Ondacinema

Figura di culto del cinema europeo, seppur destinato a rimanerne ai margini, Bela Tarr ha affrontato le miserie umane con radicale nichilismo e un'estetica rigorosa. Gettando uno sguardo tanto profondo quanto oggettivamente provante su una realtà immota e immutabile, se non per il suo lento e inevitabile dissolversi

 
Per riuscire ad accettare il modo in cui la grande arte vede il mondo nella sua interezza dobbiamo rinunciare a quella parte della nostra limitata esperienza di vita, con la quale un tale approccio non coincide [...] Gli artisti minori, i quali dicono ben poco del mondo, pensano in piccolo e sono quindi più fedeli alla diversità inerente a ogni cosa. I grandi artisti, invece, impongono la loro volontà e visione del mondo intero. Ma è proprio questa arroganza che aiuta il destinatario a scoprire in ogni cosa ciò che un osservatore - bloccato nella diversità e nella quotidianità - non può vedere
.
(András Bálint Kovács)

 

belatarrmonoNonostante la sua importanza venga sempre più riconosciuta e premiata, Béla Tarr è destinato a rimanere eternamente ai margini della storia ufficiale del cinema e della fruizione filmica. Ciò è inevitabile, in quanto autore di opere tanto profonde quanto oggettivamente provanti, difficili da guardare come sarebbe difficile, per chi vive nella (della) frenesia del mondo postmoderno, contemplare una realtà immota e immutabile, se non per il suo lento disgregarsi, dissolversi.
È anche grazie al lavoro appassionato e puntuale del critico András Bálint Kovács che oggi è possibile affrontare in modo completo l'opera di Tarr: nella sua approfondita analisi egli individua una cesura piuttosto chiara nella produzione del regista, che dalla fine degli anni '80 avrebbe avviato un processo di progressiva cristallizzazione stilistica, entro la quale determinati elementi si accentuano e si radicalizzano, convergendo nella rappresentazione di un mondo all'ultimo stadio del suo declino morale. Come vedremo, infatti, questo secondo periodo non ha nulla di strettamente riconducibile alla patria di Tarr, non vi è anzi il benché minimo riferimento geografico: viene semmai descritto il generico aftermath di un periodo politicamente disastroso, che l'autore ha deciso soltanto di sfiorare nelle sue prime indagini umane. Egli si è però dichiarato contrario alla periodizzazione postulata da Kovács: il regista ritiene che tutti gli elementi tipici della sua maturità artistica fossero già presenti agli esordi, e che il suo sia stato essenzialmente un lento progredire stilistico, anziché tematico. L'Ungheria sovietica prima e la sua controparte astratta poi sono entrambe le pregnanti metafore di un'umanità abbandonata a se stessa: preda delle proprie meschinità, essa va lentamente incontro alla disumanizzazione, come una marcia di corpi vagabondi senz'anima, quantomai prossimi a una fine tragica e silenziosa - da ultimo del tutto muta.

Nato nel 1955 a Pécs, nell'Ungheria del sud, Tarr incomincia la propria ricerca giovanissimo e in pieno stile cinéphile: a 16 anni fonda un gruppo di aspiranti cineasti intitolato a Dziga Vertov, il primo passo verso quella che verrà chiamata "la scuola di Budapest"; un gruppo di registi interessati agli stessi temi e tecniche cinematografiche, taluni più orientati verso l'avanguardia, talaltri alla forma documentaria. Avverso a quest'ultima per il fatto che non lascia abbastanza libertà all'autore, Tarr si situa nel mezzo delle due tendenze, sviluppando una tecnica narrativa singolare e di grande impatto emotivo, ma anche dotata di una forte coscienza autoriale nonostante lo stile acerbo e low-budget.
Principalmente interessato a temi di natura sociale e politica, negli anni della scuola superiore Tarr segue un gruppo di sinistra radicale in visita a quartieri e ostelli dei lavoratori. Con la sua macchina a spalla farà le prime riprese nell'ambito di alcune incursioni nelle fabbriche situate nei dintorni di Budapest. È qui che conoscerà di persona Irén, operaia con una vita travagliata alle spalle, emblematica del periodo storico di cui fa parte. Tarr diventa suo amico, la conosce a fondo e la segue da vicino, traendo ispirazione e coinvolgendola in prima persona in quello che diventerà il suo primo lungometraggio.

