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Origine della tagliola moralista su Scorsese e Kechiche

Sembra tornato in auge o forse non era mai scomparso il tentativo di filtrare i film attraverso la lente morale. Il dibattito lo ha riacceso l'ultimo film del cineasta americano. Ci si chiede, allora: un cinema a-morale è possibile?

«Vorremmo che i critici capissero che noi vediamo non meno di loro i lati curiosi dei nostri personaggi, ma è nostro dovere raccontare i fatti come realmente si svolsero: toccherà quindi al lettore colto e accorto consultare il testo originale della Natura, da cui abbiamo tratto tutto quello che c'è nella nostra opera, anche se non sempre citiamo la pagina a cui abbiamo attinto.»

wolf4Il dibattito critico - più volte dichiarato morto, ma concediamogli il beneficio dell'agonia - sembra riappropriarsi di un moto d'orgoglio quando a sfidarlo è una lasciva candela affissa in un sinusoidale lembo di carne (quello meno nobile) di Leonardo DiCaprio e, in generale, un film che trova nella biografia di Jordan Belfort, avido e amorale truffatore dal colletto bianco, la sua più sincera dichiarazione di intenti. Succede così che Massimo Gramellini - invero più noto per il buongiorno prosaico e la correità in perbenismo con Fabio Fazio, che per le velleità critiche - si lasci andare, dalle pagine di Vanity Fair, in una accorata disanima dell'ultimo lavoro di Martin Scorsese. Fin qui tutto bene, del resto il film ha fatto molto parlare di sé anche in patria. Se non fosse che le motivazioni addotte - e già salacemente deprecate da Marco Giusti su Dagospia - rivelino e riportino in auge il desiderio di omogeneizzare la morale con l'arte.

Tentativo fallace in partenza perché l'arte, nelle sue innumerevoli manifestazioni, è espressione dello stare al mondo, della tensione all'infinito e all'oblio, figurazione della vita. E come può chiamarsi arte (pur settima) se non contempla nel novero della rappresentazione il gretto e il meschino?.

Ma veniamo a noi. Gramellini dice: "Se tu racconti la vita di un bastardo nevrotico attraverso la sua autobiografia e il volto intenso del formidabile DiCaprio, stai già facendo una scelta di parte. Inviti il pubblico a empatizzare con il protagonista, anche perché il male seduce più del bene, oltre a essere un espediente narrativo più facile".

Ecco, in queste poche righe giace tutto il senso ultimo della pedagogia da repubblica riflessiva fondata sulla par condicio, nonché, per altri versi e senza volerlo, il peggior lascito che il neorealismo ci ha abbia reso. La gloriosa stagione neorealista, una volta conclusasi, ha continuato a rappresentare l'universo verso cui tendere, la cristallizzazione del paradigma cinematografico e l'ingombrante bagaglio da cui attingere; per cui il tentativo di scindere la narrazione dall'analisi civile e sociale va a collimare con la definizione stessa di Cinema, nella sua più elevata accezione. Cosicché si fa strada e trova consensi l'idea del "messaggio" come inscindibile dall'oggetto filmico. Al contrario, un riflesso pavloviano all'alba del postmodernismo ha cercato di dare dignità all'assenza di significato dell'opera d'arte - bisognava giustificare la Fontana di Marcel Duchamp o la Merda d'artista di Piero Manzoni - fino a farne una battaglia nichilista. E quando si parla della possibilità (diversa dalla necessità) di fare arte senza includere messaggi di sorta, è facile, quasi immediato, pensare che si tratti di afflizione da contagio dadaista. In realtà, il dibattito cui si fa riferimento ha una lunga storia alle spalle, fin dall'800 decadente.

Può, quindi, un film a-morale (e non im-morale perché il messaggio non c'è, anziché esserci ed essere negativo) come The Wolf Of Wall Street essere considerato un lavoro pregnante?. Sì, e il perché è presto detto. Raccontare Jordan Belfort filtrato attraverso il suo punto di vista vuol dire dare spazio a una delle modalità che la natura dell'uomo ha per dispiegarsi. Raccontare una possibilità nell'infinito possibile. Simulare la vita con adesione antropologica. E quando fa questo, l'arte è se stessa.

Si può, semmai, contestare l'onestà del lavoro, l'efficacia del medium, la liceità delle scelte narrative, ma l'opera filmica per dirsi pregevole non ha bisogno di includere un fine morale, politico o sociale. La morale non è un punto d'accesso privilegiato all'arte, ma un'eventuale strada percorribile per raggiungerla.

adele_01Avamposto della critica eticista dell'arte è la scioltezza con cui si parla di pornografia. Un esempio recente è apparso sul blog letterario Minima & Moralia. Scrive Christian Raimo circa "La vita di Adele": "La cinepresa è attaccata al corpo di Adèle o di Adèle e Emma - le due protagoniste lesbiche - che scopano, con un obiettivo che volendo essere neutro (niente musica, niente parole) risulta semplicemente pornografico (...) Ci fa vedere scene di scopate tra due belle ragazze. A tutti, democraticamente. Se facebook, come dice Zuckerberg, è un diritto dell'umanità, perché youporn no?".

Adéle e Emma si conoscono per caso e tra loro scatta, subitanea e inflessibile, un'attrazione fisica ed erotica che ne travolge le rispettive vite. Come potrebbe, dunque, il loro rapporto esprimersi diversamente se non come due corpi vinti dalla corporeità e Kechiche dare rappresentazione al vero esimendosi dal filmare il licenzioso in una versione realista?

Oltreché essere un termine abusato, lo spettro della pornografia si agita quando si respinge l'idea che il sesso possa avere dignità di rappresentazione dal momento che riguarda, anch'esso, la vita degli uomini, allo stesso modo della vita spregevole di Belfort. Lo si ritiene, invece, con una spinta vocazione al tartufismo, miserrima derivazione del voyeurismo e di chissà quali perversioni che fanno poco intellettuale militante.





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