizione, con la Stewart che gongola mentre scivola sul red carpet, si presta a ogni scatto, persino fianco a fianco con la stangona Kirsten Dunst (vedere per credere la differenza di altezza tra le due che non ti aspetti) e, così cerca in tutti i modi di staccarsi di dosso gli abiti di Bella che le hanno dato tutto sino ad oggi ma potrebbero adesso toglierle molto, relegandola in filmoni per teen che la critica continua a stroncare. Lei lo ha capito bene e, infatti, racconta di essersi "buttata a capofitto in questo film diretto da un regista premio Oscar come Walter Salles che amo molto, cercando di dare tutta me stessa nell'interpretare una moglie bambina e con un forte desiderio di far qualcosa di completamente diverso. Forse per questo sono stata molto ansiosa sul set, di certo più nervosa di quando non mi trovavo sui grandi set di 'Twilight', in mezzo a decine di persone. Qui mi sono sentita davvero messa alla prova".
Così l'attrice che giura: alla prova di certo, ma imbarazzata mai. E perché avrebbe dovuto? "Non mi vergogno perché non si vergogna la mia Marylou. Io poi sono una persona che ama mettersi alla prova. Mi piace spingere e spaventarmi quando affronto un nuovo ruolo. Sapevamo di dover andare sempre oltre e oltre così come fanno i protagonisti del romanzo e lo abbiamo fatto".
Già ed ecco questo attesissimo "On The Road", prodotto da Coppola, accolto da una folla di cronisti e addetti ai lavori stipati davanti a Salles che spiega: ''Mi piacerebbe che 'On The Road' fosse visto da un pubblico giovane, che si abbandonasse al percorso anche doloroso dei giovani protagonisti che alla fine si interrogano sul senso della loro esistenza e che li spingesse a leggere il libro di Kerouac con la stessa passione con cui l'ho letto io a 17 anni, un'opera di rottura che mi ha segnato''. Impresa rischiosissima, tanto che - continua Salles - ''prima ho realizzato un documentario, percorrendo tutti i settemila chilometri descritti minuziosamente nel libro di Kerouac, intervistando quante più persone possibili legate alla beat generation, come Lawrence Ferlinghetti, incontrando John Cassidy, il figlio di Neal, il poeta icona della beat generation che nel romanzo si chiama Dean Moriart".
Che cosa ha trovato alla fine del percorso? "Ho capito che 'Sulla strada' non era un racconto sulla beat generation, che arrivò più tardi, ma sull'epopea di due giovani ventenni che non erano consapevoli che quei viaggi avrebbero cambiato la loro vita del tutto''. Poi, dopo aver scelto il cast - da molto prima delle riprese aveva preso la Stewart, Sam Riley come il protagonista Sal Paradise, specchio di Kerouac, e Hedlund-Moriarty - l'ha portato "per quattro settimane in un camp boot, un soggiorno 'd'addestramento'''.

Del Toro racconta Cuba


Niente addestramento, invece, per Benicio Del Toro al debutto dietro la macchina da presa in "7 giorni all'Avana", nella sezione Un Certain Regard: sette registi per raccontare Cuba al presente. Che vuol dire anche ciò che resta del paese del Che e di Fidel. Da Gaspar Noé e Pablo Traperom, da Julio Medem a Laurent Cantet da Elia Suleiman, Juan Carlos Tabío. Con il regista bosniaco Emir Kusturica, che interpreta se stesso. E Del Toro cosa dirige?" "Yuma" che per protagonista ha Teddy, che arriva nella notte dell'Avana per la prima volta. Arriva con la mappa e tutto ciò che serve per orientarsi ma non si orienterà. Un taxista-ingegnere lo trascinerà con sé molto oltre l'Avana turistica , laddove vedrà e toccherà cose che non è abituato a sentire e a toccare".

Bertolucci "da camera"


Nove anni da "The Dreamers" e sembra un secolo. Perché nel frattempo per Bernardo Bertolucci (quasi) tutto è successo. "Niente è stato più come prima da quando sono stato costretto su questa sedia a rotelle" dice lui e questo ha tutto a che vedere con "Io e te" , lungometraggio nato dalle pagine di Niccolò Ammanniti e accolto a Cannes da una standing ovation.
Soprattutto film per non morire: "L'ho fatto per questo perchè dopo esser stato costretto in carrozzina mi sentivo morto - dice Bertolucci - Questo film è la mia rinascita, la mia uscita dalla depressione. Pensavo che non avrei mai più girato, poi ho letto il libro di Ammanniti cui si ispira il film e mi è sembrato perfetto, anche perché girato su un unico set".
Ecco le premesse di "Io e te", un Bertolucci "da camera" con due giovani (Jacopo Antinori e Tea Falco) protagonisti e fuori concorso "perché ho preferito non esserci ed evitare le eventuali malizie per la Palma d'Oro alla carriera ricevuta lo scorso anno".
Film-rinascita con tanto di Duca Bianco perché la chicca è una versione inedita di "Space Oddity" cantata da David Bowie in italiano su testi di Mogol, mentre scorrono le immagini di una ragazza che si dimena, danza, si agita e viene guardata da un lui.
E come si sente oggi da parmense Bertolucci sia pure lontano da Parma? "I cittadini della mia Parma hanno cacciato un sindaco incapace, sono andati verso il mondo dei grillini in cui forse non c'è solo demagogia. E' un segno positivo , un segno di cambiamento e non significa per forza volere Grillo in parlamento. Aspettiamo e vediamo". Soprattutto, intanto, vediamo questo film incorniciato in una cantina e in un preciso momento della giovinezza. Come lui racconta: "La cantina, tra l'altro a un minuto da casa mia, è quella in cui il quattordicenne Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori) decide di rifugiarsi per nascondersi dal mondo almeno una settimana, giusto il tempo di far credere all'apprensiva madre che è Sonia Bergamasco di essere in realtà insieme ai compagni di scuola in vacanza sulla neve. Gli adolescenti sono tutti a loro modo problematici, è tipico di quell'età ed è una cosa che mi commuove: si urla con i genitori, si fanno scene isteriche, proprio come quelle che vediamo nel film, si pensa sempre di scappare da qualcosa e da qualcuno. Il mio Lorenzo ha architettato tutto: acquista generi alimentari (bibite e succhi di frutta, scatolette di tonno e carciofini sott'olio, maionese e merendine...) per 7 giorni e si sistema insieme alle vecchie cose di casa, quelle che non servono più. Vuole stare solo ma non può, perché inaspettatamente lo travolge questa una furia, letteralmente, che si chiama Olivia, sorellastra del ragazzo e che lui non vede da chissà quanti anni, scesa in cantina per recuperare gli effetti personali custoditi in un polveroso scatolone.Lei è il grimaldello che poco a poco smuoverà Lorenzo a confrontarsi con una realtà che ha sempre rifiutato di conoscere. Lo costringerà a provare dei sentimenti".
E lei è la catanese Tea Falco, nelle mani di Bertolucci straordinariamente selvaggia e ribelle e alla terza prova cinematografica (ma alla prima volta da protagonista), fotoartista che nel 2011 ha vinto il Premio Basilio Cascella, tra i più prestigiosi in Italia. Come l'ha trovata Bertolucci? "Il merito è stato della casting director Barbara Melega, ma appena l'ho vista ho deciso che Olivia sarebbe stata lei. L'ho voluta fortemente anche per il marcato accento catanese, elemento che amo mettere in risalto, questo delle parlate, tutte le volte che torno a fare un film in Italia".