nidofamiliaretarrQuesta è una storia vera. Non è accaduta agli attori del nostro film, ma sarebbe potuta accadere anche a loro.
L'inciso che apre Nido familiare (1977), esordio registico di Tarr, riesce a condensare in poche parole il processo che sottende la realizzazione di ogni suo film sino a Rapporti prefabbricati: gli attori coinvolti non hanno studiato recitazione, sono persone qualunque alle quali viene chiesto di ricreare, una prova dopo l'altra, vicende a loro vicine, perfettamente plausibili negli spazi della loro quotidianità. Irén e suo marito Laci vivono presso i di lui genitori: il padre scatena una lite dopo l'altra, preme affinché i due si trovino un alloggio per conto loro; la situazione si fa insostenibile, per poi degenerare, quando il suddetto accusa la nuora di educare male la propria figlia, nonché di aver tradito il marito quando era in servizio militare. Irén abbandona l'abitazione e si rifugia in uno dei tanti locali abbandonati che le istituzioni non si sono curati di ristrutturare; così i coniugi si ritrovano forzatamente separati, in attesa di giungere a una soluzione migliore.
I primi protagonisti del cinema di Tarr tentano disperatamente di sfuggire alla loro condizione, si parlano addosso furiosamente e non si risolvono ad agire. Essi mettono in mostra quelli che il regista già considera come gli elementi basilari delle dinamiche sociali: l'egoismo di un pater familias che vuole imporre la propria volontà sugli altri, ma che si rivelerà anch'egli doppiogiochista, pronto a lasciare moglie e figli per un'altra donna; l'irresponsabilità del secondo figlio, che non ritiene suo l'impegno di metter su famiglia con la donna che ha messo incinta; la meschinità del marito complice, poco dopo il suo rientro, dell'abuso ai danni di una zingara - il cui volto inorridito viene seguito dalla macchina da presa in una inaspettata scena di crudo realismo. La pellicola si conclude con uno sguardo più compassionevole rivolto ai due coniugi che, a mo' di confessione, danno individualmente sfogo ai propri interrogativi, abbandonandosi infine a un pianto che ne manifesta l'umana debolezza. Il confine tra la finzione e il cinéma-vérité si fa più che mai labile: il silenzioso ascoltatore è la cinepresa e dunque noi, confidenti transitivi di due solitudini strazianti.
È quella che oggi chiameremmo docufiction, parziale eredità del neorealismo italiano benché al netto di qualsiasi intento melodrammatico - una narrazione tutt'altro che romanzata, quasi esente da musiche extradiegetiche (che a onor del vero, ove presenti, finiscono per risultare posticce). Le riprese hanno il solo scopo di accentuare le frizioni tra gli interlocutori, i cui volti vengono indagati senza compassione, ma piuttosto con interesse quasi scientifico per le dinamiche che vi intercorrono. Come sottolinea Kovács, Tarr aveva ben poco interesse nella totale aderenza alla realtà propria del genere documentario, quanto nella ricerca della "fonte spirituale del dramma universale nelle figure assolutamente banali, determinate dal loro ambiente". D'altro canto, l'atmosfera oppressiva che viene a crearsi in questi contesti - e che finisce per innescare le reazioni più incontrollate - trae spunto da quello che all'epoca era un reale disagio economico e sociale: lo Stato non è in grado di gestire l'affidamento delle abitazioni popolari, e chi richiede una sistemazione migliore per la propria famiglia viene deluso da una politica cieca e insensata.

