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Con il loro stile intellettuale e raffinato, l'ironia cinica e impietosa, i due cineasti hanno gettato uno sguardo nuovo e originale sulla contemporaneità, sempre riadattando ai tempi e rinnovando tutti i generi nei quali si sono cimentati. Una carriera quasi trentennale per due precoci maestri del cinema postmoderno che OndaCinema rilegge in questa monografia

Joel e Ethan Coen nascono rispettivamente  il 29 novembre 1954 e il 21 settembre 1957 a Minneapolis. I genitori appartengono a una benestante famiglia ebrea, il padre è un economista dell'Università del Minnesota e la madre insegna storia dell'arte all'Università Statale St. Cloud.
La passione per il cinema è precoce e investe con veemenza entrambi i ragazzi in maniera viscerale e contagiosa. Anche i Coen, come molti registi da giovani, hanno risparmiato i soldi delle paghette per poter comprare una Vivitar Super 8 e dirigere dei piccoli film, rifacimenti e parodie delle visioni casalinghe, utilizzando amici e vicini di casa come protagonisti.
Dopo il diploma  al St. Louis Park High School, si iscrivono al Bard College at Simon's Rock nel Massachusetts: Ethan si laureerà nel 1979 a Princeton con una tesi sulla filosofia di Wittgenstein, mentre Joel frequenterà i corsi su Film e Tv della New York University.
All'inizio degli anni 80 il maggiore dei due Coen muoverà i primi passi nell'industria cinematografica raggiungendo la posizione di assistente al montaggio del film La casa, esordio di un nome importante per il cinema a basso costo di quel decennio, Sam Raimi, del quale Joel diviene ben presto amico. Nel frattempo Ethan riesce a trovare lavoro come sceneggiatore tv e scrive alcuni episodi dello show della Cbs New York New York (Cagney & Lacey in originale).
Entrambi i lavori servono da palestra per capire i meccanismi della produzione e tornano utili quando i due fratelli si decidono a realizzare il loro primo film, tirando fuori dal cassetto uno script pronto già da qualche tempo. Non avendo l'esperienza necessaria affinché una major puntasse sul loro progetto, i Coen tornano a casa, a Minneapolis, e utilizzano uno stratagemma à-la Raimi, divenuto piuttosto famoso nell'ambiente: affittano una cinepresa e girano un trailer di 3 minuti solo a uso e consumo dei possibili investitori che convincono tra il Minnesota e il Texas. Dopo un anno, i tenaci ragazzi di Minneapolis racimolano un milione e mezzo di dollari: quanto basta perché la loro avventura cinematografica possa cominciare.

Blood Simple, un titolo programmatico


Il 18 gennaio 1984 esce nelle sale americane l'esordio di un misconosciuto regista che firma la sceneggiatura insieme al fratello, il quale fa anche da produttore. Questo inedito due creativo vince il Premio della Giuria al Sundance Film Festival e stupisce tutti, imponendosi sin da subito all'attenzione della critica cinematografica. Blood Simple - Sangue facile è uno dei titoli più importanti del cinema indipendente americano degli anni 80, quasi un paradigma che fece da frangiflutti alla metà del decennio, consolidando metodi di produzione inaugurati da Sam Raimi con l'ormai cult The Evil Dead.
Se però Raimi utilizzava un genere ancora popolare come l'horror, rivisitato dal singolare gusto dell'autore per il grottesco e la parodia, i fratelli Coen avevano la precisa intenzione di girare un noir, di posizionare un genere morto nella viva contemporaneità. Joel e Ethan Coen al pari di David Lynch (Velluto blu è del 1986) sono stati precursori di quella rinascita del noir che ha invaso non solo il cinema ma anche la letteratura contemporanea, quasi fosse un humus comune su cui artisti differenti si sono cimentati.bloodsimplemono I personaggi  di Dan Hedaya (Julien Marty) e John Gets (Ray) sono alla base di un triangolo che punta verso Abby (una tostissima Frances McDormand, che sposerà Joel dopo le riprese). Gli uomini del film sono essenzialmente degli inetti, il primo è il tenutario di un locale che, roso dalla gelosia, fa pedinare la moglie e, dopo averne scoperto il tradimento, commissiona al viscido detective privato l'omicidio suo e del di lei amante, non rendendosi conto di cosa avrebbe innescato; il secondo è, invece, l'unico dei tre protagonisti a intravedere la fitta rete in cui si sono incastrati e per questa ragione viene assalito da una folle paranoia. Abby è diversa nel suo essere donna scaltra e decisa e scampa alla catastrofe; non perché abbia qualità superiori, ma piuttosto per un disinteresse nel capire la piega degli eventi (esattamente come la poliziotta protagonista di Fargo), aspetto che gli autori suggeriscono con le ultime battute in cui l'investigatore di M. Emmett Walsh nota sardonico come lei non abbia colto il meccanismo che ha portato a quell'epilogo. È, infatti, il detective Loren Visser/Emmett Walsh a essere il primo e diabolico agente del Caos, figura-chiave del cinema coeniano: un private eye avido e privo di etica, che raggira il suo cliente per un maggiore guadagno e poi non si fa scrupoli a uccidere chiunque ostacoli (involontariamente) la sua strada.
Basta un quarto d'ora a Joel Coen per tratteggiare i caratteri principali della sua opera prima: un triangolo pericoloso, un detective scafato e senza scrupoli, e il paesaggio, quello delle arse lande del Texas. Narrativamente è lo scheletro del noir, riempito dalle ossessioni coeniane: la corruttibilità morale e l'avidità come miccia per un'escalation di violenza, il caso come demiurgo delle azioni umane, e uno stile che, anche se più asciutto (per il basso budget), possiede già una forte maturità espressiva. Si pensi alle (qui) brevi carrellate, che si dilateranno in seguito, all'uso dello spazio per disorientare lo spettatore (bellissima la sequenza dello scontro attraverso le pareti dell'appartamento tra Abby e Loren Visser) e tratti registici personali di chiara marca postmoderna: solo i Coen potrebbero realizzare un dolly lungo il bancone del bar, partendo da lontano per ascoltare una conversazione, saltando (letteralmente) il corpo di un avventore steso dall'alcool. E, infine, l'uso della musica (del sodale Carter Burwell), del comparto sonoro nel suo insieme, che è volto a fare da contrappunto sarcastico alla tensione drammatica: come avviene nella scena in cui Marty sbotta contro Ray e sentiamo una zanzara essere fulminata dalla gabbia elettrica, oppure, quando il personaggio di John Gets tenta di seppellire il cadavere del suo ex-capo con in sottofondo una festosa canzone messicana. Sebbene, successivamente, i due filmmaker abbiano affermato di aver pensato al loro esordio come a un B-movie degli anni 50, il corredo di caratteri peculiari che emerge diverrà ricorrente nella loro filmografia.
In evidenza è posto sin da subito il raffinato citazionismo, una sfrenata contaminazione intertestuale giocata a tutto campo, a partire da quel titolo, Blood Simple, tratto da un passo di "Red Harvest" di Dashiell Hammett. E l'intera pellicola è impregnata della cinefilia dei due autori, vista anche l'impossibilità di non riconoscere nella scrittura le atmosfere torride di James M. Cain, i viluppi narrativi di Raymond Chandler e, soprattutto, del cinema che si è abbeverato alla loro fonte.