Corto siciliano


E siciliano si parla a Cannes anche con il corto "Terra" , interpretato da Giorgio Colangelo e firmato dal siciliano Piero Messina (già assistente alla regia per Sorrentino sul set di "This must be the place"), saggio di diploma prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia e selezionato nel programma Cinéfondation del festival, parte della selezione ufficiale con tanto di premi. Che cosa è lo racconta lo stesso regista:"E' la storia di un viaggio notturno di un uomo, che dopo molti anni decide di ritornare in Sicilia su una nave che attraversa lo Stretto. Di lui non si sa nulla e questa è stata una scelta precisa che io e lo sceneggiatore Giacomo Bendotti abbiamo seguito perché non volevamo raccontare una storia, bensì il sentimento racchiuso nel personaggio. Ci interessava sviluppare un rapporto di empatia che potesse legare emotivamente lo spettatore al protagonista. In fondo è solo la storia di un uomo nell'arco di una notte. Quella che trascorre su un traghetto che lo riporterà in Sicilia 30 anni dopo averla lasciata l'ultima volta. E' un road movie dove i personaggi stanno fermi su questa città luminosa sospesa nel buio".

Brad Pitt superkiller


Brad PittSembra un gangster movie e, invece, è un film sull'oggi fradicio di miserie e crisi. Gli americani? "La maggior parte dei film sugli americani mostrano il popolo degli Stati Uniti come vorrebbe essere visto. Il solo genere che li mostra davvero per quello che sono è quello criminale perché si tratta dell'unico genere dove è accettabile che tutti i personaggi non pensino ad altro che al denaro". E' chiaro ed essenziale Andrew Dominik, regista di "Killing Them Softly", in concorso con un Brad Pitt superkiller, Richard Jenkins, James Gandolfini e Sam Shepard, cornice l'ultima campagna elettorale americana.
E' essenziale Dominik nelle parole e anche nelle immagini. E non meno chiaro ed essenziale è il suo killer, con la faccia di Brad Pitt: "Tutto questo parla dell'oggi. Non è bello ma è così, questo è il mondo in cui viviamo. E' troppo violento? Lo è, certamente, ma è giusto mostrarlo".
Eccolo alla sua seconda volta con Dominik, dopo "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford". E' stata una rimpatriata? "Sì, del tutto. Non c'è stata differenza tra realizzare 'Jesse James' e questo. Con Andrew è come continuare un discorso: ha un radar con cui capisce perfettamente il comportamento umano. Discutiamo e litighiamo, ma sempre con rispetto. E mai sul set, sia chiaro".
Ma che cosa questo film ha a che vedere con la sua carriera in questo momento? "Più di quanto non si creda. Perché non solo come attore, ma anche come produttore mi piace focalizzarmi su film che avrebbero difficoltà a essere realizzati e cerco anche storie che dicano qualcosa dei nostri tempi. Mentre leggevo la sceneggiatura, mi venivano in mente quelli che non si possono permettere il mutuo, che vivono per strada. Questo film parla anche di loro. Ma è tutto nel sottotesto. D'altra parte anche il prossimo 'World War Z' parla di questo. Di zombie che hanno devastato il pianeta, scatenando una guerra e sterminando la popolazione, di un inviato dell'Onu che gira il mondo per intervistare i testimoni chiave degli eventi e ricostruire la catastrofe che ha quasi portato all'estinzione del genere umano. Un film di zombie, certo, in apparenza, ma alla fine l'argomento è lo stesso".
E rincara la dose il regista: "Del romanzo cui si ispira il film mi piacevano i personaggi. "Cogan's Trade", il libro di George V. Higgins da cui il film è tratto mi è parso perfetto. Mentre lo adattavo mi sono reso conto che, sotto le apparenze, era una storia sulla crisi finanziaria, ambientata nel mondo del gioco d'azzardo e dei regolamenti di conti. I film sul crimine parlano di capitalismo, perché tutti i personaggi sono motivati dai soldi. In un certo senso sono i ritratti più veritieri dell'America. Pensate solo a Hollywood, dove tutti vivono per il denaro".
Come dire, tempo di crisi tempo di antieroi. E, infatti, la colonna sonora del film è l'intreccio di notiziari tv con la musica integrata nella sceneggiatura e anche con  i brani scelti, da Johnny Cash a Lou Reed, inseriti nella score in funzione della storia narrata e  il finale incornicia il presidente Obama in tv che parla con enfasi a Chicago degli ideali americani mentre il killer professionista Brad Pitt, seduto in un bar con una birra in mano, commenta ironico: "Il nostro paese non è affatto questo, la verità e che si è sempre da soli e che l'America è solo business, violenza, denaro". Dunque anche Obama può essere coinvolto nel deprimente calderone? "No, la citazione del discorso di Obama nel film non voleva essere un fatto cinico. Le sue idee sono condivisibili anche se le cose poi vanno in modo del tutto diverso. E non è un caso se il film è stato concepito all'apice della crisi del mutuo ipotecario, di fatto criminale".
E il regista rincara la dose: "Il mondo in cui viviamo è tremendo, ma il film contiene un messaggio positivo. Non comprendo il timore della violenza perché questa fa parte della nostra cultura, basta leggere le fiabe classiche, come quelle dei fratelli Grimm, che sono necessarie per lo sviluppo dei bambini perché drammatizzano le loro preoccupazioni insegnando loro a gestirle. E' quello che fa anche il mio film che contiene un insegnamento per cavarsela in un mondo competitivo. Se applichiamo la teoria, dell'id, ego e superego tutti i miei personaggi sono riconducibili a queste specifiche categorie. Il messaggio è di mantenere la lucidità, non nutrire il proprio ego e non indulgere nelle punizioni auto-inflitte. Se riuscirete a mettere in pratica questo consiglio ve la caverete anche in mondo difficile e arduo come quello del capitalismo".
Ed è inutile azzardare che forse la violenza è  troppa e gratuita e che il sangue scorre a litri: "La troppa violenza non viene dai videogiochi, che tra l'altro non amo, ma solo perché fa parte del mondo reale".
Anche la filosofia (in realtà piuttosto trita) del killer con la faccia e il biondocapello di Brad: "Hai mai ammazzato qualcuno? E' una cosa imbarazzante. Piangono, supplicano, si pisciano addosso, chiamano la mamma. Io preferisco ammazzarli con dolcezza, da lontano".

