Ondacinema

Gli albori autarchici in super8, il “ce lo meritiamo Alberto Sordi” e tutti gli anatemi contro l’omologazione nella commedia all’italiana, le stilettate a una destra detestata e a una sinistra troppo pigra; ma anche i premi e l'ascesa nel cinema “che conta”. Nell’arco di tre decenni in cui il cinema italiano non gode di ottima salute, quello di Nanni Moretti si distingue come un percorso estetico unico e differente, con la rara capacità di “far pensare e far soffrire”

"Fin dall'inizio mi è sembrato del tutto naturale essere non solo dietro ma anche davanti alla macchina da presa come se questo desse più forza alla storia e ai sentimenti che volevo raccontare"
(Nanni Moretti)

"Nanni spostati, che non vedo il film"
(Dino Risi)

Ecce autarchico!

La prima volta in cui Giovanni Moretti (Brunico, 1953) avverte l'esigenza di porsi davanti e dietro la macchina da presa risale al 1973, all'età di vent'anni e ancora fresco della maturità classica conseguita al liceo Manara di Roma. La sua frequentazione al DAMS, invece, è un falso storico: alla facoltà di cinema bolognese Moretti si presenterà unicamente per seguire gli incontri tra gli studenti e i grandi autori italiani dell'epoca (fratelli Taviani in testa). La sua vera scuola sta tra i cineclub romani e tra i cineforum studenteschi: è lì, d'innanzi al cinema "più libero" che univa la fine dei sessanta con l'inizio dei settanta, che l'aspirante cineasta plasmerà la propria peculiare sensibilità estetica, confessando una netta preferenza nei confronti delle firme italiane meno seriose. "Al contrario di molto cinema ‘impegnato' del decennio successivo - che nel tentativo di essere rigoroso finiva col risultare solo rigido - in quegli anni c'erano molti grandi autori che mi piacevano,anche se tutti ‘diversi' fra loro: c'era Pasolini che era diverso dai Taviani, i Taviani che erano diversi da Carmelo Bene, Bene che era diverso da Ferreri, Ferreri che era diverso da tutti gli altri..."
Senza riflettere nello specifico alcuna di queste influenze, i suoi primissimi lavori fai-da-te possono comunque dirsi figli di questa grande libertà formale: nel solo 1973 Moretti gira La sconfitta e Epatèr les Borgoueis, due cortometraggi in super8 scritti in piena autonomia e interpretati in compagnia di una stretta cerchia di amici (tra i quali figura un giovane Paolo Flores D'Arcais). Due titoli che fissano i canoni della sua futura produzione: i dubbi e le problematiche interni alla sinistra extraparlamentare nel primo, un atteggiamento sarcastico riguardo al proprio ceto sociale nel secondo. In una scena de "La sconfitta" il protagonista Luciano (interpretato da Moretti stesso) si chiede se mai gli sarà dato di vedere la rivoluzione per cui sta lavorando, "almeno un pezzetto della fase di transizione": è una prima messa in scena della dialettica tra l'ortodossia di sinistra e quel singolo militante pieno di dubbi e incertezze che sarà il protagonista di molto del suo cinemaa venire.
Dell'anno seguente è Come Parli Frate?, parodia dei Promessi Sposi in mediometraggio: un ambizioso lavoro in costume che, al contrario dei cortometraggi coevi, testimonia un Moretti atipico e mai più ripetuto in seguito "Quel film tradiva tutto il mio amore per il cinema di Carmelo Bene"
I super8 circolano anche oltre gli angusti circoli politico cinematografici della capitale: verranno caricate dal regista su un treno diretto a Venezia per Le giornate del Cinema dove sapranno procurarsi una proiezione e saranno oggetto un dibattito (non così partecipato, a detta dell'autore).