Sogni e incubi: consolidare lo stile attraversando i generi


In Arizona Junior (1987) un baffuto Nicolas Cage interpreta Herbert I. McDunnough detto "Hi", un ladro di polli che finisce ripetutamente in gattabuia poiché rapina sempre il solito discount. In carcere ha quasi una seconda casa e fraternizza con gli altri galeotti alle sedute di gruppo; durante l'immatricolazione conosce una poliziotta che dice di chiamarsi Ed (Holly Hunter, in un ruolo scritto appositamente per lei). Di volta in volta, cioè di arresto in arresto, Hi si mostra innamorato di Ed fino a chiederle di sposarlo, una volta scontata la pena che, naturalmente, dovrà essere l'ultima. Focalizzandosi sul punto di vista di Hi (che farà da voce narrante) il prologo è un ironico gioco di montaggio che attraverso una serie di sketch descrive la premessa al nucleo del racconto.
L'idillio degli sposini, come ammette a malincuore Hi, è di breve durata, visto che Ed scopre di essere sterile, lasciando il lavoro e cadendo in depressione, ossessionata dall'idea di un figlio tutto suo. Hi continua il suo lavoro onesto, in fabbrica, timbra il cartellino mentre i colleghi gli parlano di cose che lui non ascolta. Un giorno, la notizia dei 5 gemelli Arizona (figli di un noto venditore di mobili) fa il giro dei tg e l'idea balzana raggiunge la coppia: loro ne hanno troppi, sono stati troppo fortunati, un figlio in meno non inciderà più di tanto. Ed è così che la commedia si trasforma in un bislacco on the road e, al contempo, in una tenera commedia familiare.
I fratelli di Minneapolis mostrano nella loro opera seconda un'altra caratteristica importante: l'eclettismo, la capacità di passare da un registro a un altro e l'abilità nel contaminarli con leggerezza e intelligenza.
I riferimenti splastick sembrano più rivolti al mondo dei fumetti che a quello del cinema, e complessivamente Raising Arizona ha forti componenti cartoonesche ed è probabilmente il lavoro più raimiano dei Coen, ancor più di The Hudsucker Proxy che sarà co-sceneggiato da Raimi (non a caso Arizona Junior arriva dopo una sceneggiatura scritta per il loro amico, quella de I due criminali più pazzi del mondo).
Al contrario del mondo laido e già compiutamente pessimista di Sangue facile, Arizona Junior costruisce caratteri simpatetici, una fotografia calda della suburbia dell'Arizona. Mutano in farsa il senso di tragedia dell'opera prima: in Blood Simple tutti i personaggi sono più o meno condannati dalle loro incaute azioni, mentre Hi e Ed, pur essendo una coppia bizzarra e borderline, riescono a redimersi nonostante gli errori.
Il finale è un sogno a occhi aperti: riuscire a vedere Nathan Arizona Junior crescere, diventare grande, come due spettatori silenziosi, e poi avere una famiglia tutta per loro. Il livello onirico non si manifesta solo alla fine, vi era già stato un intermezzo in cui il sogno si faceva premonizione nefasta: quando Hi, la notte del rapimento, sogna l'avvicinarsi del Motociclista dell'Apocalisse, un personaggio che dall'incubo del protagonista si materializza nel tessuto narrativo. Anche lui, un agente del Caos, mosso dal desiderio di incassare la taglia che pende sulle teste dei due rapitori.
Il nome "the lone biker of the Apocalypse" non è casuale: nel cinema coeniano, anche nelle parentesi più leggere, l'imminenza dell'Apocalisse rende l'aria pesante, il fato è imperscrutabile, e la Bibbia è un riferimento frequente da Sangue Facile (alla radio si sente di una pericolosa influenza proveniente da Giove) a Barton Fink (dove si leggono passi della sceneggiatura di Barton tra i passi di Daniele e dell'Apocalisse) fino a diventare protagonista nella tragedia di un uomo ridicolo, rappresentata in A Serious Man, dove i Coen spargeranno il loro caustico sense of humour nell'ambiente ebraico che li ha visti crescere.