Gli angeli di Ken Loach

Ken LoachAncora crisi a Cannes. Anche per il combattente Ken Loach, che porta in concorso "The Angel's Share" e si addentra in una storia di delicate sfaccettature, tragica e comica insieme, inizia drammatica e finisce in sorriso con musica energizzante. Come la vita, a volte. Storia tutta zoomata su un giovane delinquente condannato ai lavori sociali: siamo nella Glasgow di oggi senza futuro per i giovani, dominata dalla delinquenza , sporcata dalla violenza. Periferia grigia e identica a se stessa, povertà a fior di pelle e sgrammaticata parlata locale, il glaswegian, così incomprensibile che il film è stato sottotitolato anche in inglese ma, dice Loach , "potevamo usare solamente quel tipo di parole per rispettare la realtà del luogo che stavamo raccontando: alla fine abbiamo tagliato quelle espressioni che ci sembravano più aggressive perché sappiamo che la middle class britannica è ossessionata dal linguaggio scurrile".
Robbie si intrufola furtivamente nell'ospedale in cui la fidanzata ha appena partorito e, abbracciando il figlio appena nato, gli promette una vita migliore della sua, poi fugge braccato dal padre della ragazza e dalla polizia che lo insegue per un reato commesso in passato. Ma il nostro protagonista una seconda possibilità l'avrà (perchè Ken Loach, invecchiando sta diventando sempre più buono), riuscendo a evitare la detenzione, mentre sconta la sua condanna offrendo servizi utili alla comunità, Robbie incontra tre piccoli criminali che non riescono a trovare lavoro e con loro progetta una nuova vita. Appena potranno si trasferiranno nelle colline scozzesi per dedicarsi alla produzione del miglior whisky al malto, scoprendo capacità che non credevano di avere.
E Loach spiega: ''La crisi economica è spaventosa e le giovani generazioni sono le più colpite. Casa, lavoro, sanita', sicurezza sociale: è ora di stabilire che queste sono le priorita' e che stiamo correndo il rischio, in termini di welfare, di tornare indietro di decenni. E' ora di gridarlo".
E meno male che c'è il whisky: "Il whisky gioca un ruolo per Robbie molto simile a quello che aveva il falchetto per Billy Casper in 'Kes' , un altro mio film del 1969: è sicuramente grazie al whisky che scopriamo il grande talento di Robbie. La grande differenza tra i due, però, è che 'Kes' era ambientato negli anni 60 e Billy Casper aveva un lavoro: nel 2012, Robbie un lavoro non ce l'ha. E il suo talento nel degustare il whisky è un modo per osservare l'energia e la determinazione di questo ragazzo".
È Harry a farglielo provare per la prima volta, inconsapevolmente ponendo le basi per la svolta. Aiutata da un ultimo, geniale crimine consumato in un viaggio per le distillerie scozzesi. Quattro amici improvvisati che combinati insieme fanno esplodere una vera e propria bomba, che un lavoro non lo troveranno mai, perché non si sognano nemmeno di cercarlo. Però sono furbi e intelligenti abbastanza da riuscire a mescolarsi a potenti degustatori e partecipare all'asta del whisky più straordinario sul mercato. Storia fortissima che Loach ha scelto "di non dirigerla come commedia ma semplicemente mostrare i personaggi così come sono, con i loro drammi, e lasciare che la risata nascesse naturalmente nell'affrontare quella tragedia, accettarla, e decidere di riderci sopra".
Gradevole come quella parte di whisky che evapora dalla botte e, come recita il titolo, è "la parte degli angeli".

Resnais ha ancora voglia di correre

"Vous n'avez encore rien vu" ("Non avete ancora visto niente") minaccia o incita sin dal titolo il novantenne Alain Resnais, leggenda del cinema (non solo) francese che porta a Cannes in concorso ("perché ho ancora voglia di correre") questo film con la sua energizzante attrice di sempre Sabine Azema e avverte: "Se pensate che sia un film-testamento, vi sbagliate di grosso. Questo film è diverso da qualsiasi altro abbia mai realizzato e se avessi pensato che sarebbe stata la mia 'opera-testamento' non avrei mai avuto né il coraggio né le energie per farlo".
Ma il sospetto è lecitamente venuto, suggerito dalla struttura stessa del film: il maestro francese che ha ispirato la Nouvelle Vague gioca/sfida/se ne frega del tempo, mettendo in scena un gruppo di famosi attori francesi che viene convocato per l'estremo saluto a un amico famoso drammaturgo in un maniero metà dimora e metà palcoscenico, dove i teatranti devono visionare e valutare la rappresentazione dell'Euridice (cavallo di battaglia del defunto) da parte di una giovane compagnia.
Il gioco inizia qui, un palleggio tra scene recitate dai nuovi attori e scene recitate dalle coppie degli interpreti che si sono succeduti nel tempo, in un gioco di specchi e sovrapposizioni recitative. Quattro atti di recitazione teatrale molto classica e sino alla fine bisogna stare al gioco. E in cosa consiste il gioco secondo Resnais? "Il gioco del film consiste tutto nel fatto di non sapere assolutamente quello che si andrà a fare, così ho lavorato con i miei attori. Più il risultato, mentre giravo, diventava diverso da quello che avevo nella mia testa e meglio il film rispettava l'idea originale di questa impresa. Questo modo di lasciare fluire lo sconosciuto fa la sorpresa di un film".
Insieme agli attori: una piccola folla, da Lambert Wilson a Pierre Arditi, da Sabine Azéma a Anne Consigny, da Hippolyte Girardot a Michel Piccoli, a Mathieu Amalric, tutti nella parte di loro stessi per assistere su un maxi-schermo piazzato nell'enorme dimora di d'Anthac alla rappresentazione della stessa piece messa in piedi però da una giovane Compagnie de la Colombe.
E' troppo teatrale tutto questo? Troppo chiuso e ripiegato su se stesso? "Non direi - dice il regista - La gente spesso definisce il teatro come un arte nobile considerando i film come se non lo fossero ma in entrambi casi, C'è bisogno degli attori, che sono tutto". Forse, ma sommati a Alain Resnais, è magia: "L'impressione continua era quella di lavorare in una costante atmosfera di reale magia. Ho chiesto a Eric Gautier, il direttore della fotografia, l'impossibile: lui mi ha sorriso e ha fatto in modo che accadesse. Agli attori invece ho chiesto di entrare in una sorta di trance, di sonnambulismo, e ho preteso che non si svegliassero".

Isabelle Huppert si fa in tre per Sangsoo

Isabelle HuppertTre donne alla coreana. Ricompare Isabelle Huppert, già interprete dell'ultimo film di Michael Haneke presentato  al festival due giorni fa e si fa in tre. Solo lei tre ruoli di donna in "Another Country" di Hong Sangsoo, che quando l'ha chiamata sul set non le detto quasi nulla. A volte succede: "Molto di rado però si arriva dall'altra parte del mondo sapendo di dover interpretare più di un ruolo ma senza avere nulla in mano, neppure uno script. E' stata un'avventura, un incanto. Lui lavora così in un modo davvero particolare, praticamente senza script. E, poi, in Corea mi sono sentita come a casa. E ho avuto la fortuna di poter lavorare con ottimi attori: la loro estrema gentilezza mi ha profondamente toccata. Non capita spesso".
"Dove è il faro?" domandano le tre donne, che tutte e tre di nome fanno Anne, interpretate dalla Huppert, e solo questo le unisce. Insieme al fascino che esercitano sugli uomini del luogo. Tutte e tre. La distratta regista di successo in visita a un collega coreano che tra poco sarà padre ma intanto flirta con lei, la donna sposatissima con un manager, ma amante di un insopportabile regista e la terza Anne, madre di due figli ed ex-moglie di un uomo che l'ha tradita con la sua segretaria.
Tutte e tre cercano un faro. Una via di fuga.

