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Quentin Tarantino, Franco Nero - Speciale Django Unchained

Quentin Tarantino racconta il suo nuovo film "Django Unchained", tra gli omaggi allo spaghetti western italiano e il cameo di Franco Nero, l'eroe del film originale di Corbucci

ROMA - All'inizio era solo quello che era, il sesto di sette schiavi che formavano una fila. Poi ha iniziato a prendere sempre più forma, tratti definiti e poi volto: "All'origine c'era l'idea di raccontare di uno schiavo che diventa un cacciatore di taglie e parte alla ricerca dei sorveglianti di schiavi che si nascondono nelle piantagioni. Quando comincio una sceneggiatura ho un'idea sui personaggi ma non tutte le risposte, che mi arrivano in seguito come se avessi una calamita. Cristoph Waltz mi aveva raccontato 'L'Anello del Nibelungo' di Richard Wagner e nella storia di Sigfrido e Brunilde ho trovato similitudini. È da lì che sono partito". Per arrivare a questo "Django Unchained" (dal 17 gennaio nei nostri cinema in 500 copie). Uno dei film più attesi dell'annata: western by Quentin Tarantino e cast doc, da Jamie Foxx a Christoph Waltz, da Leonardo DiCaprio a Kerry Washington a Samuel L. Jackson, vera icona tarantiniana. Da lì è partito, e a Spike Lee che nei giorni scorsi lo aveva attaccato dicendo che non avrebbe visto il film perché "la schiavitù in America è stata un Olocausto e non uno spaghetti western", non intende rispondere: "Non voglio perdere tempo a farlo. Noi abbiamo solamente cercato di fare un film su questo tema nel miglior modo possibile, ma ci aspettavamo che venisse criticato, anche perché il personaggio dello schiavo comprende il mondo di violenza e il razzismo negli Stati Uniti, non con la ragione, ma con il coraggio, l'istinto e la violenza".

Insomma, molto più di uno spaghetti western. Come ben sa Tarantino, quando dice: "In genere il pubblico americano e Hollywood hanno come eroe un bianco e non immaginano che si possa vedere il razzismo con gli occhi di un altro di colore. Possiamo contare sulle dita di una mano i film che parlano di schiavitù. Rispetto al primo 'Django' il mio lavoro si occupa di razzismo in maniera più ampia. Ho cercato di raccontare il 'mio' western. Volevo la figura del mentore: l'europeo bianco Schultz che insegna il mestiere allo schiavo nero Django. Il primo capisce che la schiavitù è a livello intellettuale e non emotivo, il secondo invece lo comprende con l'istinto, la violenza. Poi però le cose si ribaltano. Io ho da sempre un debole per gli spaghetti western, che in America chiamiamo macaroni western, ma anche per il surrealismo e gli estremi che presentano, nonché per il montaggio basato sulla musica".
Già e il 'suo' western lo ha confezionato aprendo con i titoli di testa rossi d'ordinanza sulle note della celebre "Django", composta Luis Bacalov e cantata da Rocky Roberts per il film di Sergio Corbucci e chiudendolo con "Lo chiamavano Trinità" di Franco Micalizzi, mentre il suo eroe, il nuovo Django di Jamie Foxx, è diventato da pezzente schiavo barbuto un sofisticato eroe da blaxploitation anni 70 con occhialetto nero.

E gli attori, coinvolti al grido tarantiniano di (quasi) ogni volta dopo un ciak "Bellissima scena ma facciamone un'altra perché a noi piace fare il cinema!", che hanno da dire? "Quentin è uno dei pochissimi registi americani che sono anche veri autori, come Woody Allen o Oliver Stone. È un piacere lavorare con lui. Per me è stata una vacanza. Sono sempre stato a mio agio sul set, anche se vuole la perfezione. Quentin scherza, ride ma sa al 100% cosa vuole", dice Franco Nero, Django originale nel film di Corbucci , qui voluto da Tarantino in un cameo e sicuro nel dire che "sia il film di Corbucci che quello di Tarantino sono film politici". E il protagonista Jamie Foxx: "Quando ho avuto la possibilità di lavorare con Tarantino, l'ho colta al volo. Sapevamo che ci sarebbero stati temi scottanti, ma volevamo realizzare un lavoro migliore. Il film è un successo e occorre vederlo prima di giudicarlo". E Waltz: "Trovo le sceneggiature di Quentin come quelle di Cechov o Shakespeare, non occorre cambiare nulla. I suoi film sono operette alla Wagner, vanno oltre l'immagine". E, mentre Tarantino sciorina la sua agenda prossima ventura ("Ho scritto metà sceneggiatura di un film sui soldati di colore Usa impiegati in Normandia dopo il D-Day per seppellire i corpi dei nostri e tenere sotto tiro i tedeschi con fucili scarichi, perché ancora negli anni 40 i bianchi non si fidavano"), non dopo aver per l'ennesima volta fatto la sua dichiarazione d'amore al cinema italiano ("Negli ultimi due film l'ho evocato in maniera possente. Mi piace Bellocchio e incontrare - come ho già fatto e farò anche stasera a Roma per l'anteprima europea di ‘Django Unchained' - Edwige Fenech, Barbara Bouchet, Sidney Rome, Gloria Guida, Sergio Martino, Umberto Lenzi per me è come incontrare gente del muto: sono loro le vere star"), la Washington alla domanda sul razzismo di oggi, risponde: "Pensate a quanto è successo al Milan nella partita con la Pro Patria di Busto Arsizio sospesa per i buu razzisti rivolti a Boateng e altri calciatori di colore, il problema non è solo americano ma del mondo intero". Si può non darle ragione?