millerscrossingmonoTom: "I had a dream last night. Me hat blew off." - Verna: "...Don't tell me, it turned into something else and you chased it and chased it. But no matter how fast you ran you never caught up." - Tom: "No. It stayed a hat. And I didn't chase it. Ain't nothing stupider than a man chasing his own hat".
Un dialogo tra Tom Reagan (un grandioso Gabriel Byrne) e Verna (Marcia Gay-Harden nella mise di una dark lady) ci rivela il significato della breve scena posta sui titoli di testa: non c'è niente di più che un cappello che vola, il borsalino che Tom tiene sempre ben calcato sulla testa. Un feticcio sfuggente proveniente dall'epoca dei gangster, la quale viene ricostruita con l'usuale perizia, anche grazie alla fotografia di Barry Sonnenfield, qui alla sua ultima collaborazione coi due fratelli - che abbandonerà per iniziare la carriera da regista con la produzione de "La Famiglia Addams" (1991). Dei tre lavori coeniani, quello realizzato con Crocevia della morte (1990) è sicuramente il più prezioso e interessante, una meticolosa ricostruzione filologica di ambienti e atmosfere che attecchiscono immediatamente sul vecchio immaginario gangster, creando una correlazione agli occhi dello spettatore smaliziato. Il film fu girato a New Orleans, una delle città americane più viziose, che conservava ancora scorci della sua nobile decadenza: non viene mai nominata perché, come spesso accade nel cinema coeniano, lo spazio è un luogo dove avvengono fatti così reali da poter rimanere silenzioso ospite degli eventi. Come ci insegnerà Fargo, non ci si può fidare nemmeno delle storie "ispirate a fatti realmente accaduti".
Miller's Crossing si impone come uno dei film più intrinsecamente cinematografici nell'opera coeniana, dove ogni dettaglio è segno di un funambolismo nella ri-scrittura delle regole del genere per riaffermarle nuovamente. Questo processo si intuisce già dal prologo che è costruito basandosi su "Il Padrino" (1972) di Francis Ford Coppola: un uomo grassoccio, basso e baffuto, dal forte accento italiano (Jon Polito) chiede un accordo al boss della città. Ed è qui che viene fuori l'anima caustica e sovversiva dei Coen poiché, da intellettuali postmoderni quali sono, ogni omaggio lo rivolgono contro l'originale: non si dà la parodia di quel contenuto, ma lo si svolge secondo una diversa prospettiva. Infatti, il personaggio di Johnny Caspar è un boss tanto quanto lo è Leo (Albert Finney) e non sta questuando un aiuto, è anzi sempre più restio all'idea di doversi umiliare di fronte all'irlandese. Lo smacco che Caspar subisce - Leo protegge il fratello della sua amante, Verna - potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso degli equilibri tra gang nella città. Il "consigliere" Tom Reagan, difatti, prevedendo ampiamente lo scontro aperto, usa tutto il suo ingegno per uscirne vivo e per aiutare, attraverso una trama di doppi, tripli e quadrupli giochi, il suo (ex) amico Leo.
Anche in questo caso la letteratura hard boiled ha avuto una forte influenza sull'intreccio e gli stessi autori hanno confermato di aver tratto ispirazione da "La chiave di vetro", romanzo del 1931 di Hammett.
Da un punto di vista squisitamente visivo, Crocevia della morte è il catalogo del cinema noir/gangster come solo Le Cercle Rouge (1971) di Jean-Pierre Melville era stato capace di esserlo, fino a quel momento. I Coen, sublimi emulatori, dialogano col mondo melvilliano sin dal titolo: l'incrocio di Miller, dove avvengono le esecuzioni, rimanda al bosco ne I senza nome, il personaggio di Gabriel Byrne ha diverse caratteristiche affini all'iconografia e alla psicologia del protagonista de Lo spione (Le Doulos, 1962), interpretato da Jean-Paul Belmondo: il fedora in testa, il sorriso di chi è sempre un passo avanti l'avversario, il bluff come istintiva posta per la sopravvivenza, il cinismo come ariete, la lealtà quale unico codice etico rimasto integro.
Come il cappello del sogno di Tom, Miller's Crossing racconta di un mondo che sta sfuggendo di mano ai propri padroni; i Coen, da parte loro, si aggrappano a questo nostalgico commiato, perfettamente commentato dalle autunnali composizioni di Burwell.
La geometrica progressione degli intrighi e il suo svolgimento imbrogliatissimo non è stato facile da scrivere per gli autori, che hanno anche vissuto un periodo di scarsa creatività. In questo frangente hanno preferito cambiare aria, sfruttando quel momento transitorio per un altro soggetto: il protagonista sarebbe stato un drammaturgo che, giunto a Hollywood, si trovava a dover fare i conti con il blocco dello scrittore.

Nasce così la sceneggiatura di Barton Fink, partorita in sole tre settimane, in un appartamento di New York. Opera che, a posteriori, possiamo affermare abbia avuto un percorso singolare: difatti, stravince a sorpresa il Festival di Cannes portando a casa l'irripetibile triade di premi (Palma d'oro, Palma alla regia di Joel e all'interpretazione di Turturro) ma non incassa molto (e questo poteva essere prevedibile) né i critici che amavano i Coen incensano realmente questo loro lavoro. bartonfinkmonoForse, un notevole peso lo può aver avuto la presidenza nella giuria del festival cannense di Roman Polanski, delle cui atmosfere malsane v'è più di una traccia: le carte da parati dai motivi floreali, la crescente paranoia di Barton sono vicini a L'inquilino del terzo piano e l'aria che si respira all'Earle Hotel emana le stesse sensazioni che si vivevano nell'Overlook del kubrickiano Shining.
L'intellettuale Fink, lasciata la sua New York dopo una pièce di successo, va a lavorare ad Hollywood convinto dal suo agente: la casa di produzione gli commissiona un film sul wrestling, un prodotto commerciale, di quelli che vengono realizzati in serie su script-canovacci. Ma Fink a L.A. è uno straniero, si sente escluso dal consesso umano, per questo si affeziona immediatamente alle uniche due figure di cui fa conoscenza: il vicino di camera Charles Meadows (un gigantesco John Goodman), un assicuratore sempre in viaggio per gli stati americani e Audrey, segretaria e amante di uno scrittore che venera, W.P. Mayhew (esemplato sulla figura di William Faulkner). Entrambi gli incontri avranno esiti molto negativi: l'amichevole Meadows non è l'uomo del popolo, eroe ideale dei drammi di Fink, bensì un serial-killer di nome Karl Mundt; il suo scrittore preferito è un uomo alla deriva, rovinato dall'alcol, i cui ultimi lavori vengono scritti dalla segretaria.
La vita in albergo si fa via via più alienante, le mura grondano sudore facendo scollare la carta da parati, è come se l'edificio avesse una vita sua, come se fosse "un grande orecchio" (così scrisse a suo tempo Roberto Escobar) e - per aumentare la suggestione di questo spunto - aggiungiamo che, forse, l'Earle Hotel è l'orecchio di Karl Mundt, infetto come lui, matto e imprevedibile come la sua personalità. C'è senza dubbio una relazione visto che - come nota Barton - la presenza di Karl fa surriscaldare la temperatura, la sua rabbia provoca un incendio nell'edificio: un fuoco simbolico e infernale le cui lingue non avvolgono nessun personaggio. Il viaggio statico di Barton è un viaggio negli abissi del processo creativo che i Coen elaborano quasi come spauracchio per le loro paure di intellettuali di provincia, che potrebbero rimanere imbrigliati nelle reti della Hollywood-Babilonia, mondo altro che viene descritto attraverso scene e dialoghi grotteschi. 
Il monologo finale di Karl, rivolto a Barton, è rivelatore in tal senso, visto che sottolinea le mancanze dell'intellettuale Fink ("Tu non ascolti") e gli dice che, se crede di soffrire deve rendersi conto che è lì in vacanza con la macchina da scrivere, mentre lui (Karl), lì, ci abita. Barton Fink comprende lo iato tra le sue sovrastrutture mentali e il mondo vero che ha la presunzione di rappresentare tramite il "teatro realista". Alla fine, accetta il suo destino, costretto ormai negli spietati meccanismi hollywoodiani (dovrà continuare a scrivere per la Capital Pictures finché è sotto contratto) e va a fare una passeggiata in spiaggia: in questo luogo ameno e sereno trova la ragazza dell'immagine della sua stanza e lui vi è dentro. In una realtà svuotata dall'interno è vano tentare di distinguere il sogno dall'incubo.
L'esercizio sulla riscrittura del cinema - e nella scrittura dei film - raggiunge con Barton Fink il suo zenit teorico. La pellicola sfoggia un intellettualismo manierato che costituisce il limite sia formale che sostanziale: la tesi è sovraesposta formalmente ma rimane involuta, e su un piano astrattamente simbolico (per non dire psicanalitico), nello sviluppo del racconto. Ci resta un'opera di grande fascino, dove lo stilismo coeniano si sbizzarrisce nei movimenti di macchina più arditi, fino al celebre dolly "ingiustificato" che nasconde la notte d'amore tra Barton e Audrey per inquadrare lo scarico di un lavandino. Il lavoro sulle superfici e sui colori dà il senso della putrefazione insito nell'albergo ed è compiuto con grande maestria da Roger Deakins - d'ora in poi direttore della fotografia sempre al fianco dei Coen - che sviluppa anche sinuose e lenti carrelli lungo i corridoi, filtrati da lenti grandangolari che distorcono distanze e dimensioni, sfasate come in un'allucinazione.