Avvengono così i primi, durissimi confronti con i familiari e con il socialismo, indiretta causa di tante analoghe crisi. Così anche il primo cortometraggio ufficiale di Tarr, Hotel Magnezit (1978) contiene in nuce tutti gli elementi che caratterizzano la prima parte della sua attività registica: la scena è lo spoglio "ring" dove avviene lo scontro tra personaggi che, non riuscendo a stabilire un vero dialogo, inveiscono l'uno sull'altro cercando inutilmente di imporre le proprie ragioni. In un ostello di lavoratori l'anziano Szepesi, ex-aviatore nella Seconda Guerra Mondiale, viene cacciato con l'accusa di aver commesso un furto: in realtà il crimine fu collettivo, ma uno degli ospiti pare abbia fatto la spia sul pover'uomo, costretto a lasciare tutto e vivere in strada. Il faccia a faccia dura appena dieci minuti, impostati su rapidi controcampi e primissimi piani degli interpreti, attori non professionisti in un frammento di vita tragicamente possibile.
Dal punto di vista tematico, dunque, Hotel Magnezit potrebbe essere l'atto immediatamente precedente le miserie umane di Nido familiare: l'ira e la disperazione di Szepesi sono il grido di Béla Tarr in rappresentanza della bassa società senza una voce, degli emarginati che non possono più sperare in una vita dignitosa: "Non rubano forse i re e gli imperatori, solo un ex-ufficiale?". Il tradimento e una spietata legge del più forte - o meglio, del meno debole - saranno i leitmotiv di un'intera carriera, lungo la quale Tarr ci rivelerà che essi sono alla base di tutte le relazioni sociali e la causa del loro inevitabile disgregarsi. "Dietro alle cose anche più grandi si trovano sempre le motivazioni più volgari, come interesse, sesso, desiderio di potere, soldi e così via. Io mi sono sempre interessato alle motivazioni, è una costante riconoscibile nel mio cinema."


the_outsidertarrNel 1979 Nido familiare vince il gran premio al Mannheim-Heidelberg International Film Festival: è questo primo e inatteso riconoscimento che permette a Béla Tarr di entrare in una vera scuola di cinema per imparare la professione del regista. Nonostante questa opportunità, egli decide però di dedicare maggiore attenzione alla realizzazione del suo secondo film, L'outsider (1980). Si tratta forse del suo lungometraggio meno noto, ed è il primo (di due, se escludiamo il Macbeth televisivo) realizzato a colori: ciò, va detto, non fu per una scelta stilistica precisa, bensì per ottenere credito agli occhi della critica e non essere più considerato un regista amatoriale; di fatto Tarr, con la stessa tecnica dell'esordio, torna a parlare in vece degli emarginati, e il nuovo protagonista lo è nella maniera più assoluta.
Di giorno András lavora in un istituto di igiene mentale - dove, se vogliamo, vivono gli outsider per eccellenza - e la sera suona il violino in uno squallido pub di ubriaconi; lo stesso András viene licenziato per volere dei suoi colleghi infermieri con l'accusa di aver bevuto in presenza dei pazienti. Dopo aver trovato un impiego in fabbrica, per sfuggire al mantenimento di un bambino indesiderato sposerà una donna che non ama, senza per questo risolversi a stabilizzare la propria posizione, continuando a vivacchiare e fare progetti a breve termine. Nemmeno il ritorno in città di suo fratello, dopo tre anni di assenza, sembra toccarlo nel vivo.
Banalmente, András non trova il suo posto nel mondo: i soldi che vuole guadagnare sono destinati ad alimentare i propri vizi, non conducono certo a un progetto familiare maturo; ma il dramma è che chi lo circonda pare avere la stessa patologia sociale, una condanna a ripetere le stesse chiacchiere insensate che non vanno da nessuna parte. Ogni lamentela, come ogni altra discussione apparentemente costruttiva - l'invettiva dell'operaio che ignora il reale funzionamento delle macchine in fabbrica - finiscono per somigliare a una cantilena senza fine, un mantra della vuotezza. "La vita è bella", dice un amico di András dopo aver inghiottito l'ennesimo bicchiere, per poi collassare nel mezzo di una pista da ballo.
Al contrario del suo predecessore, L'outsider è del tutto privo di drammatizzazione nel suo svolgersi: è come se ci scorresse davanti una deprimente parata di personaggi non solo disillusi, ma ormai assenti a se stessi; ancor più tragico della collisione verbale è il parlare senza ascoltarsi in un dialogo a senso unico, come con i pazzi che abbiamo incontrato nella scena d'apertura. Non è un caso che lo scontro più acceso tra András e la moglie Kata avvenga in una discoteca, dove le parole vengono soffocate dalla musica martellante, a sottolineare l'evidente incomunicabilità delle parti. Solo la chiamata alle armi di András li spingerà a una resa dei conti forzata, il cui esito ci viene però celato.

