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Rupert Everett: "Il mio Wilde, simbolo di tutte le battaglie contro l'omofobia"

L'attore britannico spiega la scelta di raccontare gli ultimi anni di vita di Wilde nel suo emozionante "The Happy Prince"

Rupert Everett come Oscar Wilde. "Non posso vivere fuori dall'atmosfera dell'amore. Devo amare ed essere amato". Così diceva lo scrittore irlandese, pronto a distruggersi in nome di questo. E così dice Rupert Everett, qualche decennio in più ma ancora il grande fascino di chi non smette mai di pensare in faccia agli schemi degli altri. Rupert che sta tornando alla grande al cinema. Rupert che è a Roma per girare l'attesissima serie-tv "Il nome della rosa". E Rupert che presenta il suo film su Oscar Wilde, il bello e tosto "The Happy Prince" (dalla scorsa settimana in sala, in attesa che Everett sia accolto come ospite d'onore agli Incontri Internazionali del Cinema di Sorrento).

Parlando di Wilde, della sua emarginazione, della sua condanna ma anche della sua voglia di vivere, Everett parla di sé. Delle sue battaglie, dei suoi dolori, delle sue emarginazioni: "Lo sapevate che i 75mila condannati in Inghilterra per omosessualità insieme a Wilde sono stati riabilitati solo nel 2017? E anche a me il coming out è costato molto. Quando lavori in un mondo aggressivamente eterosessuale come quello del cinema, devi trattare e negoziare se sei gay. Oggi non è più così, ma ancora negli anni Ottanta e Novanta era tremendo. In fondo alla metà dei Settanta a Londra solo da pochi anni l'omosessualità era stata legalizzata. Io mi sentivo molto vicino a Wilde e ho sempre pensato che un giorno lo avrei interpretato".
E oggi? "Oggi la storia di un uomo distrutto solo perché omosessuale è una storia in cui facilmente ci si può identificare e non  solo in Russia o Cina, ma anche in Italia ,con l'avvento della Lega, e in tutta l'Europa. Il fatto che molti ragazzini gay siano spinti al suicidio o che la città di Genova non dia più il suo consenso al Gay Pride sono segni preoccupanti. Segni di una nuova omofobia che si va imponendo, qualcosa di pericoloso, che non va sottovalutato. Viviamo un nuovo oscurantismo".

Come dire, Wilde resta più attuale che mai, anche se Everett al film ha cominciato a pensare oltre dieci anni fa: "Non trovavo i soldi - racconta - ho cominciato a scrivere quando avevo più successo, poi però quando ho deciso di farlo nessuno era disposto ad aiutarmi. Sono felice di avercela fatta e odio le critiche perché nel film ho messo tutto quello che potevo. Proprio tutto".
E, per farlo, ha scelto uno stile particolare e ha gestito se stesso come regista e come protagonista in una maniera indimenticabile, praticamente perfetta per rimandare allo spettatore il Wilde come uomo, dolce, pericoloso, autodistruttivo, seducente, mai come icona, cosa che invece è stato fatto massicciamente al cinema sino ad oggi. "Ho cercato un mix tra il cinema di Visconti e la tv a circuito chiuso, lo stile della camera a spalla ma anche la ricercatezza - spiega - Io amo i film dei Dardenne e il loro modo di far guardare i protagonisti nella macchina da presa e poi seguirli. Del resto ‘Morte a Venezia' è stato molto presente nella mia mente, è uno dei miei film preferiti in assoluto. Adoro Visconti e il mio viaggio nel cinema è partito con Zeffirelli, che era il suo assistente. La mia conoscenza del cinema italiano è stata fondamentale, perché più di ogni altra cinematografia è sensibile ai costumi, al design, alla scenografia, al trucco".

E da dove viene la scelta di partire dagli ultimi anni, dalla fine vagabonda della vita di Wilde? "Ho fatto questa scelta perché trovo che sia più romantica questa parte della sua vita, così come l'ultimo decennio del diciannovesimo secolo. Ho potuto ricostruire molto perché Wilde scriveva tutto quello che faceva. E poi mi sembrava importante insistere su quel periodo, perché alla fine è stato lui stesso a tirarsi addosso lo scandalo, lui volle andare in tribunale e se non lo avesse fatto, la società lo avrebbe accettato. Ma Wilde era un uomo che, arrivato all'apice, non aveva più coscienza di quello che era davvero il mondo, pensava fosse come lui lo voleva, non pensava che lo avrebbe espulso. In fondo, la distruzione se l'è auto-inflitta, poi tutto l'odio e la persecuzione successiva furono conseguenti. Non volle neanche scappare invece di andare in prigione, forse perché vide in ciò un'opportunità per rinascere. Se si legge il ‘De Profundis', si scoprono molte cose: è un testo che anche la Chiesa dovrebbe leggere".





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