hudsuckerproxyhoop_2970Il successo cannense di Barton Fink ha comunque fatto buon gioco ai registi americani, visto che il film successivo diviene il più costoso della loro carriera (25 milioni di dollari), grazie alla produzione di Joel Silver. Si tratta di Mister Hula Hoop, realizzato nel 1994 a partire da una sceneggiatura scritta dai Coen insieme all'amico Sam Raimi.
Norville Barnes (Tim Robbins), un neo-laureato in cerca di un impiego nella Grande Mela, trova lavoro nelle industrie Hudsucker in una giornata stramba: infatti, quella mattina, nel bel mezzo di un Consiglio d'Amministrazione, il presidente della Hudsucker si getta dal 44° piano (45°, contando il mezzanino) del grattacielo, mettendo tutti i membri del consiglio in imbarazzo e in subbuglio per il da farsi. A prendere in mano la situazione è Sidney J. Mussburger (l'arcigno Paul Newman), che cinicamente indica la via: prendere una marionetta come nuovo presidente, far crollare i titoli e ricomprarli a prezzo stracciato per ottenere l'intera proprietà. Barnes viene inviato da Mussburger per recapitare una lettera blu (massima urgenza) e coglie l'occasione per mostrargli la sua invenzione, il cui progetto tiene in un foglietto nascosto dentro la scarpa: si tratta del disegno di un cerchio. "È per i bambini" confessa a Mussburger, il quale lo prende naturalmente per un emerito imbecille. Dopo averlo quasi licenziato, il ragazzone di provincia finisce per salvare la vita in maniera rocambolesca a Sidney e questo è il passpartout per la presidenza dell'azienda. Una giornalista fiuta l'inghippo e si infiltra come segretaria, capendo che Norman più che un imbecille è solo un bravo ragazzo un po' ingenuo: intanto l'invenzione di Norman, che doveva essere il flop per atterrare i titoli nell'ottica di Mussburger, si rivela un successo clamoroso... ma dopo un'ascesa fulminea non vi può che essere una caduta rovinosa.
A grandi linee è questa la trama di The Hudsucker Proxy, bollato spesso come un'opera minore nella carriera dei due registi, come un punto basso in un momento di ripiegamento su se stessi. A una revisione più attenta, però, si rivela un gioco di prestigio manierista condotto dai due fratelli di Minneapolis con una verve brillante e mai doma. Dal punto  di vista figurativo il film ripercorre le fondamenta del sogno americano sfruttando gli stessi topoi del maestro Frank Capra, più l'umorismo delle commedie screwball di Howard Hawks. Inutile dilungarsi eccessivamente, vista la varietà delle fonti, sull'apparato decostruzionista messo in scena con un patchwork di omaggi che vanno dalla comparsa dell'angelo da La vita è meravigliosa (1946) alla donna in carriera à-la Lucille Lombard, perfettamente resa dalla performance di Jennifer Jason Leigh.
The Hudsucker Proxy è un tenero appello all'importanza del racconto nella Hollywood dei tempi d'oro, affinché venga reintegrato nel sistema contemporaneo: l'intera pellicola è uno spericolato viaggio intorno ai personaggi che dipana la sua linea narrativa per mezzo di aneddoti e digressioni. Ci ritroviamo davanti a un'opera che ha non solo il coraggio di affrontare un genere ormai fuori tempo massimo, ma di farlo nel modo più rischioso, addirittura esigendo l'happy ending attraverso la manifestazione di un deus ex-machina. L'orologiaio Moses, una figura fino a quel momento laterale, interviene frenando la caduta dal grattacielo del nostro protagonista (bloccando l'enorme orologio della torre Hudsucker) e lottando contro un altro inseriviente, l'incisore, la sua nemesi che attende a quella morte, sconfigge l'altro epilogo ipotetico. Tutte queste astuzie inseriscono il film in una spessa cornice metanarrativa: tutto talmente artificioso, ci sembrano dire i Coen, che può accadere solo al cinema. Per una volta vale la pena crederci...

