Ondacinema

recensione di Pietro S. Calò
8.0/10
Torna in sala (si fa per dire) Sion Sono, ed è nuovamente Caos.
Dopo un 2015 di totale hybris, ben cinque film licenziati, l’incontenibile Sono rompe un 2016 silente e prende al volo la proposta della Nikkatsu, la storica casa di produzione che quest’anno festeggia il 45° compleanno, suo e del genere Pinku-eiga che corrisponde, grosso modo, al nostro cinema erotico. Cinque registi (tra cui Nakata Hideo) per cinque omaggi della pruderie (l'eccitazione ipocrita) estremo-orientale che buona eco ebbe anche qui da noi.

Sion Sono ha così realizzato una sorta di kammerspiel ma infernale, come suo costume. Non è inutile aggiungere che il nostro con i pinku-eiga (o meglio: con la pornografia) ci ha pagato le prime bollette e ha acquisito i rudimenti del mestiere, in special modo la capacità di girare velocemente e con le poche risorse dei budget limitati. Ancor meno inutile aggiungere, oggi che Sono è una star, che nei 75 minuti senza tregua di "Antiporno" ritroviamo con grande precisione tutto il suo cinema, da "Utsushimi" a "Noriko's Diner’s Table". Una precisione tale da poterla definire Poetica: Sono ha un’idea del mondo e sarebbe in grado, sentirebbe l’urgenza, di trasmetterla anche girando uno spot pubblicitario. In questo senso è un godardiano puro.
 In un open space decisamente camp, eccessivo e pretenzioso, minimale e fortemente contrastato, una giovane artista (Ami Tomite) si sveglia da un sonno secco, si rimette a posto le mutandine abbassate e inizia a vagare. Quadri enormi ma inespressivi, uno specchio frantumato ai piedi del cesso, un proiettare che trasmette senza soluzioni di continuità la scena mai girata da Kurosawa Akira, quando Tajomaru cattura infine la bella Masago e la stupra in una foresta incantata in cui non vediamo più l’elegante metafora del pugnale trafitto nel terriccio ("Rashomon", 1950) ma il frontale di uno stupro che passa impercettibilmente dal dolore al piacere. Niente è più al suo posto, nello spazio ampio e asfittico dell’open space arrivano persone strambe e problematiche, come in un melò di Robert Aldrich. Non vorremmo adesso sfiorare il ridicolo asserendo che codesto film gode di ben quattro piani di lettura, come fosse la Divina Commedia o la Bibbia. Non lo vorremmo ma ci arrischiamo lo stesso, facendoci forza con le parole di Godard che, accusato di megalomania, risponde che la megalomania è il minimo sindacale di chi vuol fare cinema. E la megalomania non è la produzione milionaria né la star pagata a peso d’oro ma altre cose che non sono in tema con la nostra recensione e che molto spesso si rendono visibili nei "low budget", negli attori sconosciuti, nelle digressioni meno scontate. Così, il (piccolo) cerchio si chiude: la Nikkatsu, i Pinku-eiga e "Antiporno", film a piccolo budget.