Kiarostami in Giappone


Nel 1997 vinse la sua Palma d'Oro con "Il sapore della ciliegia", ma oggi è un'altra storia. Come una storia stemperata, più pallida, bella ma meno toccante. E' sempre il grande Abbas Kiarostami, ormai da anni in ricognizione nel mondo, dopo l'Italia di "Copia Conforme" stavolta in quel di Tokyo, ma non è più il quintessenziale e lacerante Kiarostami dei Novanta. Il tempo passa per tutti e per tutti in modo diverso. Stavolta, nella co-produzione franco-nipponica, "Like Someone in Love" (frutto anche del sacrificio del suo finanziatore Marin Karmitz, che ha venduto all'asta uno dei suoi pezzi d'arte più preziosi per ottenere parte dei fondi e girare il film) ci racconta l'amore ai tempi della solitudine metropolitana in una Tokyo labirintica senza appello e tra due persone dalle solitudine che non si somigliano, ma si incrociano e, persino, si incastrano.
Le solitudini di un uomo avanti negli anni e di una giovane donna. Meglio: la giovanissima escort Akiko, nel giorno in cui la nonna giunge dalla campagna a Tokyo per passare la giornata con lei, si fa ugualmente convincere dal suo protettore a trascorrere la notte con un anziano professore in pensione, la cui attività principale è quella di scrittore e traduttore. E via da questo precipizio, ma non nel modo in cui banalmente si potrebbe pensare, perché la storia si allarga, entra in gioco un fidanzato e il vecchio diventa persino un prezioso mentore o qualcosa che vi somiglia. La sorpresa è il come. Anche se sono volati fischi a fine proiezione, dopo gli applausi dell'inizio.
Che cosa ha da dire il regista? "E' possibile che il finale non soddisfi qualcuno. Io ho scritto la sceneggiatura e ho capito che c'era qualcosa di incompiuto. Più andavo avanti, più mi rendevo conto che il film non aveva nemmeno un inizio. È così che ho capito che è proprio quello che accade nella vita reale. Noi arriviamo sempre a storia già iniziata. Il mio film non ha né inizio né fine, tocca a voi immaginarli. Se a qualcuno dispiace, peccato!".
Nel senso di "peggio per loro" e meglio per quelli che, come lui, sanno che certe emozioni sono di tutti, condivise e condivisibili ad ogni latitudine. Come dice lui: "Ho sempre pensato ai giapponesi come al popolo più lontano dalla mia percezione. La cosa che mi ha convinto a fare il film è stata proprio la condivisione delle stesse emozioni. Se fossi riuscito a mettere tutto su pellicola, avrei dimostrato nel mio film che gli esseri umani sono tutti uguali. Ma io stesso posso dire che avrei reagito allo stesso modo dei miei personaggi. L'Iran e il Giappone e il resto del mondo sono molto simili, tutti ci emozioniamo allo stesso modo, anche possiamo reagire diversamente".
E gli fa eco il protagonista: "Non potevamo prepararci - afferma Tadashi Okuno - Abbas non voleva, mi ha chiesto se potevo essere me stesso il più possibile. Doveva essere una cosa molto naturale: se avevo troppa luce sul volto, potevo indossare gli occhiali da sole in qualsiasi momento. Se ero affaticato, dovevo mostrarlo. Lui voleva il massimo dell'autenticità". E questo si vede.

L'amore secondo Haneke


Per il regista del dolore e del sadismo, già vincitore nel 2009 della Palma d'Oro con "Il nastro bianco", l'amore non può che odorare di morte. E, infatti, il suo  "Amour" passato in concorso nella quarta giornata del festival gronda tristezza nerofumo e si consuma tra finestre chiuse e in un appartamento tombale; non solo perché è la storia di una donna che si ammala, del marito che la accudisce sino alla stremo, della figlia che guarda da lontano ma perché, come dice Haneke: "Non volevo fare una pellicola che rifletteva sulla società. Sono partito dal fatto che prima o poi nella vita bisogna confrontarsi con la sofferenza di qualcuno che ami. E poi non ho mai scritto un film per provare qualcosa. Quando raggiungi una certa età, sei inevitabilmente pervaso da un senso di sofferenza. Io non voglio mostrare altro se non questo e proprio per questo ho girato il film interamente in un appartamento. Non mi interessava ritrarre la sofferenza all'interno di una stanza d'ospedale, perché credo sia qualcosa che abbiamo già visto e rivisto: a conti fatti, comunque, sono davvero contento di aver fatto un film semplice".
Per raccontare questo Jean-Louis Trintignant è tornato, a 81 anni, su un set, al fianco di Emmanuelle Riva e dell'attrice feticcio del regista, Isabelle Huppert. E se il veterano Trintignant dice "questa è una parte eccezionale che non potevo rifiutare per il semplice fatto che in quest'uomo ho visto me stesso", la Huppert (al festival anche nel coreano "In Another Country") confessa: ''Avevo già lavorato al cinema con Trintignant, interpretando sua moglie e ora sono la figlia, mentre per ciò che riguarda Haneke, non è vero che sia difficile lavorare con lui. È esigente ma alla fine appagante per un attore".
Riprende la palla Trintignant: "Era dal 1998 che non recitavo al cinema. Preferisco di gran lunga il teatro. Anche perché odio riguardarmi sullo schermo. Ho sempre stimato Haneke, quindi non ho esitato quando mi ha chiamato per il film. Penso però che questa sia l'ultima volta che mi vedrete al cinema. Certo, si tratta di un'esperienza dolorosa ma bellissima. Non ho mai conosciuto un regista che ti chiede così tanto. Sa cosa vuole e conosce ogni mezzo per fare cinema: sul set parla con tutti, dagli attori agli specialisti del suono, con tutti, nessuno escluso".
E anche Haneke ha qualcosa da dire a proposito dell'atmosfera sul set: "È un'idea molto romantica pensare che se il film è tragico, allora l'atmosfera sul set deve essere tale. In realtà posso elencarvi pellicole drammatiche girate su set allegri e, ancor di più, commedie la cui lavorazione è stata apocalittica. Io, poi,  lavoro più con le mie orecchie che con gli occhi. È una cosa che mi porto dietro da quando dirigevo gli attori a teatro: me ne stavo sul backstage a strofinarmi gli occhi, concentrandomi sui dialoghi. Gli attori venivano da me e si sentivano abbandonati, io gli spiegavo che sentire la loro battuta mi permetteva immediatamente di capire se funzionava o meno".
E allora ecco la morte, anzi la morte d'appartamento targata Michael Haneke che racconta di una coppia di ottantenni professori di musica in pensione, Georges e Anne (un Jean-Louis Trintignant da Palma e Emanuelle Riva), con lei che si ammala fino alla semi-paralisi. E George che la accudisce come una bambina, sino alla fine, sino allo stremo. Per lui 81 anni, accoglienza carica di affetto al festival proprio mentre esce in Francia la sua aggiornatissima autobiografia, a quasi 10 anni dalla tragedia della morte violenta della figlia Marie. E lui: ''In questo film ho visto me stesso, nel mio personaggio mi sono raccontato". E poi indietreggia nei ricordi di dolore: "Nel libro racconto della piccola Pauline, morta in culla a Roma, improvvisamente, durante la lavorazione de "Il Conformista". Con Nadine e le nostre figlie Pauline e Marie abitavamo in un appartamento, quando una mattina uscendo per andare sul set trovai Pauline senza vita. Dissi a Nadine: ‘non mi suicido solo se viviamo per Marie'. Ma Marie è stata uccisa di  a Vilnius, nel 2003, dal suo compagno Bertrand Cantat. E questa è la storia del mio dolore. Anche io come il protagonista di questo film ho tanto sofferto."
Chissà se si è specchiato anche nella sequenza finale che lo vede dare la caccia a un piccione all'interno della casa, scena di quelle che non si dimenticano: "In effetti quella scena è stata pesante da girare, perché Michael voleva a tutti i costi dirigere il piccione. Ci sono voluti due giorni e due piccioni per girarla. Michael non era contento del lavoro del primo".