Tutte le variazioni del nero

fargo_monoQuando all'edizione del 1997 i fratelli si presentano alla notte degli Oscar, qualcosa sta cambiando. I Coen escono allo scoperto e, dopo la parentesi felice del Festival di Cannes, cominciano a raccogliere anche un consenso di pubblico molto vasto. Il motivo è dato da Fargo, il film che li proietta nell'Olimpo di Hollywood, la pellicola che fa esplodere tutta la loro poetica ormai consolidata.
Un noir "in bianco", com'è stato legittimamente definito, Fargo è una commedia grottesca che indaga su un duplice ordine di eventi. Da una parte, c'è la riflessione mai banale o scontata degli autori su un mondo della middle class americana ormai allo sbando, dove le persone "perbene" sono schiacciate da una routine quotidiana alienante e i criminali hanno perso qualsiasi forma di "etica della violenza". Quando le prime incontrano i secondi, il cocktail esplosivo è questo: sangue a litri per questioni futili, una spirale di crudeltà completamente slegata dal rapporto causa-effetto. Con l'aiuto di una sceneggiatura che è davvero un marchingegno a orologeria, i Coen mettono in scena il teatro dell'assurdo dei giorni nostri: avidità ed esseri umani oppressi dal senso del dovere delle proprie responsabilità e messi a contatto con una violenza amorale, inutile, comica nella sua gratuità. La concezione del mondo dei due cineasti si fa ancora più tragica e disillusa rispetto ai precedenti esperimenti cinematografici. E, quasi come una sorta di contrappasso, diventa invece più esilarante il loro umorismo nero, come se si trattasse di un binomio inscindibile, l'assurdità del mondo contemporaneo e la comicità come unico modo per metterlo alla berlina.
All'inizio del film compare una didascalia fittizia: i fatti narrati sono ispirati da un evento di cronaca realmente accaduto. Alla fine, invece, sui titoli di coda, una nota esattamente contraria smentisce quanto premesso: ogni riferimento a cose o persone realmente esistenti è puramente casuale. Insomma, la didascalia iniziale funge da preambolo impossibile da evitare: nonostante la storia raccontata sia frutto della mente geniale dei due registi, è alla vera America che essi guardano. È questo che li rende, nonostante il loro apparente disimpegno da qualsiasi discorso civile o politico, due autori profondamente intellettuali nel loro utilizzo della macchina-cinema.
Proprio a proposito di ciò, bisogna appunto ricordare il secondo aspetto, quello più strettamente cinematografico, all'interno del quale i Coen si muovono con Fargo: il loro film è, ancora una volta ma ancor più potentemente rispetto al passato, un esercizio teorico di scrittura e messa in scena del grottesco. Ogni sequenza è voluta, ogni minuto di fotogramma è fortemente pensato in una serie di circostanze che "causano" (è proprio il caso di dirlo) la situazione successiva.

biglebowskimonoIl passo successivo nella carriera dei due "ragazzi" di Minneapolis segna il raggiungimento dell'apice creativo su un percorso stilistico e poetico che ha pochi eguali nel cinema contemporaneo quanto a coerenza. Il grande Lebowski assurge in poco tempo a film di culto assoluto, grazie soprattutto a una carrellata di personaggi indimenticabili, di dialoghi fulminanti, di trovate sensazionali. La pellicola esce in un clima di semi-indifferenza, snobbata dal grande pubblico e inizialmente considerata "opera minore" nella filmografia coeniana. Una sorta di vacanza, dicono alcuni. In Italia esce nei cinema addirittura a stagione quasi terminata.
È successivamente, però, che con il passaparola generale e la rivalutazione da parte di una certa critica più attenta alle reali intenzioni degli autori, che il film che racconta le vicissitudini incredibili del Drugo e dei suoi amici viene nuovamente rivisitato e salutato, con un minimo ritardo, come la pellicola che in realtà è: una commedia miliare, un compendio totale del cinema dei Coen, un capolavoro del cinema americano targato anni 90.
La disillusione e lo sguardo sornione dei due cineasti sulle vicende del loro Paese si trasforma nell'opposta possibile realizzazione rispetto al loro capolavoro precedente. Dalla tragedia glaciale macchiata di sangue si passa alla farsa, al tocco demenziale di una "non avventura", dove pare succedere di tutto, ma in realtà non accade niente. Il tutto per prendere le parti, ancora una volta, di chi pare abbia capito tutto della modernità: il Drugo non sta né dalla parte dei rivoluzionari, di quelli che volevano cambiare il mondo e invece hanno perso (glielo urla anche il suo omonimo Lebowski in un mirabile scambio di battute), né tantomeno si schiera con i finti filantropi, i miliardari da quattro soldi di un'America che si cura delle apparenza per sfuggire all'ipocrisia.
Così, mentre gli Stati Uniti vivono in televisione la loro più grande tragedia moderna, quella guerra del Golfo di cui non si capisce bene l'esito o l'andamento, il protagonista di questa storia che distrugge il concetto di noir, ammantandolo di tic comici, si muove in vestaglia e bermuda, tra uno spinello e una partita a bowling, dispensando pillole di calma saggezza mentre gli abitanti di un mondo furente, intorno a lui, cercano un posto al sole per giustificare la propria esistenza.
E come al solito nella filmografia dei due registi, Il grande Lebowski non è solo una straordinaria commedia, ma è anche un nuovo limpido esempio di scrittura cinematografica, dove ogni battuta, ogni dialogo e ogni inquadratura assumono un profondo significato. Ma i Coen sono così: non hanno bisogno di ostentare la loro intelligenza, non hanno bisogno di inscenare un dramma sul crollo di alcuni miti generazionali. Trovano più divertente raccontare le medesime tematiche con l'ironia di chi non sente minimamente la necessità di essere preso sul serio.