Il primo livello, quello più evidente, è la caratura soft-porno, dominio della visione maschile, "primaria-primate nel senso del pelo" come ha già scritto un critico francese. Totalmente soddisfatta: l’elemento serico della (soft)pornografia giapponese, sempre ben posizionata nei motori di ricerca dei Porn-hub mondiali, è onnipresente e ben omaggiato. Lui e la Nikkatsu che ha pagato, talché possiamo dire con sicurezza che Sion Sono è un uomo molto avveduto laddove un Godard ha sempre fatto arrabbiare i suoi committenti.
Il secondo livello è più pertinente la poetica di Sono, anche se non ne detiene il copyright.
È la mise en abyme dei codici, che oltre a produrre forma producono pure senso diegetico. Ci muoviamo, poco ma convulsamente, come la lucertola nella bottiglia, troppo grande per uscirvi, all’interno dell’open space salvo importanti pezzi di raccordo rappresentati in flashback e marchiati dall’asfissia della location primaria. Introiettati come dolori, rimorsi, ipocrisie e sconfitte essi costituiscono la ciccia della lucertola che nella bottiglia ci era entrata agevolmente ma da cui non potrà più uscirne, non con le sue forze, comunque. Non sappiamo mai con esattezza dove effettivamente ci troviamo: nel rassicurante spazio ellittico dell’inquadratura? Ai margini di un tournage con tanto di troupe belluina e ben mimetizzata? Ai piedi di un palco teatrale? Di contorno a un set fotografico? Oppure in un atelier che attraverso strani riti sta decidendo nuovi quadri da dipingere? Ciò che Sono in "Utsushimi" aveva prudentemente frazionato in sequenze autonome, qui è riunito senza remora.
Come che sia, si è trasportati nel caos più informe verso cui è solo possibile un atto di fede che ci porterebbe in salvo, come accade nel nuovo registro del cinema horror (buona parte del quale giapponese) in cui un'angoscia sostenibile non è altro che il preludio a una devastante. E la domanda non ha comunque risposta sicché ognuno dei codici impiegati agisce sì sul caos ma crea un ordine senza più paternità come una bomba indistinta di spermatozoi che vanno a fecondare ovuli improvvisati. Il cinema di Sono, infatti, si perfeziona viepiù e arriviamo al terzo livello, una sorta di cro-morfologia: colori che creano forme, impresse nel tempo. È probabilmente l’aspetto più originale della sua poetica, sia nelle sue manifestazioni più rutilanti, le carrellate sulle luci filtrate e a varia intensità, occhiolino strizzato ai set soft-porno, e le bombe di colore che cadono dall’alto, sia nel loro uso più banale, scolastico, come i seppia-retrò della scena in video dello stupro o nell’allestimento dello spazio sacrificale per lo stupro in diretta, come avevamo già visto largamente in "Tokyo Tribe" (ma anche in "Arancia meccanica" e presso molto cinema di David Lynch); ma anche negli oggetti più banali, che nel nostro film sono pochi ma tutti fortemente connotati: bottiglia, giacche, piercing, macchine fotografiche, cazzi di gomma…

Teniamo in ultimo il messaggio del film, non perché sia il più importante (a dirla tutta se ne occuperebbe la scienza sociale da almeno 70 anni senza venirne a capo, non pretenderemmo certo una risposta da Sion Sono).
È un mondo ipocrita e maschilista quello che viviamo?
La domanda è ancor più insidiosa in quanto nel film vediamo prevalentemente donne, donne che odiano le donne, donne che scimmiottano gli uomini (e, preferibilmente, i peggiori di essi). Donne che sembrano tele-guidate dallo spirito maschilista, infoiato e ipocrita, come quello del padre di Ami, oppure mercantile come quello del regista del film nel film. In una società come quella giapponese, con forti problemi di identità e radice, tale scontro suggerirebbe, almeno nei film di Sion Sono, un ricorso liberatorio al suicidio, per esperire la massima libertà possibile. Come si vede in "Antiporno" e come abbiamo visto in "Suicide Club" e il già citato "Noriko's Diners Table". 
Il monito di Dostojevskji sul nichilismo, seppur a loro non ignoto, sembra sia loro totalmente estraneo. Ma questa è un'altra storia, è come aver compreso la qualità del vetro, la trasparenza, nel mentre il vetro è soprattutto fragile.
19/11/2016

Cast e credits

cast:
Mariko Tsutsui, Ami Tomite


regia:
Sion Sono


titolo originale:
Anchi Poruno


distribuzione:
Nikkatsu


durata:
78'


produzione:
Nikkatsu


sceneggiatura:
Sion Sono


montaggio:
Jun'ichi Itô


musiche:
Tomonobu Kikuchi


Trama
Torna in sala (si fa per dire) Sion Sono, ed è nuovamente Caos, una sorta di kammerspiel ma infernale
Link

Sito ufficiale