Il giovane Bombo e gli altri

In compenso, le ripetute e "moleste" telefonate che Nanni perpetua da tempo per prendere parte alle produzioni dei suoi registi favoriti ottengono finalmente un risultato: Paolo e Vittorio Taviani cedono alle insistenze del giovane attore e gli concedono un piccolo ruolo in quel "Padre e Padrone" che a Cannes 78 si sarebbe guadagnato la Palma d'Oro. Quasi contemporaneamente vede la luce Io sono un autarchico (1977), primo lungometraggio del Moretti regista e assieme orgogliosa dichiarazione di indipendenza rispetta al sistema cinematografico tradizionale. Nel film debutta ufficialmente Michele, a tutti gli effetti l'alter ego cinematografico dell'autore (il cognome, Apicella, è quello della madre di Nanni prima del matrimonio). I dubbi e le ossessioni del protagonista e della sua compagnia di amici, militanti sfiduciati, conoscono una diffusione sorprendentemente ampia: arrivano fino a Parigi e a Berlino, s'impongono all'ordine del giorno nel dibattito intellettuale. Se ne occupa persino Alberto Moravia, che in un suo intervento sull'Espresso intitolato "Quel Moretti mi somiglia un po'", rifletterà su un "comico" che "si annida nelle cerniere della storia come una ruggine corrosiva. (...) Ciò che era reale e dunque sacro ieri, diventa irreale e dunque dissacrato oggi".
Ma la sorprendente attenzione destata da Io sono un autarchico coinvolge anche questioni strettamente tecniche e obbliga alla discussione gli stessi cinematografari: se un filmino in super8 può arrivare a tanti risultati sfruttando canali distributivi paralleli a quelli dell'industria - si chiedono - come si giustifica l'abbondanza di fondi riservata al grande cinema italiano? Di questo è lo stesso Moretti a parlare, invitato dalla trasmissione televisiva "Match" ad uno storico dibattito con Mario Monicelli. Qui l'emergente cineasta romano esprime fuori dai denti le sue perplessità sul conformismo "piacione" della cosiddetta commedia all'italiana, già sbeffeggiata in diverse scene del suo primo film. "Credo che vedere brutti film sia utile. - dirà anni dopo - Quando un giovane regista gira i suoi primi film è molto importante che sappia quello che non vuole, quello che non gli piace."

Sulle stesse convinzioni si basa anche Ecce Bombo, secondo lungometraggio e sua personale consacrazione nel giovane cinema italiano: pur segnando il suo debutto all'interno di una casa di produzione istituzionale (la Filmalpha) il film mantiene uno stile "avaro e sincero" in netta continuità con l'esordio. Si ripropongono quelli che ormai sono i veri e propri leit motiv della sua poetica, sotto il profilo tematico ( la scuola, il -non- attivismo politico, la famiglia, il travagliato rapporto di Michele con le donne e con il cinema...) e anche sotto quello tecnico, con l'uso preponderante e antivirtuoso della camera fissa: "il tirante narrativo in una sceneggiatura tradizionale si chiama suspence, (...) è ciò che sviluppa e avvince lo spettatore. Nel mio film non c'è niente di tutto ciò. ‘ Ecce bombo' ha una struttura molto più orizzontale, ad incastro" La critica parlerà di "strips" per indicare un modo di raccontare vicino alle strisce dei fumetti, che tende ad affrescare uno spaccato sociale senza la pretesa di seguire una vicenda vera e propria. E d'altra parte, di vicende vere Michele e i suoi amici ne vivono ben poche, (dis)impegnati come sono nelle loro eterne discussioni, nel (non) vivere le proprie giornate: sullo sfondo c'è un movimento sessantottino che ha definitivamente perso la sua forza propulsiva e, in una retorica innocua, sta ormai sparando le sue ultime cartucce.