Tra l'azione di 007 e la musica di Tom Jobim

Berenice MarloheIn una delle giornate più cupe del festival, cinematograficamente e meteorologicamente, arriva la leggerezza vacua di Paris Hilton che, anche sotto la pioggia e nel vento, vuole esserci ad ogni costo, e quella di James Bond che torna per la sua ventitreesima avventura, diretto dal regista Sam Mendes. L'agente 007 stavolta è impegnato a testare la propria lealtà nei confronti di M quando il passato della donna torna a farle visita. MI6 finisce sotto attacco e Bond dovrà localizzare e distruggere la minaccia a qualunque costo. Non lo vedremo prima dell'autunno ma Bérénice Marlohe, la francesissima neo-bondgirl, è venuta a Cannes per iniziare la promozione di "Skyfall", e oggi farà da madrina alla presentazione del primo teaser trailer del film di Mendes, in occasione di una serata di Cannes Classic sulla spiaggia, con la proiezione di "Dalla Russia con amore".
E certo porta colore anche Pete Doherty, leader dei Babyshambles, che qui a Cannes è in veste di attore  nel film "Confession of a Child of the Century" di Sylvie Verheyde, al fianco di Charlotte Gainsbourg, nella sezione un Certain Regard, adattamento dell'omonimo romanzo di Alfred de Musset (pubblicato nel 1836) in cui il poeta descrive, attraverso l'amore tra Octave e Brigitte, i tre  anni vissuti con la scrittrice George Sand, molto avventurosamente.
Solo musica e niente parole per la bellezza di 84 minuti per documentare ciò che ha lasciato  Antonio Carlos Jobim, solo  le sue composizioni principali - da Agua de Beber a Chega de Saudade a Aguas de Marco - mixate alla celebre "Ragazza di Ipanema", inno alla sensualità carioca composta con Vinicius de Moraes nel lungometraggio del regista Nelson Pereira dos Santos, già circolato in alcuni festival internazionali, sbarcato a Cannes fuori concorso, nella sezione Proiezioni Speciali, "A musica segundo Tom Jobim", il film che racconta le canzoni, la poesia e la vita di uno dei principali compositori brasiliani contemporanei, scomparso nel 1994, conosciuto nel suo paese semplicemente come O Maestro.
Dentro tutto un mondo e le interpretazioni di giganti come Ella Fitzgerald, Etta James, Judy Garland, Sammy Davis Jr., Henri Salvador, Sarah Vaughan, Diana Krall, Dizzy Gillespie e Oscar Peterson e, a raccontarci la  contaminazione tra bossa nova e jazz, anche  un cameo di Mina, l'unica artista del nostro paese a essersi confrontata con il repertorio brasiliano.
Insomma, tutta musica in attesa che la voce di un David Bowie giovanissimo, che ci lascia di stucco  cantando in italiano nel film di Bernardo Bertolucci "Io e te", risuoni alta e forte nella melodia che è una delle sue più note, quella di "Space Oddity", mentre scorrono le immagini di una ragazza che si agita e danza sotto gli occhi di un uomo pronto ad abbracciarla.

La prima volta di Argento in 3D

Dario Argento - Asia ArgentoMentre arriva la notizia che cominceranno in estate, con la regia di David Gordon Green, le riprese dell'attesissimo remake di ''Suspiria'', uno dei film cult di Dario Argento, interpreto da Isabelle Huppert, Tilda Swinton, Janet McTeer (la rivelazione di ''Albert Nobbs'') e Michael Nykvist, il protagonista della trilogia ''Millennium", Argento presenta al mondo la sua rilettura della  leggenda del principe vampiro, narrata con gli occhi di Jonathan, giovane bibliotecario chiamato a lavorare per il Conte Dracula nel suo "Dracula 3D".
Innamorato segretamente di Mina, Jonathan non esita a restare anche dopo aver conosciuto la natura letale del suo ospite e a soccorrerlo sarà solo Van Helsing, leggendario cacciatore di vampiri.
Rilettura con un occhio a Coppola e un altro al sottotesto del romanzo di Stoker, che una passione da sempre. Come Argento racconta: "Dracula mi ha sempre affascinato, sia il romanzo che il film e di recente mi è capitato di rileggere il libro. Ho trovato degli elementi che sino ad oggi non sono stati sviluppati a dovere, per esempio le metamorfosi di Dracula in animali, e ho pensato di puntare proprio su questo. Ho pensato che offrisse molti spunti dal punto di vista estetico, soprattutto grazie agli effetti speciali. Ma mi ha spinto anche il grado di sviluppo del 3D con cui oggi si possono fare cose impensabili sino a ieri. Ho pensato che potevo dare la mia personale lettura di Dracula grazie a tutto questo e ho cercato di realizzare un horror ma dai colori molto accesi, un horror diverso dai tanti horror contemporanei e per questo la collaborazione col direttore della fotografia Luciano Tovoli è stata fondamentale".
Così Argento ha girato il tutto in 10 settimane, volendo al suo fianco Thomas Kretsschmann, Rutger Hauer e la figlia Asia ("Amo sempre lavorare con mia figlia, con lei c'è un'intesa perfetta") ma, alla fine, ha deciso di non girare affatto in Transilvania. Perchè? "All'inizio volevo farlo e, infatti, sono anche andato sul posto per fare dei sopralluoghi. Ma poi ho capito che non era possibile perché tutto è troppo contemporaneo, i castelli sono stati trasformati in Bed & Breakfast. Allora sono andato a girare dalle parti di Biella , nel borgo medievale di Ricetto di Candelo, luogo ancora molto antico e molto ben conservato".
E come si sente alla sua prima volta a Cannes, sia pure fuori concorso e in una delle proiezioni di mezzanotte? "Felice. Il direttore de festival Fremaux mi aveva detto che se avessi avuto qualcosa da proporgli di pronto , lo avrebbe preso senz'altro. Poi lo ha visto prima di dirmi di "sì", gli è piaciuto ed eccomi qui".

Al di là delle colline

Nel 2007 quando Cristian Mungiu  portò a casa la Palma d'Oro per il durissimo "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni" andò via anche carico di contestazioni , più o meno gratuitamente moralistiche, quest'anno non va giù più leggero perché porta al festival l'amore lesbo dentro un convento e la follia dell'esorcismo che uccide. Ecco "Al di là delle colline", film in concorso e davvero senza sole, senza sorriso, tutto orrore emotivo. Che coinvolge persino l'amore (vero) di Alina (Cristina Flutur) che fa un lungo viaggio per raggiungere la sola donna che abbia davvero amato, la mite Voichita  che nel frattempo si e' fatta suora. Ma Alina la vuole ad ogni costo, è pronta a portarla via dal convento ma anche a entrarci lei stessa  pur di restarle accanto e tutto si complica. Sino al comparire di strani sintomi , quando tutto gridano ai segni della possessione.
Mungiu preme sull'acceleratore e mixa esorcismi , morte, amore lesbo, vita da eremiti, indifferente a ogni senso della misura ma lui ripete: "Il mio è soprattutto un film sull'amore e sul libero arbitrio, e principalmente sul modo in cui l'amore deve confrontarsi con il concetto di bene e male. La maggior parte dei più grandi errori di questo mondo sono stati compiuti in nome della fede e nella convinzione che erano compiuti per una buona causa. Il film racconta di una regione del mondo dove una serie infinita di orrori e atrocità di ogni sorta ha trasformato la gente, li ha resi incapaci di reagire. Non è loro colpa, ma semplicemente l'istinto di sopravvivenza".
Ma non  tutto: "Vuole essere anche un atto di denuncia di un certo modo di vivere la religione. Lavorando sul film ho letto che per la Chiesa Ortodossa ci sono ben 464 peccati. Ne manca solo uno quello dell'indifferenza".
Ancora violenza ma adrenalinica nel nuovo film di John Hillcoat (già regista di "The Road"), "Lawless", gangster movie ambientato all'epoca del proibizionismo, sceneggiato dall'amico musicista Nick Cave, che ha adattato il romanzo "La contea più fradicia del mondo" e che ha cominciato con dichiararsi "un fan di Sergio Leone e mi piaceva l'idea della dimensione epica di questa storia . E poi spiega: "Mi interessavano sentimentalismo e violenza: l'elemento della love story tra i personaggi di Tom e Jessica Chastain e quelli di Shia e Mia Wasikowska. Allo stesso tempo mi affascinava avere a che fare con una storia così violenta. Odio la violenza gratuita al cinema, ma mi affascina vedere che tale brutalità possa essere così rapida e lasciare dietro un bel casino" .
E se Shia Labeouf confessa: "Avevo diciotto anni quando ho fatto "Disturbia". All'epoca di "Wall Street" ne avevo ventitré. Questa volta sembro più ragazzino, perché mi vedete circondato da uomini tosti e ho il ruolo del più fragile dei tre fratelli protagonista". La Wasikowska, qui figlia di un pastore pronta a spezzare il cuore al padre per iniziare una storia con LaBeouf, riflette. "E' curioso ma mi trovo sempre a interpretare personaggi che si sentono spaesati nell'epoca in cui vivono".
Già l'epoca. Di nuovo quella del proibizionismo: "Credo che quella sia l'epoca in cui è nato il vero crimine organizzato. Inizialmente aprivo il film con un montaggio in cui mostravo i cartelli della droga messicani, l'eroina a New York e poi tornavo indietro nel tempo al proibizionismo. Si tratta di un'epoca con cui possiamo identificarci oggi nella nostra crisi economica". E Nick Cave: "Penso che sia un tema più che mai attuale. Ieri con l'alcool, adesso con le droghe leggere. Ancora oggi abbiamo il proibizionismo, e ancora oggi fallisce. In questo senso, è una storia contemporanea. Il tema  è più che mai attuale, dove c'era la lotta all'alcol oggi c'è quella alle droghe".
E il regista rincara: "Proprio per queste ragioni inizialmente pensavo di aprire il film con scene di oggi, il traffico di droga in Messico e l'eroina a New York. La crisi del '29 ieri e quella attuale oggi".