Con i suoi primi due film Béla Tarr ha dato prova di uno stile in contrasto con il realismo "politicamente corretto" imperante nel cinema ungherese di allora. Per promuovere il lavoro di registi afferenti a questa nuova corrente, nel 1980 Tarr sarà co-fondatore del Társulás Studió, col quale realizzerà i suoi due film successivi.

prefabpeopleRapporti prefabbricati (1982) reca un titolo inquietante dal punto di vista semantico, che paragona i legami familiari a una struttura edilizia già impostata, soggetta sempre alle stesse "falle" e il cui destino è già scritto da principio. Apparentemente, Robi e Judit sono quelli che ce l'hanno fatta, posseggono una casa loro e vivono modestamente coi due figli: ma il loro rapporto è minacciato dalla stanchezza e dall'incapacità di Robi di prendersi realmente cura dei propri affetti; le rivendicazioni di Judit sembrano riecheggiare quelle di Kata nei confronti di András, e allo stesso modo Robi non sa ascoltare le esigenze che presuppongono la serenità coniugale. Quando gli si presenta l'opportunità di emigrare per raddoppiare il salario, non comprende che nessuno sfizio consumistico vale la necessità di vedere e far crescere i propri figli al fianco di una moglie devota. Forse influenzato dal discorso di un amico, che invitava a fuggire quando non si può più distinguere il cielo dai fumi delle ciminiere, Robi farà le valigie in un tormentato piano-sequenza che si ripete all'inizio e verso la fine della pellicola - la prima traccia di circolarità narrativa nell'opera di Tarr. L'ultima scena ci mostra un futuro prossimo dove i due, di nuovo insieme, procedono all'acquisto di una lavatrice che segnerà l'avvio di un nuovo ciclo di vita, quasi di certo identico al precedente, e perciò ugualmente fallimentare.
Ancora una volta i problematici aspetti sociali finiscono per passare in secondo piano rispetto al focus sulle relazioni tra i personaggi e l'analisi meticolosa delle loro collisioni verbali. Pur avvalendosi per la prima volta di attori professionisti, Tarr ha seguito lo stesso metodo di matrice stanislawskiana utilizzato sino a questo momento, facendoli improvvisare su testi coi quali potessero immedesimarsi completamente. Inoltre, il fatto che i protagonisti fossero marito e moglie anche nella vita reale ha contribuito non tanto al coinvolgimento e alla sinergia nelle discussioni, quanto piuttosto a trasmettere il senso di affaticamento e di inerzia che una coppia va accumulando negli anni che seguono il matrimonio e il concepimento di due figli. Il film otterrà una menzione speciale al Festival di Locarno.