Nonostante le critiche al mito del collettivismo, i due primi lavori mantenevano un certo aspetto corale e quel valore sociologico che aveva contribuito a metterli al centro di molte discussioni. Tre anni e mezzo dopo, invece, Michele Apicella si ritroverà completamente solo nel bel mezzo della storia di Sogni d'Oro (1980), alle prese con un nuovo mestiere: il regista esordiente. Una stilizzazione ancora più aderente al suo creatore, che spinge Sergio Leone a ironizzare sul film come sull' "1 e ¼ di Moretti". Eppure è proprio specchiandosi nell'obiettivo della sua camera che l'autore romano arriva a concepire un risultato decisamente sentito e personale, nonchè più complesso da un punto di vista strutturale: in Sogni d'oro uno sviluppo c'è, ma continua a rifiutare i canoni tradizionali per districarsi invece su tre diversi piani narrativi. La storia di Michele alle prese con l'ambiente del cinema, la sceneggiatura de "La mamma di Freud" (il film che il personaggio sta faticosamente realizzando) e le immagini dei suoi sogni ricorrenti. Il titolo e il riferimento al filosofo tedesco invitano ad una lettura psicologica del film: i personaggi che circondano Michele (gli assistenti sul set, il regista concorrente, il produttore, il critico, la mamma con cui vive...) smettono di essere persone e divengono "fantasmi", ossessioni oniriche che lo perseguitano. Una lettura questa, supportata da un finale surreale, ai confini con l'horror e con il cinema trash, genere per il quale Moretti comincia ad avvertire un rapporto di "amorevole odio" che farà storia.

Il Moretti Maturo

"A un certo punto come spettatore ho cominciato a emozionarmi di più. E ho cominciato anche a dare più importanza alla narrazione, al racconto, e quindi alle emozioni, e questo anche nel modo di girare. E così sono venuti due film che si chiamano Bianca e La messa è finita." Due film che segnano anche un'accresciuta capacità da parte dell'autore di mettere in scena i personaggi e i propri sentimenti secondo norme di narrazione più tradizionali: non è un caso che a fianco del suo nome, in calce alla sceneggiatura di Bianca appaia anche quello di Sandro Petraglia.

La storia di Bianca parrebbe desunta da uno scampolo del film precedente: più precisamente, dalle sequenze in cui Michele sognava se stesso professore dietro la cattedra di un liceo, intento a spiegare il pessimismo cosmico di Leopardi ad una classe distratta. Indispettita da un atteggiamento di sufficienza nei confronti dei suoi allievi, una delle sue studentesse prendeva la parola e gli confessava apertamente il proprio disprezzo. Il Michele onirico di Sogni d'oro diviene qui un professore di matematica, mentre l'allieva ( che là era leopardianamente nominata Silvia) si trasforma in una giovane insegnante di francese, prende nome di Bianca ma conserva il volto di Laura Morante, attrice morettiana per eccellenza.
Nel raccontare l'ossessione del suo personaggio per lei (e per la felicità delle coppie in generale), Moretti mantiene qui un inedito distacco registico, impara a mettere in scena l'incubo senza divenirne preda - come invece accadeva nella pellicola precedente: la trama "da giallo" e i diversi riferimenti hitchcockiani (primo fra tutti "la finestra sul cortile" da cui il protagonista spia i vicini) riescono così a non cozzare con il suo interesse principale, dipingere il ritratto di un uomo ossessionato e descrivere a fondo i suoi demoni. Un tratto delicato e maturo che varrà a Moretti un riconoscimento, questa volta come attore, ai premi Ubu del 1984 e che si può ritrovare anche nell'opera successiva, La Messa è finita: ancora una volta sono i lineamenti del vecchio personaggio a prestare il fianco per la costruzione di quello nuovo. Il professore solitario e ossessionato dalla felicità delle coppie sue conoscenti si evolve in Don Giulio e nel suo incrollabile credo sulla "fedeltà reciproca" : di ritorno al paese d'origine, il sacerdote dovrà far fronte ad una realtà diversa, frantumata. La separazione dei genitori, i vecchi amici del giornale che sono divenuti brigatisti, eremiti o che si sono tardivamente convertiti alla fede cristiana. E' uno scenario cui Don Giulio sa di non poter far fronte, e decide così di partire per la terra del fuoco. Con un tono decisamente meno sarcastico e nervoso (e quindi, in un certo senso, più maturo) La Messa è finita ritorna sulle riflessioni giovanili, la disillusione dalla stagione politica e il tempo che ha diviso i sentieri dei vecchi amici. E' un preludio alle tematiche del lungometraggio che lo seguirà, un prepotente ritorno al tema politico sociale.