Alle porte del nuovo millennio, i fratelli Coen cercano qualcosa di nuovo. Non crediamo sia necessariamente il sintomo di una stanchezza verso una poetica che si ripete, in forme eterogenee, ma pur sempre si ripete. Pensiamo piuttosto che ci sia il desiderio di rientrare nell'universo cinematografico dove essi stessi abitano. Dopo un decennio passato a distruggere, con ironia e sarcasmo, i luoghi comuni dell'America media, i cineasti di Minneapolis decidono di spostare la loro attenzione verso la stessa industria che li ospita.
E lo fanno con un film del tutto inaspettato, Fratello, dove sei?, con cui omaggiano un secolo di cinema, a partire dal glorioso Preston Sturges con il suo I dimenticati. Partendo da un titolo che riprende la trama del dramma sturgesiano del 1941 e ispirandosi a una sorta di nuova Odissea, le fonti d'ispirazione per i registi sono solo l'espediente di partenza per un ritratto citazionista di un mondo "nuovo": siamo negli Stati nel Sud, all'epoca della Grande crisi, sentiamo musica blues e folk per tutto il film, vediamo all'opera il Ku Klux Klan, persino i colori della pellicola sono "plasmati" dal fedele direttore della fotografia Roger Deakins per rendere le immagini più calde. Tutto, insomma, nella storia dei tre galeotti che fuggono dal carcere per rincorrere un malloppo di denaro nascosto, è funzionale a un'opera di puro omaggio, a una realtà, un'epoca, uno stile musicale (per alcuni, Fratello, dove sei? è considerabile addirittura un musical), oltre che uno stile purissimo di fare commedia che, per una volta, usa l'arma solita del grottesco non per demolire gli stereotipi di una comunità ma per innalzarli ad elementi frutto di nostalgia.
Episodio minore della filmografia coeniana o meno, la pellicola del 2000 conferma alcune certezze maturate negli anni precedenti sul modus operandi dei due autori. Il virtuosismo tecnico e narrativo, anche quando non fa i conti con gli stilemi più consolidati della loro formazione artistica, è incomparabile a qualsiasi altra qualità da ritrovare nella miglior Hollywood. E, soprattutto, colpisce la riconoscibilità della loro cifra stilistica, il timbro delle loro battute. Persino da un primo piano di una new entry fra gli attori-cardine del loro universo parallelo, quel George Clooney che in seguito lavorerà con i Coen in altre due occasioni, si rivede l'impronta surreale e sorniona del loro modo di intendere la Settima arte.
In fondo, è così che andrebbe considerato Fratello, dove sei?: una grande e roboante commedia umana dove il nulla, la normalità dell'uomo medio americano viene innalzata a straordinarietà. Dopo tutto, è anche questa una scelta poetica profondamente coraggiosa.

uomochenonceramonoUn anno dopo, tutto si compie alla perfezione. La prima parte di carriera, con tutto l'ammanto di riflessioni morali e cinematografiche che si portava dietro, incontra un gusto più adulto e giocoso di scherzare con il mezzo stesso attraverso un sistema intricato di rimandi e di citazioni: ne esce fuori un capolavoro senza tempo, un film di una classe innata, un colpo al cuore per i critici costretti a inchinarsi a una genialità nella messa in scena che non ha eguali fra gli autori contemporanei.
L'uomo che non c'era
, scritto, è proprio il caso di dirlo, con la raffinatezza di un romanzo di Raymond Chandler, è proprio all'universo del noir che fa riferimento: nella gestione dei tempi narrativi come nella scelta mirabile di luci e ombre nel bianco e nero di Roger Deakins. Rifacendo il verso alle pellicole di Fritz Lang e Billy Wilder, e ambientando la storia proprio negli anni 40, i fratelli Coen realizzano una parabola indimenticabile sulla tragicità della condizione umana. O, meglio, di quella condizione che affligge l'uomo mediocre, il perdente, l'invisibile, colui che è condannato a un'esistenza vissuta alle spalle dei veri protagonisti.
È questo e nient'altro Ed Crane, il barbiere californiano interpretato con bravura e dedizione straordinaria dal mai abbastanza lodato Billy Bob Thornton. Crane è alla ricerca del riscatto, dell'occasione giusta per concedere a se stesso, in uno slancio di egoismo, un momento di gloria, finalizzato, manco a dirlo, a un unico obiettivo: il denaro. Già, perché i Coen non si fanno illusioni: nel loro mondo, anche gli ultimi aspirano solo alla ricchezza come moneta di scambio per rivendicare la loro appartenenza al mondo dei vivi.
E anche per gli ultimi, come per i primi, l'esito è sempre lo stesso: il caso, il gesto imprevedibile dell'essere umano capace in ogni istante di commettere un errore, è sempre dietro l'angolo. Non c'è piano che tenga, ambizione degna di essere premiata. L'evento inaspettato distrugge tutto, porta la quotidianità a scontrarsi con l'eccezionale. Ed è così che il dramma prima si trasforma in tragedia e subito dopo in farsa, data la sua assurdità di fondo.
I registi americani compiono l'estremo passo nella sublimazione della loro concezione del mondo: commedia nera e dramma intenso quasi si confondono nel loro film. Quasi come una maturazione ulteriore, L'uomo che non c'era dice questo, a differenza del passato: si può scegliere un registro narrativo serio oppure uno più ironico, ma la fine per i personaggi è la stessa: dominata dal fato e dall'avidità.

È successo a Hollywood


In un'avventura "dinamica" e imprevedibile come quella coeniana, tutte le novità possono affascinare. Così, ronzando al confine dell'industria propriamente detta del cinema hollywoodiano per parecchi anni, i due fratelli decidono che è il momento, in occasione del loro decimo lungometraggio, di catapultarcisi dentro con entrambi i piedi.
Il risultato è Prima ti sposo, poi ti rovino, scellerata traduzione italiana del più appropriato titolo originale Intolerable Cruelty. La commedia sui divorzi multimilionari californiani, sulle mangiatrici di uomini e sugli avvocati divorzisti specialisti nel truffare i loro stessi clienti è lo spunto giusto per permettere ai Coen di cambiare posizione alla loro personale trincea. Se prima producevano, scrivevano e realizzavano i film "in casa", facendo tutto da soli ed eventualmente ottenendo i favori della distribuzione in un secondo momento, stavolta i due decidono di lavorare a stretto contatto con i responsabili delle major statunitensi. Suona un po' "telefonato", infatti, il loro tentativo di fustigare con il loro ineguagliabile senso dell'umorismo e del grottesco gli usi e i costumi di un'alta borghesia annoiata e immorale.
Ma forse, come spiegarono in una trasferta veneziana per presentare in anteprima il film, il fare un "patto con il diavolo" era l'unico stratagemma per poter davvero conoscere e distruggere con il loro solito stile un ambiente a loro, che vengono dalla provincia, fino a quel momento abbastanza ignoto. Forse spinti dal loro nuovo amico Clooney, qui alla sua seconda collaborazione con i fratelli, i Coen scrivono la loro commedia a otto mani, con l'aiuto inaspettato di altri due sceneggiatori, Robert Ramsey e Matthew Stone.
E se anche resta inconfondibile e incontaminato il loro spirito mai domo, il loro gusto per l'utilizzo ludico della macchina da presa, capace di scatenare risate non solo per ciò che riprende in scena ma anche soltanto per i suoi stessi movimenti iper-virtuosi, serpeggia nell'aria una sensazione nuova e inaspettata: quella di un lavoro "alimentare", accettato da un proponente più che presentato a qualche "finanziatore". Ciò che "salva" pienamente un film altrimenti minore è sempre la classe innata di due autori che non rinunciano mai a condire di ricercatezza anche il più futile dei divertissement.