La Caccia di Vinteberg e Mikkelsen

La caccia è all'uomo. Presunto colpevole, presunto bugiardo, presunto pedofilo. Presunto e basta. Ma è sufficiente perché un intero paese  inizi la caccia.
Thomas Vinterberg torna a Cannes, in concorso, 14 anni dopo lo shock portato con "Festen"  e stavolta al centro del suo nuovo film, "The Hunt" appunto, c'è un uomo (Mads Mikkelsen) che sta provando a ricostruirsi una vita dopo il divorzio, che ha trovato un lavoro in un asilo, che ha trovato una compagna, ritrovato il rapporto col figlio ma in un lampo perde tutto questo. Solo per un sospetto. Come spiega Vinterberg: "Il film è ambientato in un piccolo centro danese, dove le notizie corrono veloci, si diffondono come un virus. Se vogliamo è lo specchio di quello che oggigiorno accade nel mondo, trasformato da internet in un piccolo villaggio pieno di rumours. L'idea mi è venuta una sera d'inverno nel 1999, quando uno psicologo dell'età infantile ha bussato alla mia porta volendomi far leggere una documentazione delirante sui bambini e la loro immaginazione. Mi parlava di 'falsi ricordi' e delle sua teoria seconda la quale il pensiero è come un virus. Solo dieci anni più tardi, avendo bisogno di uno psicologo, l'ho chiamato e per essere gentile ho letto finalmente quei documenti. È stato per me un choc. Ho capito che avevo una storia da raccontare, la versione moderna della caccia alle streghe".
E l'attore Mads Mikkelsen, per la prima volta diretto dal regista, riconosce : "Il personaggio che interpreto ama profondamente i bambini, ma questo amore lo porterà a conoscere una paura profonda. Il film non vuole rinnegare il fatto che esistano, purtroppo, innumerevoli casi di pedofilia: si concentra su un adulto vittima di una caccia alle streghe. E' questo il senso del lavoro di Vinterberg".
E aggiunge Vinterberg: "Abbiamo effettuato enormi ricerche prima di girare il film. Ci siamo ispirati a numerosi casi di abusi sessuali riportati dagli organi di stampa. I bambini sono comunque le vittime, anche quando l'abuso è solamente presunto, perché soffrono il fatto di aver mentito per soddisfare le richieste degli adulti. In Danimarca c'è un detto secondo il quale solamente i bambini e gli ubriachi dicono sempre la verità. Ovviamente non è così". Molto applaudito dalla stampa, il film è ancora senza distribuzione italiana, giusto per la cronaca.

E finalmente toccò all'Italia

Matteo GarroneIl Grande Fratello ma solo per parlare di noi. Dell'Italia di oggi. Di ciò che siamo diventati. Il Grande Fratello secondo Matteo Garrone che con "Reality" torna a Cannes a tre anni dal successo di "Gomorra" e ci tiene a precisare che "non ho voluto fare un film di denuncia, né scagliarmi contro un certo tipo di televisione: sono partito da un fatto accaduto e nelle premesse volevo realizzare un piccolo film che mi aiutasse a superare l'ansia da prestazione dopo il successo ottenuto con Gomorra. Per ritrovare il piacere di fare cinema, di divertirmi. La stampa straniera ha avuto la percezione che si trattasse di un film politico, di un ritratto spietato? Ognuno ci vede quello che vuole, a me sono arrivate voci secondo cui alcuni giornalisti stranieri non lo abbiano amato proprio perché poco di denuncia rispetto all'altro ma io voglio solo dire che non è un film sul Grande Fratello, lo sfiora soltanto e nasce dal desiderio qualcosa di molto diverso da "Gomorra", appunto una commedia che parla di molto altro".
Insomma aspettatevi ben altro che una commedia sui reality, anche perché il protagonista davvero sorprendente del film Aniello Arena non c'è sulla Croisette per la semplice ragione che sta scontando un ergastolo nel carcere di Volterra. Attore detenuto della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra, è stato scoperto da Garrone grazie agli spettacoli diretti da Armando Punzo a "Volterra teatro d'estate" dentro il carcere e qui interpreta Luciano, un pescivendolo napoletano che dopo aver effettuato un provino per il Grande Fratello incomincia a credere di essere osservato, fissandosi che prima o poi la chiamata per entrare nella "casa" arriverà. A scapito del lavoro, degli affetti e della propria salute mentale. La chiamata "divina". E tanto basta per capire verso dove va il film, commedia forse, dramma contemporaneo sicuramente ma trattato con cupezze tenute sotto tono, a bassa voce e senza la cruenta esplosività di "Gomorra". Però c'è tutto l'orrore per l'ossessione che può diventare il bisogno di esserci, dentro la scatola domestica e dentro qualsiasi cassa di risonanza mediatica. E, infatti, impazzisce il nostro pescivendolo quando, dopo aver fatto il provino per il Grande Fratello non viene selezionato, la paranoia monta, la moglie si dispera e lo psicologo parla di choc da Grande Fratello. E lui, che sino a quel momento si era dato tanto da fare per guadagnare qualche spicciolo, ormai guarda ossessivamente solo la tv, giorno e notte, il programma dove dovrebbe stare di diritto, mentre sul muro della sua stanza compare un grillo che ricorda quello di Pinocchio: "È - chiosa Garrone - una sorta di Pinocchio moderno, candido, ingenuo, che insegue il sogno del successo facile nella tv, il nuovo eldorado che fa sentire l'olimpo in terra, il nuovo paese dei balocchi".
A chi somiglia? "Non mi sento di dire che è rappresentativo di tutto il paese, questo è un film su un uomo che è come tanti perché desidera quello che tanti desiderano ed è un film che nasce da una storia semplice, documentata, che abbiamo trasfigurato per fare una riflessione su un paesaggio contemporaneo. Per me è un viaggio attraverso un Paese. Un percorso fatto di sogni e attese di questi sogni, che si sviluppa su due piani: uno esterno, geografico e l'altro interno, psicologico. Due piani che sono fortemente connessi fra loro, infatti è proprio quel tipo di paesaggio culturale a generare i personaggi che animano la nostra storia".
Dunque il reality non è che uno spunto, un filtro?
"È un punto di osservazione proprio perché si tratta di un film sulla percezione del reale, su un uomo che esce dalla realtà ed entra nel proprio immaginario. Ho sempre pensato a Luciano, il protagonista del film, come a un moderno Pinocchio, appunto, e, filmandolo, l'ho seguito come se stesse vivendo un'avventura fantastica. Durante le riprese ero di continuo alla ricerca di quel sottile equilibrio tra realtà e sogno, ricercando anche dal punto di vista figurativo una dimensione favolistica, una sorta di realismo magico".
Però, sia pure sui colori fiammeggianti del surreale, l'immagine di Napoli che rimbalza è disperante: "Certo c'è la fiaba, l'aspetto illusorio del sogno che mi interessava molto, ma non si perde mai la verosimiglianza e non solo perché c'è Ciro Petrone, il ragazzino con le armi in pugno diventato il 'manifesto' di 'Gomorra'. Anzi 'Reality' può dirsi uno spin off di quel film e mostra la povertà culturale e sociale in cui la camorra prolifica. Il fatto è che dopo 'Gomorra' cercavo un soggetto che fosse all'altezza come potenza o forse ancora più sorprendente, poi mi sono reso conto che stavo andando incontro alla catastrofe. Alla fine mi sono imbattuto in una storia piccola, realmente accaduta a Napoli, una vicenda semplice, popolare, senza pretese, magari metafora di qualcos'altro e così è cominciata l'avventura".