Il Moretti politico

Fresco di un Orso d'oro ottenuto dalla giuria del festival di Berlino (1986), Nanni Moretti si rimette al lavoro e questa volta per conto proprio. Grazie alla casa cinematografica fondata con Angelo Barbagallo, ( e intitolata ad uno dei simboli del suo cinema, la torta Sacher) può prodursi da sé il suo sesto film. Attraverso l'amnesia di Michele Apicella, giocatore di pallanuoto e dirigente del Partito Comunista, Palombella Rossa narra dello smarrimento del Pci nell'anno in cui cade il muro di Berlino.
"Non fa ridere e pensare, fa ridere e soffrire" è una sintesi che Moretti applicava volentieri ai suoi primi lavori ma che torna utilissima anche per questo: come già in Sogni d'oro i piani di narrazione sono tre, le giunture che li uniscono e li separano sono nervose e irrequiete come il protagonista che li abita, i comprimari del personaggio vengono ridotti a spiriti che lo tormentano, rappresentazioni simboliche delle tante anime che dilaniano il Pci. La scena conclusiva, dove tutti i personaggi tendono la mano verso un Sol dell'Avvenire di cartone, non può non rimandare ad Ecce Bombo e ai suoi bamboccioni che, giovanilisticamente riuniti su una collina per "vedere l'alba", si risvegliavano con il sole che sorgeva alle loro spalle. E' di fatto un'altra amara provocazione al suo stesso ambiente politico, una dura seduta di autocoscienza per la sinistra che saprà ritagliarsi uno spazio durante le Settimane della Critica di Venezia, nonostante l'esclusione dalla gara.

L'anno successivo la riflessione continua con il documentario La Cosa: da una costola di Palombella Rossa, il film perlustra le sedi del Pci e le reazioni disorientate dei tesserati di fronte alla decisione di Achille Ochetto di trasformare il Partito in una "cosa" nuova e diversa. Produrre documentari fra un film e l'altro è uno dei tanti lussi che avere una casa cinematografica propria rende possibili: altri sono quelli di poter aprire un cinema (il nuovo Sacher, inaugurato nel 1991) e l'opportunità di offrire mezzi e ospitalità a giovani registi promettenti. Prima di Palombella Rossa, Moretti e Barbagallo avevano già curato le opere di diversi nuovi nomi, fra i quali spiccava quello di Daniele Luchetti: già assistente alla regia da La Messa è Finita in poi, Luchetti aveva esordito in casa Sacher con la commedia "Domani Accadrà". A questa e altre produzioni Sacher Moretti prenderà partecome interprete, ma il ruolo più significativo per il suo percorso attoriale si trova senz'altro nel terzo film dello stesso Luchetti, "Il Portaborse".
Se a vestire i panni del professorino protagonista sarà Silvio Orlando (altra scoperta morettiana, esordiente sul grande schermo proprio con Palombella Rossa) è al regista/produttore che viene assegnata la parte più memorabile, quella del cinico onorevole Botero: la sua interpretazione diviene una sorta di trattato sulla recitazione "secondo Moretti" redatto per mano altrui, tanto che qualcuno parlerà addirittura di film su commissione.
"Ho sempre avuto dei problemi con quegli attori che usavano il cosiddetto ‘metodo', che si annullavano nel personaggio. Credo che un attore debba invece stare ‘a lato' della parte che recita, che si debbano percepire al contempo il personaggio e chi lo interpreta." E in effetti "a lato" di Cesare Botero, dei suoi giochi di potere, della sua perfida astuzia di politicante si avverte costantemente la presenza di Nanni Moretti della sua condanna morale che nulla è disposta a concedere in termini di umanità al suo personaggio. Botero è una maschera politica, proprio come quelle messe in scena da Elio Petri. Dietro i suoi caratteri stilizzati non è difficile scorgere la sagoma di Bettino Craxi, i sottobanchi del Partito Socialista e (siamo nel '91) l'ombra lunga di Tangentopoli che stava segnando la fine della prima Repubblica. La storia d'Italia entra una volta di più nel cinema di Moretti e viceversa, con l'ormai rituale coda di polemiche e risvegli di coscienza.