ladykillers_monoNella parentesi coeniana dedicata alla commedia, che rallenterà il sopraggiungere della fase adulta, Ladykillers rappresenta l'esito più discusso, ma, nel contempo, il più giocoso. Almeno per i Coen brothers che, partendo dal remake del classico del 1955, "La signora omicidi", firmato da Mackendrick, lo infarciranno dello stile che conosciamo: dalla stravaganza di personaggi e situazioni, al tipico humour graffiante e irriverente, dal citazionismo colto, allo studio della colonna sonora, in questo caso gospel. Pur non raggiungendo le vette del passato (e future), la cifra stilistica dei due registi, che fa di questo film un'opera di sana gigioneria e implacabile fatalismo, è ben visibile, anche se immersa nelle tinte pastello del sud della provincia americana, anziché nelle desertiche lande ghiacciate di Fargo. La banda dei cinque ladri di Ladykillers con a capo il dandy-intellettuale-che-cita-Poe, interpretato da Tom Hanks, va ad aggiungersi alla coppia di farabutti sui generis di Fargo e al trio di galeotti di Fratello, dove sei?, nella ideale galleria di personaggi-delinquenti di volta in volta dipinti dai Coen e sempre travolti dalla ciclicità di un destino infausto (la struttura stessa di Ladykillers, infatti, è circolare).
La colonna sonora si esplica come un vero e proprio excursus all'interno della tradizione americana. Se in Fratello, dove sei? era il blues e il country anni 30 a immergerci in una trasognata atmosfera senza tempo, questa volta è la tradizione gospel ad essere ripescata, e non solo nelle forme originarie dei cori spirituals. Nel film, infatti, possiamo ascoltare anche la sua evoluzione moderna: l'hip-hop, che contribuirà a fare di questa colonna sonora, con la sua eterogeneità, un viaggio nella storia della musica nera. In entrambe le parentesi dedicate alla commedia - Prima ti sposo, poi ti rovino, Ladykillers - e in linea con la programmaticità dei due registi, l'approccio al genere non è che il punto di partenza funzionale a mettere in scena il loro grottesco e iperrealistico mondo parallelo attraverso la trasfigurazione delle forme del cinema classico.

I principi del Caos

noneunpaesepervecchimonoAccantonato il capitolo dark comedy, i Coen tornano a fare sul serio. Sì, perché con Non è un paese per vecchi ci troveremo di fronte a qualcosa di nuovo e unico. Anche se le influenze letterarie sono ben visibili altrove, per la prima volta i due registi trarranno diretta ispirazione dal libro omonimo di Cormac McCarthy per mettere in scena un film che decostruirà gli stilemi da loro adottati fino ad ora. Non è un paese per vecchi accantona i virtuosismi del passato (le carrellate di Arizona Junior, i ralenti de L'uomo che non c'era) e la concettualità di uno stile asciutto e calibrato si fa pregnante. Tutto è ridotto all'essenziale, anche i dialoghi, di cui conoscevamo la verbosità fluviale e pungente, subiranno una contrazione. La stessa colonna sonora che altrove è stata così preponderante da farsi protagonista, qui scompare del tutto. I due registi si inseriscono all'interno di una copiosa tradizione cinematografica (pensiamo ad Altman) che ci ha raccontato la (de)mitizzazione dell'American dream. Raccolgono e intersecano sinergie western - calandole nel Texas contemporaneo - e noir (onnipresente): su queste fondamenta cristallizzeranno la disillusione post-moderna alla luce del fallimento di ogni flebile utopia passata. I protagonisti di quest'ultimo lavoro rispecchiano a pieno i topoi del mondo coeniano: L. Moss (come Ed Crane, etc) è un uomo qualunque dall'esistenza mediocre e ordinaria, cui un evento straordinario farà credere di poter cambiare la sua vita, di fare il grande salto in alto nella gerarchia sociale. Ma non sarà così. Non è mai così nel mondo de-valorizzato di questi autori bifronte. La mediocrità è condannata a un soffocante immobilismo, la violenza è insita e ha contaminato fino all'ultimo residuo di innocenza e purezza, il nichilismo affonda la sua scure con sottile sicumera.
Non si deve pensare, però, che sia un mondo soccombente a un integralismo pessimista che tutto inghiotte. In qualsiasi modo sia stato messo in scena - che sia il noir de L'uomo che non c'era o il macabro Fargo - un placido barlume di speranza ha sempre attraversato la filmografia dei due fratelli, in questo caso presente nella forma di una fiaccola di luce nel sogno dello sceriffo. L'accettazione della realtà non dequalifica quell'anelito connaturato all'uomo e che rimane l'unico scoglio cui aggrapparsi per non affogare: la speranza, nelle cose o nell'oltre.

Nel 2008 i Coen aggiungono un nuovo tassello alla loro incursione nella commedia con un film che attinge alle spy story per rappresentare il lato tragicomico della vacuità e superficialità dell'oggi. Divertissiment allo stato puro, ma non solo. Perché Burn After Reading è una commedia compiuta, una di quelle che - finito il sorriso - ti fanno riflettere mettendoti davanti una realtà iperbolica, ma vicina. La forza di questo nuovo lavoro risiede tutta nei suoi personaggi: Brad Pitt, George Clooney, John Malkovich, Frances Mc Dormand e Tilda Swinton si amalgamano perfettamente e la caratterizzazione macchiettistica che regalano è la forza trainante del film. I cinque sono degli idioti à-la Coen: Osborne Cox è un analista della Cia fresco di licenziamento che si dedica all'alcol e alla scrittura delle sue memorie; sua moglie lo tradisce con Harry Pfarrer (George Clooney), a sua volta sposato e fitness-dipendente. Linda Litzk (Frances McDormand), impiegata presso una palestra, sogna la chirurgia estetica e cerca cuori solitari su internet, con il suo collega Chad Feldheimer (Brad Pitt) cercheranno di fare fortuna sfruttando il ritrovamento di un dischetto su cui sono registrate le memorie di Osborne Cox.
"Nulla di buono può venire da fuori" dirà Brad Pitt, ed effettivamente le cose non potranno che involvere nel peggiore dei modi. Nell'universo fatalistico drappeggiato nel corso di una ormai lunga filmografia, il duo di Minneapolis non concede salvezza alcuna a chi, annaspando passivamente nella mediocrità, cerca scorciatoie liberatorie. Solo ai personaggi positivi - di solito dalle sembianze femminee -  che preservano quei valori etici che sembrano scomparsi, è riservata la tranquillità (pensiamo alla poliziotta di Fargo o Marva di Ladykillers). In Burn After Reading, però, l'elemento positivo scompare e anche la tutta-d'un-pezzo Cia viene smascherata nella sua infinita stupidità.