È Ruggine e ossa, Audiard e Cotillard

"Ruggine e ossa". È il titolo del primo film in concorso al Festival firmato da  quel Jaques Audiard che tre anni fa  colpì al cuore Cannes e il mondo con "Il profeta" e che quest'anno porta al Festival una Marion Cotillard, vera beniamina del cinema francese senza gambe, disperata e innamorata dello sbandato e rude Matthias, sesso facile, allenamenti in palestra e la vita  costruita senza progetti, alla giornata.
Il titolo rimanda al sapore di ruggine e ossa che è il sapore del sangue che si diffonde in bocca quando a un impatto le labbra si rompono sui denti. Lo stesso che sente il pugile Schoenaerts quando viene colpito ma anche quando sferra colpi nei combattimenti clandestini con cui riesce a racimolare qualche soldo e nella vita.
Così Audiard torna a Cannes a distanza di tre anni con questo film, scritto a quattro mani con Thomas Bidegain e interpretato, appunto, da Marion Cotillard e Matthias Schoenaerts, interpreti di una di quelle storie d'amore che salvano la vita, storia tirata fuori dai racconti ''Rust and Bone'' del canadese Craig Davidson tutti zoomati sui racconti di uomini e donne feriti dalla vita. Qui Ali vive da solo con suo figlio Sam di appena cinque anni in uno stato di grande povertà quando incontra Stephanie, addomesticatrice di orche in un parco marino. Giovane e bella come molte ragazze della sua età, appare ai suoi occhi come una moderna principessa, ma siamo non dentro una favola ma dentro la realtà, per di più guardata dall'occhiale di Audiard, per cui il peggio accade quasi subito: un grave incidente la colpisce, costringendola a vivere su una sedia a rotelle.
''I personaggi di Ali e Stephanie non esistono nei racconti di Davidson, ma la brutalità e la potenza del racconto ci hanno spinto a creare una relazione amorosa tra due persone vittime di una realtà sfortunata che fosse continuamente in contrasto con le immagini ed è questo tipo di estetica, che definiamo 'espressionista', che ci ha guidato nella scrittura della sceneggiatura. Sostiene una storia d'amore che è il vero eroe del film''.
Così il regista che sa di non aver realizzato un melò e basta. Dietro la macchina da presa c'è il cineasta duro e puro che ha firmato "Sulle mie labbra", "Tutti i battiti del mio cuore" oltre che l'indimenticato "Il profeta". Ammette: "Il mio ultimo film era interamente interpretato da uomini ed era ambientato in una prigione. Questa volta volevo una storia d'amore con spazi luminosi. È una specie di "Love Story" ai tempi della crisi.
E la Cotillard: "Di solito scelgo un ruolo dopo aver letto la sceneggiatura e aver provato delle emozioni. Nella maggior parte dei casi arrivo sul set conoscendo quasi totalmente il mio personaggio. Questa volta ero spaesata e avevo paura di sbagliare. Jacques mi ha rincuorata: nemmeno lui, inizialmente, sapeva fin dove ci saremmo spinti con il personaggio. Dunque è stata un'esplorazione che abbiamo fatto insieme. Tutti quanti affrontiamo momenti durissimi, ma la cosa che ci accomuna è l'istinto di sopravvivenza. Si tratta della nostra lotta per la felicità. La questione finale è: abbiamo abbastanza forza per superare le tragedie che ci colpiscono?".
E le fa eco il regista: "Quello che mi interessa è portare i miei personaggi in un viaggio in cui la destinazione finale è la riscoperta di loro stessi. Marion all'inizio del film è come una principessa arrogante. Quando la vita la colpisce, lei va incontro a un viaggio di riabilitazione. Un percorso terribile che però la salva".
Tutto in un momento in cui tutti vogliono la Cotillard, beniamina non solo del cinema francese perché è già volata a Hollywood e presto la vedremo nell'ultimo Batman. Ma lei non si tira mai indietro e cerca ogni volta di mettersi alla prova: "Mi chiedono spesso la differenza fra lavorare in Europa e in America. Per me ogni film è un'avventura che ha un capitano diverso. Un film di Jacques Audiard è diverso da uno di Michael Mann. Così come uno di Mann è diverso da uno di Christopher Nolan". E Audiard, chiamato in causa: "Marion mi commuove spesso al cinema. Lo ha fatto in 'La vie en rose'. Lei riesce ad essere molto sensuale, ma anche insolitamente forte. Ci sono tanti attori bravi. Pochi però possono dare vita a un personaggio come fa lei che all'inizio è una principessa arrogante e lui tutto concentrato sul proprio corpo, poi c'è una svolta perché lei è molto femminile ma al tempo stesso sa diventare virile e io pero l'ho deglamourizzata, come se fosse davvero senza gambe, mi serviva una tristezza e depressione per poi trasformare tutto ciò in resurrezione". E lei: "In acqua nuotavo solo con le braccia e mi muovevo pensando di essere handicappata".

Dopo la battaglia

Stranamente c'è ancora una storia d'amore impossibile nel secondo film in concorso della giornata. Una storia tra un lui che viene dai quartieri poveri del Cairo e, nella primavera araba, era tra i miliziani che caricarono gli insorti sulla Piazza Tahir il 2 febbraio del 2011 e una lei che viene dalla buona borghesia cairota, è laica e moderna, milita tra i giovani della rivoluzione.
E' "Dopo la battaglia" dell'egiziano Yousry Nasrallah che grida: "Non voglio il mio film in Israele almeno fino a quando gli israeliani non tratteranno meglio i palestinesi nei territori occupati''. Ha risposto così a un giornalista israeliano che gli aveva chiesto se il film sarà distribuito in Israele e poi ha aggiunto: ''Non ce l'ho con Israele, ma se il mio popolo ha cercato di rivedere alcune sue posizioni questo non mi sembra valga anche per Israele".
Poi ci spiega che cosa è per lui l'individuo, da salvare e salvaguardare sempre, in guerra e in pace, oltre le divise e le bandiere: "Per me conta che si guardino le persone e non gli stereotipi e le idee che queste persone incarnano. La storia è fatta di tanti piccoli individui che contano per ciò che sono e non per ciò che vestono". Come il suo povero, poverissimo, protagonista (Bassem Samra) che fu uno di quei cavalieri che il 2 febbraio 2011 fece parte della battaglia dei cammelli che insanguinò piazza Tahrir. Uno di quelli che, schierati dalla parte di Mubarak, si lanciarono contro la folla che in piazza ne chiedeva le dimissioni; "Ho conosciuto tanti cavalieri e cammellieri e non ci sto a considerarli i cattivi della storia. Preferisco, appunto, guardare oltre le divise, puntare la macchina da presa su Nazlet, quartiere povero ai piedi delle piramidi di Giza, da cui vengono molti poveracci come lui che viene coinvolto solo per disperazione e fame nella controrivoluzione. La società oggi li detesta ma è solo gente che ha paura del nuovo, paura di perdere il lavoro. Però il mio paese non è ancora abituato alla democrazia, anche per questo il popolo egiziano meritava questo film che è come una lettera d'amore. Indirizzata a quelli come il mio protagonista che, come tanti, è solo un povero cristo senza coscienza rivoluzionaria".
Ecco il cinema secondo Nasrallah. Anche quello arabo "che ora ha dei problemi, e non solo perché è mal visto dalla cultura islamica, ma anche perché è sicuramente diminuito il mercato. Ma se ci sono buone idee può funzionare".