Cinema come diario: da Michele a Nanni

"Verso la fine degli anni 80 notai che il ruolo della sceneggiatura balzava di nuovo in primo piano, acquistava di nuovo importanza. Nelle sceneggiature però c'era una specie di aria di restaurazione narrativa, sceneggiatori e registi erano molto contenti di raccontare benino delle cose raccontate molto meglio trent'anni prima. Allora ho cercato strade narrativamente più libere." Un percorso inverso a quello di inizio decennio, che aveva portato il regista a girare le sue cose più canoniche e che ora lo introduce a forme nuove.
Dopo l'amnesia di Palombella Rossa Michele Apicella era uscito di scena e aveva ceduto il posto allo stesso Nanni, protagonista di Caro Diario (1993): a partire da dei cortometraggi che lo riprendevano mentre girava sulla sua vespa, il film viene costruito su una peculiare suddivisione ad episodi. La miscela fra riprese documentaristiche e scene di finzione piace, la toccante sequenza dedicata a Pierpaolo Pasolini commuove: il film si guadagna un Premio alla Regia a Cannes 94.

Sulla stessa falsariga si pone Aprile che nel 1997 riprende il discorso interrotto tre anni prima. Al centro del film figura di nuovo Nanni, in procinto di girare un improbabile musical su "un Pasticciere trotskijsta nell'Italia degli anni 30" (ecco di ritorno la fascinazione per i trash movies ): non ci riesce, interrompe le lavorazioni e ripiega su un documentario sull'Italia del primo governo Berlusconi. Ma gli impegni di neopapà lo distraggono, fino a farlo tornare al più leggero progetto originario. A prescindere dalle considerazioni estetiche (in molti criticano il sopravvento della parte personale su quella "pubblica") Aprile ritrae un Moretti felice, incredibilmente leggero anche nella forma e lontano anni luce dalle nevrotiche contorsioni giovanili.

A tanta leggerezza farà da contrappeso il lavoro successivo, La stanza del figlio: lo psicologo protagonista è un personaggio di finzione, ma conserva il nome e il volto del regista. La sceneggiatura (redatta per la prima volta in collaborazione con Heidrun Schleef) racconta della scomparsa improvvisa del figlio Andrea e del dolore che divide i membri della sua famiglia: uno scenario, a ben vedere, non troppo dissimile da quello già raccontato con La Messa è finita, e che riporta in primo piano le tematiche del dolore e della solitudine. Ma di fronte a molte costanti del cinema morettiano riaffermate (la famiglia medioborghese, la psicanalisi, l'ossessione per le scarpe...) diversi tratti della sua originalità visiva cominciano a sfaldarsi in un'estetica più convenzionale, dove attori professionisti prendono il posto dei volti "amici" propri dei film precedenti. Tuttavia la critica internazionale accoglie il film come un attestato di maturità e nell'edizione 2001 del Festival di Cannes La stanza del Figlio vince la Palma d'oro come miglior film.

La (ri)politica e le cinemà des bourgeois

Paradossalmente, è proprio il Moretti più sentimentale ed intimista quello che getta l'ennesima pietra nello stagno della politica italiana. Ancora reduce dal grande successo internazionale della sua ultima pellicola, nel 2 febbraio 2002 il cineasta si presenta in qualità di simpatizzante alla manifestazione che il partito dell'Ulivo sta tenendo nella capitale. Una volta salito sul palco, però, il suo intervento sarà tutt'altro che celebrativo: Moretti mette sotto accusa la nuova classe dirigente del partito rea, a suo dire, di troppa timidezza di fronte agli attacchi della destra berlusconiana. Un'arringa che registra immediatamente l'imbarazzo degli interessati e, al contempo, grandi adesioni della "base" degli elettori. Da quello che passerà alle cronache come "l'urlo di piazza Navona" nasce una fase di autocritica per l'elettorato di sinistra nonchè movimento di politica attiva, i cosiddetti Girotondini, che proprio in Moretti e in altri intellettuali trova i principali punti di riferimento.