Lungi dal considerarli parte di una presunta trilogia, è evidente che i primi film di Béla Tarr trovino un chiaro filo conduttore nello sguardo rivolto a giovani famiglie messe alla prova da situazioni di vita differenti, relative alle diverse fasi che il rapporto di coppia attraversa, ma prima ancora di tutto sulla loro irrimediabile incompatibilità. In questa fase Tarr concentra tutto sui volti: il close-up cerca continuamente i volti, mentre pochissime inquadrature sono dedicate alla descrizione dei luoghi o a squarci di vita quotidiana - una banda che suona in strada, alcune galline che beccano in mezzo alla spazzatura, l'ispezione delle borse all'uscita dal lavoro. Vi è inoltre un particolare rapporto con la musica: sia L'outsider che Rapporti prefabbricati vengono inframmezzati da scene dove viene suonata musica popolare, nel secondo caso in una sala da ballo a tutti gli effetti; questa musica diegetica tende ad accompagnare momenti di ubriaca malinconia e di "annientamento" di sé, rafforzando il senso di disagio che intercorre tra i personaggi principali. Più avanti sarà il désespoir delle colonne sonore di Mihály Víg a commentare l'impotenza dell'individuo di fronte allo spietato corso degli eventi.
"Io non mi sono mai ritenuto un regista. Pensavo che la mia unica missione fosse cambiare il mondo." Sino a qui il regista ungherese ha saputo distinguersi nella realizzazione di un cinema "militante" in senso non comune e assai più ampio rispetto alla critica sociale: benché la narrazione rimanga ancorata alla realtà dell'Ungheria sovietica, la condizione di tradimento e abbandono subìta da questo popolo è in realtà un sentimento senza limiti geografici, comune ad ogni Paese dove il potere costituito, di qualsiasi orientamento politico, non sa ascoltare i bisogni della propria gente. Tarr fa già i conti con gli aspetti più tetri dell'animo umano, ma a breve approderà a un linguaggio cinematografico universale, in grado di parlare di e per tutti gli esuli del mondo.

Una parentesi isolata e affascinante del percorso artistico di Béla Tarr è l'adattamento per la televisione ungherese di un suo saggio accademico, realizzato in contemporanea a Rapporti prefabbricati. Girato nel tunnel sotterraneo di un vero castello a Budapest, Macbeth (1982) è un flusso narrativo fatto di due soli riprese: un "preludio" di cinque minuti e un ipnotico piano-sequenza di quasi un'ora, dove gli attori - infusi di un'intensità recitativa quasi bergmaniana - e i vari strati del complesso set si avvicendano con una precisione strabiliante. Benché Tarr tenda a considerarlo soltanto un esperimento (e trattandosi di fatto della sua unica incursione nel mondo del teatro) la pièce shakespeariana mette in luce le immense potenzialità del regista, la sua cura del dettaglio e lo studio meticoloso che si cela dietro ogni suo film, all'apparenza semplice e lineare. Solo Aleksandr Sokurov darà una ancor maggiore prova di virtuosismo nel suo "Arca Russa", guidandoci d'un sol fiato nelle sale dell'Ermitage di San Pietroburgo.
Nonostante la relativa unicità formale, l'adattamento di Tarr risulta del tutto coerente con le tematiche di fondo della sua opera e ne conferma la continuità storica attraverso l'ingegno di Shakespeare, sorta di secolare alter ego del maestro ungherese. Ambizione, usurpazione e poi follia: è la rovina di un uomo per mano di se stesso che pone il principe Macbeth nel solco di quell'eterno ritorno che è la tragedia umana e la sua innata vocazione all'annientamento.