aseriousmanmonoAcquisita - e riconosciuta - la maturità artistica, i Coen sono pronti ad affrontare cinematograficamente la loro componente yiddish e lo fanno con una commedia acre che è un omaggio a quella cultura di cui sono infarciti. La materia su cui affondare il proprio ghigno cinico è quella usuale: un professore di fisica ebreo verrà travolto da una spirale di eventi sempre più sfortunati. Per la prima volta, però, il duo metterà a nudo la precarietà/finitudine dei precetti religiosi, portando all'estreme conseguenze la loro disanima esistenzialista. Ispirato al libro di Giobbe, A Serious Man (de-)sacralizza la portata dogmatica della religione: non ci sono risposte alle domande dell'uomo e la ricerca non è che un greve girare a vuoto, proprio come il protagonista, che pur affidandosi a ben tre rabbini, non riuscirà a trovare il filo di Arianna del caos. In una scena del film il protagonista scrive alla lavagna il principio di indeterminazione di Heisenberg (citato anche ne L'uomo che non c'era), che potremo considerare come la chiave di volta del cinema coeniano. Un cinema che muove dall'assunto che la realtà è nonsense, in cui l'uomo del nostro tempo - prodotto sacrificale del relativismo - incede spasmodico alla ricerca del proprio senso, nell'infinità del senso possibile. Se da una parte i Coen rispondono alle regole del cinema, rivisitando generi classici, dall'altra annichiliscono la portata di qualsiasi messaggio: non c'è messaggio da elargire né realtà da spiegare, se non come fenomenologia del caos. Per questo, i film dei due registi si esplicano non come forma privata del contenuto, ma come forma che imbelletta l'assenza di contenuto tipica della cultura del post.

Dopo le suggestioni del passato, finalmente, i Coen si cimentano vis-a-vis con il western, proponendo un remake del classico omonimo del 1969, che valse a John Wayne la sua unica statuetta d'oro. Una ragazzina coraggiosa parte in groppa a un cavallo decisa a vendicare la morte del padre. Gli ingredienti tipici del genere ci sono tutti e i Coen li rispecchieranno pedissequamente (paesaggi sconfinati, lunghe cavalcate e sparatorie si susseguono tra le dissolvenze), facendo sì che Il Grinta si configuri nella doppia accezione di omaggio iconoclasta e superamento moderno. Se da un lato, infatti, celebrano il cinema delle origini, dall'altra lo sottopongono a un'autopsia di ridefinizione. L'epica polverosa delle terre selvagge, le ragioni della vendetta e della giustizia privata si coniugano all'ironia e alla vivida violenza. Un successo in patria (250 milioni di incasso in America) che dimostra come l'anacronistico western possa calarsi nel presente. Il rapporto giustizia/vendetta e il divenire inesorabile del tempo sono i temi che striscianti si insinuano tra le distese invernali del nord dell'Arkansas per deflagrare nel finale. Il Jeff Bridges/Cogburn non è poi così lontano - nonostante i dodici anni di scarto - dal Jeff Bridges/Drugo: apatico e abbandonato a se stesso. D'altro canto i Coen si celeranno nelle soggettive su Mattie Ross e su quel profilo fanciullesco così estraneo alla realtà che attraversa con tanta ostinazione. Il percorso di questa piccola donna fra violenza e morte si concluderà davanti a una tomba, come era cominciato. Attraverserà il vuoto, ma non ne sarà vinta. Non ci sono solo perdenti nel mondo coeniano, al contrario di quello che si pensa.

A proposito di Davis (2014)
Llewyn Davis si sta esibendo in "Hang Me, Oh Hang Me" al Gaslight Café quando le immagini iniziano a fluire sorrette dalla voce in presa diretta di Oscar Isaac. Intorno c'è New York, lievemente desaturata, autunnale quanto basta a rievocare un mood (influirà questa copertina) e a introdurci nel Greenwich Village del 1961. L'importanza che l'ambientazione assume, grazie alla cura della fotografia - splendido di Bruno Delbonnel che non fa rimpiangere l'abituè Roger Deakins - va oltre l'estetica e il suo crepuscolarismo si fa concettuale, se messo in relazione agli anni, agli sgoccioli dei Cinquanta, in o lavorcui il vivaio folk aspettava la rivoluzione dylaniana per crescere, e il Village era, semmai, crocevia di belle speranze cresciute in periferia, di giovani che dividevano bettole asfissianti e si ritrovavano, chitarra alla mano, a rinverdire un codice per pochi eletti.
Le sequenze finali si ricongiungono con l'incipit e il film rivela nella geometria formale una struttura circolare che si avvale di lunghi flashback per introdursi tra le miserie di una vita da outsider. Una circolarità ancor più lesiva se imbevuta di feroce poetica autoriale coeniana: a suonare è Bob Dylan, la sua "Farewell", mentre sul retro il protagonista è aggredito da un uomo. E messo in ginocchio dalla sua stessa sconfitta.

A questo punto, dopo una lunga filmografia, che va dalla trasfigurazione alla dissacrazione della realtà, ci si potrà chiedere: che cosa resta? Quello che resta nel mondo dei Coen è la bellezza, unico appiglio per chi, venendo a patti con il Caos, ne accetta l'ineluttabilità, conservando un'indole vitalistica. Bellezza è in Mattie Ross, bellezza è nelle forme del Cinema in cui i Coen imbrigliano la realtà sghemba e vuota di ogni giorno.

NOTA.
La prima parte della monografia (da "Blood Simple" a "Mister Hula Hoop") è a cura di Giuseppe Gangi.
La seconda parte (da "Fargo" a "Prima ti sposo, poi ti rovino") è a cura di Giancarlo Usai.
La terza parte (da "Ladykillers" a "Il Grinta") è a cura di Francesca D'Ettorre.
I voti espressi nella filmografia sono il frutto di una "media" tra i tre redattori autori del pezzo.





Joel & Ethan Coen