E' forse di quest'esperienza (e in generale di una coscienza politica sempre vigile) che sulla lunga distanza può dirsi figlio il suo nuovo lavoro: dopo il segreto che l'ha nascosto per tutto il tempo delle lavorazioni, Il Caimano (un film sulla storia di Berlusconi) piomba nel bel mezzo di una nuova campagna elettorale, quella del 2006 che vedrà opposti Romano Prodi per l'Unione e lo stesso cavaliere con Forza Italia. E' un altro evento nella biografia di Nanni: moltissimi giornali vi dedicano le prime pagine, altri ne oscurano la notizia per rispetto alla parcondicio, e già prima di uscire il film si guadagna diverse "recensioni preventive", non ultima quella del diretto interessato (che nel corso di un convegno elettorale lo definirà "un film orrendo").

Dal punto di vista formale, anche questa pellicola affianca vecchi ritornelli morettiani a grosse novità: la narrazione è di nuovo condotta su più livelli ed è la terza volta che il regista racconta di un film che fatica ad essere realizzato, spingendo la stampa a rispolverare i soliti paragoni con l'"8 e ½" di Fellini. Ma a differenza di quanto accadeva in Sogni d'oro prima e in Aprile poi, il filmmaker in azione non corrisponde né a Moretti nè ad un suo alter ego: si tratta invece di due personaggi distinti, la giovane regista Teresa (Jasmine Trinca) e soprattutto il produttore di trash movies in rovina, Bruno Bonomo (Silvio Orlando). La presenza fisica di Moretti come attore si limita ad un divertito cammeo di autocitazione e alle sorprendenti sequenze finali che lo vedono nei panni dello stesso Berlusconi: "alla fine il mio film su Berlusconi e quello di Teresa si ritrovano e coincidono. Volevo stupire il pubblico e assieme ridare alle parole del presidente del Consiglio l'importanza che meritano, facendole pronunciare ad una persona da lui molto distante, come me."

Ma quella del (parziale) defilè di Moretti, per la prima volta non protagonista in un film diretto da lui, non è l'unica novità: perfino in un film come Il Caimano il filone sentimentale ha la meglio su quello pubblico/politico, e la narrazione assume spesso toni melò finora inediti. Stupiscono altrettanto certe escursioni nei registri della commedia all'italiana, un tempo disprezzata, e l'accettazione quasi acritica del canone industriale che vuole tutte le parti, anche le più piccole, affidate a volti di professionisti noti al pubblico. Il film annovera infatti attori famosi ma finora estranei al percorso di Moretti, quali Margherita Buy e Michele Placido, nonché una gran quantità di registi italiani (Montaldo, Sorrentino, Garrone, Virzì, De Maria...) che attraverso piccoli cammei hanno scelto di partecipare al progetto quasi come firmatari di un manifesto antiberlusconiano. La posizione di Moretti nel cinema italiano non è mai stata così quotata, ma allo stesso tempo il suo cinema sembra cominciare a perdere per strada molte delle caratteristiche che l'avevano reso "unico" per tutti questi anni.

La tendenza è rafforzata anche dalla sua prova successiva: tra le due edizioni del Torino Film festival che lo vedono alla direzione (2007-2008), Moretti trova il tempo di recitare sul set di "Caos Calmo", il film tratto dal romanzo del premio Strega Sandro Veronesi e diretto da Antonello Grimaldi per la Fandango. E' la prima volta che il regista-attore capitolino prende parte ad una produzione extra-Scher che non dirige, ed è la prima volta che lo si vede così (ben) assortito tra i soliti noti dello "starsystem" italiano. Ad accompagnarlo, sotto la sorvegliatissima regia di Grimaldi sono nomi come Alessandro Gassman, Valeria Golino, Isabella Ferrari... cast e direzione che solo trent'anni fa Nanni/Michele non avrebbe esitato a definire "di routine", prendendone le dovute distanze. E mentre i critici si affannano a cercare affinità con il suo cinema (la tematica del dolore come ne La stanza del figlio, i personaggi/fantasmi che tormentano la solitudine del protagonista...) gli ammiratori della prima ora vedono un ex-autarchico gradualmente omologarsi con le convenzioni del tristo panorama industriale nostrano.

