...e non sono un terrorista! Questo apprendiamo quasi subito dalla voce del diretto interessato mentre parla con un gruppo di poliziotti esterrefatti e questo è anche il messaggio che l'uomo deve consegnare al presidente degli Stati Uniti, ingenua e allo stesso tempo estrema missione da portare a termine come dimostrazione d'amore verso l'adorata moglie. Rizvan Khan è il protagonista dell'ultima fatica di Karan Johar, uno fra i più influenti, famosi e chiacchierati personaggi del cinema indiano. Trentotto anni, una gavetta come assistente per il potente Yash Chopra della Yash Raj Films, poi diventato sceneggiatore, regista, produttore nonché presentatore televisivo (il suo "Koffee With Karan" è un talk show seguitissimo che può vantare fra i suoi ospiti i nomi più illustri dello show biz del sud continente) e amico della superstar Shahrukh Khan, il re di Bollywood (protagonista di tutti i suoi lavori), Johar non è un nome conosciutissimo in Europa ma il fatto che uno studio come la 20th Century Fox abbia partecipato alla produzione e distribuzione del suo nuovo film, fiduciosa nel prodotto al punto da garantire un'uscita nelle sale italiane (a seguito di passaggio al Festival di Roma) non deve assolutamente sembrare casuale.
Probabilmente "
My Name Is Khan" (tutti i suoi film hanno, per scaramanzia, la lettera K nel titolo) in Italia non riuscirà a riscuotere lo stesso successo ottenuto in patria o in altri paesi ma per un film bollywoodiano già arrivare nelle nostre sale è un traguardo notevole (considerata l'assoluta indifferenza con cui i nostri connazionali guardano ad una delle cinematografie più popolari del mondo, ritenendola più un oggetto di curiosità che un da sempre importantissimo polo produttivo). All'appuntamento col pubblico nostrano Johar si presenta col suo film più ambizioso e impegnativo, incentrato su un tema interessante e poco indagato: l'ondata di paranoia e di razzismo che investì la popolazione asiatica e di religione musulmana residente negli States all'indomani degli attacchi alle torri gemelle. A quasi dieci anni dai fatti dell'11/09 i tempi forse sono maturi per raccontare anche la faccia meno positiva dell'America ferita, quella che dall'oggi al domani cominciò a guardare con rancore e sospetto persone perfettamente integrate fino al giorno prima o ad assumere atteggiamenti vergognosamente xenofobi nei loro confronti; comportamenti retrogradi che, evidentemente, solo in parte potevano essere compresi (ma non giustificati) col dolore, il lutto nazionale e la triste consapevolezza che anche la nazione più potente della Terra non era così invulnerabile. Questo dolente e grave aspetto, vero e proprio dramma nel dramma, è stato finora raccontato nell'episodio di 11'09"01 diretto dalla bella Mira Nair, nel pakistano Khuda Kay Liye (2007) di Shoaib Mansoor e nel recente New York di Kabir Khan e il successo di queste pellicole come del film di Johar incoraggerà probabilmente altri registi a imitarli, visto che i numeri hanno dimostrato che un pubblico per questo genere di storie si può trovare.
Dopo essere stato un vedovo alle prese con una figlia piccola e problemi di cuore causati da una pestifera amica di gioventù in "
Kuch Kuch Hota Hai" (1998), un figlio ribelle ai matrimoni combinati in "
Kabhi Khushi Kabhie Gham" (2001, film che sull'argomento affondava il coltello più profondamente che il contemporaneo leone d'oro veneziano "Monsoon Wedding") e un padre di famiglia amareggiato da tutto e tutti che trova una ragione di vita grazie ad una storia extraconiugale in "
Kabhi Alvida Naa Kehna" (2006)...sì, sì...lo so...tutti titoli che non vi dicono molto...ma se vivessimo in un altro paese vi assicuro che non sarebbe così!!!...Shahrukh Khan è nuovamente complice del regista e interpreta uno dei suoi personaggi più insoliti: non uno dei consueti macho men scavezzacollo e sicuri di sé, però sotto sotto assai sensibili (d'altronde già da un po' la megastar ha capito che variare la formula alla sua carriera fa soltanto bene!) ma una sorta di Candide contemporaneo (anche se ai produttori devono essere sembrati più promettenti i paragoni con Rain Man o Forrest Gump) che con dolcezza e innocenza porta a riflettere su una pagina buia della storia recente.
