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Roma VII: incontro con Takashi Miike

Nella cornice del Festival di Roma, si è tenuto un incontro nel quale Miike ha potuto parlare del suo ultimo film e del suo cinema. Spiegando la sua idea di violenza e raccontando qualche aneddoto sul compianto Wakamatsu, scomparso pochi mesi fa

Qual è stato il suo approccio alla trasposizione dell'opera originaria di Yûsuke Kishi?

Il romanzo è lunghissimo, quindi ho cercato di condensarlo in una durata ragionevole. Come sempre mi sono concentrato sui personaggi che si muovono all'interno della narrazione: sono loro a comandare e io sono il loro fedele servitore. Il mio compito è far sì che esprimano il più liberamente possibile.

Sembra che ci siano vari riferimenti occidentali in "Lesson of the Evil", dalla mitologia norrena dei corvi Huginn e Muninn, messaggeri di Odino, a "L'opera da tre soldi" di Brecht. Erano presenti nel romanzo?

Il romanzo era spettacolarmente ben fatto e, quindi sì, questi sono elementi già presenti che non ho cambiato. Ho però pensato bene di mettere in calce la traduzione giapponese della canzone "Mackie Messer" e la versione moderna jazz.

C'è quasi una contrapposizione tra Hasumi e il suo amico americano, che dice di uccidere per divertimento. È una differenza cinematografica tra due modi di intendere la violenza?

È proprio così! I serial killer sono vite, individui, incidenti che esistono ovunque. Però Hasumin uccide per una necessità interiore: uccide per nascondere la verità su se stesso. Infatti, inizialmente, elimina chi sta per smascherarlo. Il massacro finale è un coming-out: libera la sua vera essenza mostrandola a tutti. Nel primo tempo del film ho cercato di far instaurare un'empatia con alcuni personaggi, quando, durante il massacro, Hasumin non risparmia nessuno. La sua mancanza di pietà è un fatto che ci terrorizza e ci destabilizza ed è il motivo per il quale ho sentito di doverlo proteggere, per questa sua onestà nei confronti della sua natura; tutti noi stabiliamo dei legami e li manteniamo, mentre lui ne è privo, è un personaggio completamente slegato. Quando gli alunni cominciano a essere uccisi, lo spettatore vorrebbe proteggerne alcuni, quelli per i quali simpatizza. In tal modo entra un po' nella testa del killer: Hasumi, però, non è toccato da questo tipo di discriminazione.

Che tracce ha lasciato Wakamatsu Koji, da poco scomparso? E vede qualche erede nel panorama odierno?

La sua scomparsa mi è molto dispiaciuta. Poi ho sorriso pensando che se n'è andato in maniera improvvisa e singolare: Wakamatsu non era uomo che potesse morire tranquillamente nel suo letto. È un personaggio che ha cambiato le regole nell'industria cinematografica giapponese; dava vita ai film che voleva, realizzandoli in totale libertà creativa. Al giorno d'oggi non so chi possa raccoglierne l'eredità, forse Sion Sono ha caratteristiche simili. Comunque, l'ho ammirato da lontano, perché l'avrò incontrato un paio di volte e in entrambi i casi eravamo troppo ubriachi per ricordare di cosa abbiamo parlato. Il team di Wakamatsu era molto particolare: ogni domenica i suoi aiuto registi avevano il compito di andare al parco per raccogliere la marijuana che coltivavano lì. Questo giardino è quello imperiale...tanto per fare capire quanto fosse forte la sua avversione per i poteri costituiti (ride, ndr).

Alla fine mostra le dinamiche scolastiche con un certo realismo. Anche i personaggi più simpatici o che apparivano più intelligenti, di fronte al pericolo, perdono la testa e si rivelano nella loro meschinità. Visto che lei ha sempre detto di essere stato deluso dai suoi insegnanti, per l'insincerità dei loro messaggi, definirebbe "Lesson of the Evil" educativo?

Be' non credo che si possa definire educativo...molti lo definirebbero semplice entertainment. Anche se per me c'è qualcosa in più. Ad esempio il professore di educazione fisica è un personaggio negativo, però prima della sua morte ho voluto donargli dei tratti di simpatia. Sono sicuro, invece, che la maggior parte del pubblico abbia in cuor suo esultato: hanno pensato che aveva quello che si meritava! Immagino anche che tifassero per i ragazzini innamorati: solitamente un gesto eroico viene ripagato, ma qui no. Così si incrinano le certezza etiche degli spettatori.

Lei ha spesso detto che vede la violenza come l'altra faccia dell'amore. L'ironia con la quale stempera la violenza è un modo per renderla più piacevole o per renderla più amorevole?

La violenza per certi versi è la conseguenza dell'amore, del desiderio di un qualcosa. Quando vedo un film che elude o che glissa sulla violenza, edulcorando tutto quanto, mi dico: "Questa è la vera violenza!". Io metto molto amore nel modo in cui mi approccio alle storie che devo raccontare.

Come commenta il "To be continued..." finale?

Non vuol dire che ci sarà il sequel. Semplicemente giunti a quel finale ho pensato che la storia di quei personaggi non terminasse lì. Hasumi si è finalmente rivelato al mondo e ci si chiede come potranno vivere i ragazzi, dopo aver visto scorrere tutto quel sangue.

Qual è il cinema che la emoziona? E c'è almeno un film occidentale in cui ha visto scene troppo forti per lei?

Mi piacciono molto i film dello Studio Ghibli, come "Il mio vicino Totoro". Una scena che mi ha sconvolto c'è stata... Volevo vedere un film di Chaplin che proiettavano al cinema, ma poi ho visto un film americano di cui non ricordo il titolo, dove si vede un uomo che aveva degli spasmi, perché colpito da un martello. Non avevo mai pensato a una reazione così violenta, mi ha scioccato. Da adulto mi è piaciuto "Starship Troopers", che ha una CG incredibile. Con quel film ho capito che il destino della CG era creare la distruzione, qualcosa che andasse «oltre» l'umana rappresentazione.





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