Per Habemus Papam (2011) Moretti torna alla regia, addentrandosi nei palazzi del Vaticano. Non è solo per la presenza comune di Michel Piccoli che il pensiero ricorre a un capolavoro di Marco Ferreri già vecchio di qualche anno: ne "L'udienza" un giovane uomo tentava appunto di penetrare l'inespugnabile residenza papale per parlare con il Pontefice e rimaneva incastrato in un kafkiano labirinto di poteri. Là Piccoli vestiva i panni di Padre Amerin; qui invece presta un volto segnato dai quasi novant'anni al mansueto cardinale Melville, inaspettatamente eletto dal conclave come il nuovo erede di Pietro.
Il problema che mette in moto "Habemus Papam" è in un certo senso speculare a quello che proponeva Ferreri: schivare le burocrazie del potere per trovare, anzi, ritrovare l'uomo che sta dietro al Papa. E il primo a voler ritrovare se stesso è proprio Melville, che prima ancora che il suo nome venga annunciato ai fedeli scappa urlando: "Non ce la faccio! Non ce la faccio!".
Il labirinto kafkiano, scopriremo allora, vale anche per chi ai palazzi ci sta dentro: per tutti i giorni successivi al conclave i porporati rimangono reclusi in penosa attesa. Chi viene chiamato dentro per rimediare alla gravità della situazione, poi resta, come un ostaggio: così succede al dottor Brezzi, lo psicologo interpretato da Nanni Moretti, che è anche costretto ad abbozzare un tentativo di seduta con il pontefice in mezzo a tutti i cardinali riuniti, districandosi tra i severi divieti che la particolare posizione del suo paziente impone.
I leit motiv morettiani vengono mitigati da un nuovo equilibrio che sa bilanciare commedia lieve e puro visionarismo d'autore. Allo stesso tempo la firma del regista si fa sentire nei messaggi lanciati dal film: con le poche inquadrature riservategli, per di più lungo una trama secondaria, il personaggio di Moretti è funzionale a identificare lo spirito severamente laico che ispira la sua opera. Quella terribile verità darwiniana secondo la quale, come dice al segretario di Stato, "la vita non ha un senso". Come già La Stanza del figlio o La Messa è finita, Habemus Papam è un'altra riflessione sulla solitudine. Davanti alle grandi responsabilità, come ai fallimenti - ci viene detto - ogni uomo è destinato a soffrire solo. Senza fede o vocazione che tenga.

Moretti, ormai distante dall'autarchia del primo periodo, non è mai stato tanto equilibrato, ponderato, ben temprato quanto in Mia madre.
A volte il senso di un film è nascosto nell'incipit. Nella prima sequenza di Mia madre, dedicata al film nel film che sta girando la protagonista Margherita (interpretata da Margherita Buy in una performance finalmente degna di una duttilità interpretativa altrove sacrificata), viene posta una questione di linguaggio cinematografico. Sul set dove sono contrapposti polizia e manifestanti, Margherita critica un operatore che sta troppo dentro la scena, troppo vicino alla violenza. Ne fa una questione etica: "Tu stai coi poliziotti o coi manifestanti?". Stare dentro un conflitto con riprese pseudodocumentarie che montano l'adrenalina è stilema adottato dal cinema statunitense (mutuato dal cinema d'autore europeo), e fra gli altri proprio da quella Kathryn Bigelow ("The Hurt Locker"; "Zero Dark Thirty") di cui Moretti punzecchiò "Strange days" in una battuta di "Aprile". A un moralista dello sguardo come Moretti immaginiamo non piaccia l'ambiguità di un cinema che da un lato problematizza la guerra e dall'altro la spettacolarizza e la rende seducente. Rispetto al temperamento oggi moderato di Moretti, non potrebbe esservi temperamento più distante di quello intransigente di Godard, eppure "Adieu au langage" pone una questione analoga: come fare in modo che il cinema sia ancora veicolo di autenticità, capace di decifrare la realtà, invece di innescare ambiguità e generare finzioni.


Contributi di Stefano Santoli ("Mia madre")




Nanni Moretti