Rizvan Khan infatti è un uomo affetto dalla sindrome di Asperger (patologia sempre più "popolare" al cinema e in letteratura), che alla morte della madre amorosa (la veterana Zarina Wahab) raggiunge negli Stati Uniti il fratello (Jimmy Shergill in un ruolo ingrato) che vive a San Francisco e lo accoglie più per senso del dovere che non per un effettivo trasporto (il flashback sull'infanzia del protagonista, nel quale fa piacere vedere Khan interpretato da Tanay Cheeda, il Jamal mediano di The Millionaire, spiega i motivi dell'allontanamento fra i due). Aiutato dall'affettuosa cognata (Sonya Jehan), Khan trova un lavoro come piazzista e un giorno si ritrova nel negozio di Mandira, una donna indiana, separata, che ha gli occhi splendenti e l'indomabile energia di Kajol, la più importante fra le partner cinematografiche di Shahrukh. Compagni di scena in alcuni dei più fortunati titoli indiani degli anni novanta, tanto da aver formato una delle coppie più celebri della storia di Bollywood, Shahrukh e Kajol non avevano lavorato più insieme da quasi 10 anni (eccettuate un paio di apparizioni che l'attrice aveva fatto nei film dell'amico, partecipando in entrambe le occasioni a numeri musicali...momenti, com'è noto, cruciali in ogni produzione masala), complici anche il matrimonio della diva col collega Ajay Devgan (altro volto celeberrimo del cinema indiano) e la successiva maternità che l'avevano portata a defilarsi dalle scene (sulle quali fortunatamente è rientrata da qualche tempo a quasi pieno regime). Ovviamente l'aver riunito questa coppia d'oro del cinema asiatico è da iscrivere fra i colpacci di Johar e molto del successo che il film ha riscosso lo si deve anche e soprattutto a questo.
Rizvan/Shahrukh e Mandira/Kajol si sposano e si lanciano in un'attività commerciale che si rivela fortunata; Khan si dimostra anche un perfetto secondo papà per Sameer (Yuvaan Makaar), il figlio che Mandira ha avuto dal precedente matrimonio. La loro felicità sembra assicurata (ed è significativo che la fede islamica di lui e quella induista di lei non scalfiscano minimamente questa situazione), finché una mattina presto il telefono non li sveglia, a New York è successo qualcosa di spaventoso...dopo tutto cambia.
I clienti se ne vanno, i vicini di casa fino al giorno prima amichevoli cominciano ad avercela con Khan perché è musulmano. Intolleranza e violenza prendono presto il sopravvento e la famiglia dei protagonisti verrà segnata in modo irreparabile.
Così Khan, nel tentativo di migliorare le cose e prendendo alla lettera un'esclamazione sfuggita a Mandira in un momento disperato, decide di intraprendere un viaggio on the road per arrivare dal presidente Bush e dichiarargli di non essere un terrorista. Il viaggio si trasforma in una serie di disavventure e in una sequela di incontri con personaggi eterogenei, tutti in modo diverso conquistati dal buon carattere e dal candore del protagonista. Fanno eccezione alcuni poliziotti che, scambiatolo in effetti per quello che non è, gli faranno passare momenti molto brutti in un carcere di alta sicurezza. Per fortuna che un presidente nuovo (e migliore) è pronto a venire incontro alla richiesta del nostro (anti?)eroe.
Questo tentativo di Johar di affrontare un argomento così difficile è stato sicuramente fortunato e resta indubbio che My Name Is Khan ha la capacità di coinvolgere del miglior cinema popolare, grazie anche ad una colonna sonora di grande effetto (altro elemento irrinunciabile di un film indiano che si rispetti). Tuttavia, fermo restando che è inutile aspettarsi da Bollywood rigore brechtiano o denunce in stile Ken Loach, alcuni entusiasmi paiono eccessivi, come quelli ad esempio nei confronti della sceneggiatura firmata dal regista insieme a Shibani Bathija, dimentichi forse di alcune caratterizzazioni deboli (in pratica tutti i personaggi americani, affidati ad attori modesti o tendenzialmente macchiettistici), di episodi malriusciti come quello dell'uragano che travolge un paesino della Georgia (con riferimento al disastro di Katrina, pretestuoso nelle intenzioni, desolante nei risultati) dove Khan generosamente si precipita per aiutare alcuni amici conosciuti durante il viaggio o di momenti imbarazzanti come l'incontro col sosia di Obama; senza dimenticare tutta una serie di lungaggini che caratterizzano l'ultima mezzora del film. Peccati non venali, ma che non rovinano il piacere di rivedere insieme la coppia di bravissimi protagonisti o la speranza che questa (quasi) prima volta bollywoodiana sui nostri schermi non sia anche l'ultima.
01/11/2010