Moonrise Kingdom

Wes AndersonDopo i giurati e Nanni Moretti superstar, e dopo Baron Cohen in dromedario, sono arrivati i veri protagonisti della serata. Riflettori e flash tutti per loro e per "Moonrise Kingdom" di Wes Anderson che ha aperto ufficialmente la 65esima edizione del Festival di Cannes. Da Tilda Swinton elegantissima senza trucco a Bill Murray in eccentrica giacca multicolore con incrocio righe e quadri , da Bruce Willis qui solito look tosto e pelato ma nel film sempre in divisa da poliziotto ad Edward Norton nel film con calzoni corti da capo scout. Accoglienza tiepida in proiezione stampa ma chi apprezza Anderson non potrà non godere di questa tenera storia di un amore carico di bizzarria tra due dodicenni in fuga nella foresta dalle loro case, con lui che regala a lei orecchini pendenti con scarafaggi, mentre l'intera comunità isolana del New England degli anni 60 precipita nel caos per via di una tempesta in arrivo.
Ritorno di Anderson al live dopo la parentesi cartoon di "Fantastic Mr. Fox" ma, soprattutto, primo suo film collocato fuori dalla contemporaneità, in un passato che è anche quello della sua infanzia . E dei primi amori di tutti. La rivoluzione si chiama qui primo amore ed è leggera ma impregnata di emozioni: "La prima cosa cui mi sono ispirato è naturalmente il ricordo di ciò che si prova a innamorarsi per la prima volta, un'emozione che condividono tutti", dice Anderson, che ha poi paragonato il suo gruppo di lavoro a una compagnia teatrale: "Mi piace tornare a lavorare con le stesse persone, ogni mio nuovo film è come una reunion tra amici".
Eppure stavolta si è trovato a provinare frotte di ragazzini per trovare due perfetti protagonisti.
"Sì, è stato molto diverso rispetto alle scelte che faccio di solito, tendendo a lavorare con attori da me già rodati, e poi a questo film ho pensato per un bel po', forse ho avuto in mente la storia per otto o dieci anni, ma non sapevo come svilupparla. Ho passato un anno lavorando alla sceneggiatura, ma non ho fatto grandi progressi. Poi ho avuto qualche aiuto da Roman Coppola, abbiamo scritto il tutto in un mese e potrebbe diventare un libro. All'inizio doveva coinvolgere solo i bambini, e non il mondo degli adulti, che è venuto dopo".
E con un Bruce Willlis inedito: "Mi vedrete innamorato perso e un po' sfortunato ma è un'apparenza, alla fine del film c'è la sorpresa" dice l'attore che poi dà la sua lettura della storia: "In fondo potete leggerla come una storia di ribellione, i nostri piccoli protagonisti fanno ciò che di li a poco avrebbero fatto gli adolescenti, cercare un altro modo di vivere, fuggire dalle regole dei genitori. Qui la loro storia d'amore diventa anche un racconto di fuga dalla famiglia".

La presentazione

Nanni MorettiNanni Moretti guida la giuria e davanti a lui scorreranno immagini di ogni sorta per questo 65esimo Festival di Cannes che stasera apre i battenti con l'amore giovane firmato da Wes Anderson in "Moonrise Kingdom"e interpretato da Bill Murray, Bruce Willis, Tilda Swinton ed Edward Norton. Dal "Dracula in 3D" di Dario Argento (fuori concorso) con Rutger Hauer e la figlia Asia nel cast all'unico italiano in gara, Matteo Garrone, al ritorno al festival dopo "Gomorra" (Grand Prix 2008) con "Reality", tutto zoomato sul microcosmo del Grande Fratello tv e con due attori sconosciuti, Aniello Arena e Loredana Simioli per protagonisti, accanto a Claudia Gerini. E, ancora, dall'atteso "De Rouille e d'Os" del francese Jacques Audiard a "The Paperboy" con Nicole Kidman, da "Cosmopolis" di David Cronenberg all'ultimo Ken Loach di "La Part des Anges", dal duro "Amour" di Michael Haneke al Kerouac di "On the road" trasposto dal brasiliano Walter Salles e con l'ex Bella Kristen Stewart in sexy versione. A chiudere sarà "Therese Desqueyroux", l'ultimo film del grande Claude Miller.
Porterà alta la nostra bandiera Bernardo Bertolucci che presenta fuori concorso "Io e te", tirato fuori dal romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti, e sceneggiato dallo stesso regista con Ammaniti, Umberto Contarello e Francesca Marciano.
Ma, intanto, arriva Berenice Bejo. Lo scorso anno a Cannes salì la Montée de Marche con la pancetta dei cinque mesi di gravidanza, al fianco del marito Michael Hazanavicius che l'aveva diretta in "The Artist", inserito all'ultimo momento in concorso e da allora vincitore di (quasi) tutto. Oggi torna al 65esimo Festival di Cannes come madrina, in forma perfetta e forte del successo planetario di "The Artist". Torna in un festival non ricco di italiani e tra gigantografie di Marilyn Monroe, ricordata a cinquant'anni dalla morte. Torna Berenice e che cosa promette?
"Sobrietà. Farò un discorso semplicissimo perché devo e voglio farmi capire da un pubblico che parla molte lingue. Ci sono riuscita senza parole in "The Artist", spero di riuscirci anche qui in un festival che mi ha portato fortuna".
E, dopo la scorpacciata di film del festival, che farà?
"Sarò una giornalista che indaga sulle bombe in un film tratto dalle pagine di Daniel Pennac, "Il paradiso degli orchi", ambientato in un grande magazzino parigino dove cominciano a scoppiare bombe ogni giorno. Come tutte le storie di Pennac è leggera e tragica insieme come la vita e reciterò persino con Emir Kusturica che sarà un guardiano notturno".
E con suo marito quando tornerà a lavorare?
"Presto, in un film ispirato a 'Odissea tragica' di Fred Zinnemann. Io avrò il ruolo che era di Montgomery Clift, ovviamente in versione femminile, sarò una volontaria che, tra le macerie cecene, trova un bambino in fuga".
Dopo il suo discorso di apertura , cascata di film e folla di star, cominciando da Robert Pattinson, star di Twilight alla prima volta sul red carpet del Palais du cinema, protagonista in concorso di "Cosmopolis" di David Cronenberg da Don DeLillo a Bella-Kristen Stewart, protagonista dell'atteso "On the Road" che Walter Salles ha tratto dal romanzo cult di Jack Kerouac, da Brad Pitt, che è protagonista di "Killing Them Softly" di Andrew Dominik, di cui è anche produttore con la Plan B a Nicole Kidman, con due film, "The Paperboy" di Lee Daniels in cui recita accanto alla star dei teen Zac Efron, e nei panni della moglie di Hemingway, la corrispondente di guerra Martha Gellhor in "Hemingway & Gellhorn" (fuori concorso) e al fianco di Clive Owen.
E, ancora, da Eva Mendes e Kylie Minogue, interpreti di "Holy Motors" di Leos Carax, da Matthew McConaughey a Reese Whiterspoon al trio Ben Stiller-Chris Rock-Jessica Chastain per "Madagascar 3". Ma, primi fra tutti, le star del film di apertura "Moonrise Kingdom": Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand, Tilda Swinton.





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