almanaccodautunnotarr"Anche se mi guidi questa terra è sconosciuta; probabilmente è il diavolo a guidarci, girando e girando in tondo."
Con questa citazione dalla poesia "I diavoli" di Aleksandr Puškin si apre il secondo film realizzato dal regista con il Társulás Studió, passaggio fondamentale per comprendere la poetica della sua fase artistica matura. Con Almanacco d'autunno (1984) Tarr si affranca drasticamente, e in modo pressoché definitivo, dagli elementi che ancora legavano i primi film al realismo documentario. Un kammerspiel spietato e inesorabile, una vera danza col diavolo nella quale i cinque protagonisti sembrano intrappolati senza via d'uscita, vittime e carnefici dell'egoismo e di un insano desiderio di morte per l'altro. Hédi è la proprietaria dell'appartamento ove si consuma il lento massacro tra anime alla deriva: un figlio iroso e violento, senza volontà né futuro, al quale basterebbe "cominciare" per realizzare una propria vita; un vecchio professore alcolizzato e ormai incapace di rapportarsi con la società, oltre la quale vede solo la catastrofe; due amanti distaccati e infedeli, conviventi per comodità e pronti a cospirare l'uno contro l'altro per il proprio insignificante tornaconto. Ladri, avidi, accidiosi e puttane nello stesso asfissiante girone, un micro-universo claustrofobico di rapporti deviati, nel quale anche gli individui più mansueti si rivelano profittatori di vedute tutt'altro che larghe. Non c'è peccato né colpa, se seguiamo i nostri istinti: così Hédi tenta di giustificare le bassezze morali che orientano le vite degli inquilini; in una catena senza fine si susseguono le aggressioni e gli atti carnali, vuoti di ragione e di sentimento, perlopiù meri strumenti di coercizione - il figlio arriverà a violentare Anna, infermiera di Hédi e compagna di Miklós, approfittando della sua vulnerabilità e persuadendola poi a scappare col denaro dei gioielli di sua madre.
La vicenda è ambientata per la prima volta in un set completamente artificiale, realizzato dall'artista e teorico Gyula Pauer: l'insieme rimanda solo vagamente a un interno medio-borghese, mentre i dettagli dell'arredo e l'illuminazione suggeriscono una teatralità espressionistica, veicolo di contenuti emotivi accentuati da punti di vista inusuali o addirittura "impossibili"; in particolare, a una prima inquadratura dal soffitto del bagno seguirà una scena interamente ripresa da sotto il pavimento, con l'ausilio di un vetro trasparente sul quale János viene schiacciato con violenza da Miklós. Portare ogni aspetto visivo e psicologico alle estreme conseguenze è il mezzo con cui Tarr tenta di inscenare una visione generalizzata del mondo, slegata da qualsiasi contesto geografico e socio-politico. Come nei capolavori di Henri Matisse, lo spazio e i suoi colori divengono simbolici, rivestono i protagonisti di tonalità nette e irreali assieme alle spoglie melodie di Mihály Víg; la cinepresa esplora l'architettura "ideale" dell'appartamento con carrellate lente e descrittive, piani-sequenza di tarkovskijana memoria non più al servizio della narrazione, bensì autonomi nella loro funzione estetizzante. Prima di Kieślowski, prima del testamento kubrickiano, i colori dipingono una realtà portata agli estremi, potenziando gli stati d'animo e plasmando quella che Kovács definisce "pseudo-forma del reale". Una scelta di campo radicale e straniante, riassunta da un tableau vivant al centro della pellicola che mette tutti i personaggi in posa, vicini e distanti al contempo, allegoria delle relazioni corrotte che li legano; sino al finale onirico e massimamente grottesco sulle note di "Que será será", nel testo ungherese ancor più amara e irrisolta, così come le sorti dei cinque individui.
L'unica traccia di realismo rimasta intatta sono i dialoghi improvvisati degli attori professionisti, la trama il semplice pretesto per metterne a nudo i sentimenti più reconditi e terrificanti, tratteggiati anche qui alla maniera essenziale di Ingmar Bergman. Su tutti il volto scavato di Miklós Székely B., protagonista anche del successivo film di Tarr, autentico principio di un percorso cinematografico che farà storia a sé. Quello di Almanacco d'autunno non è infatti che un livello intermedio dal quale, in maniera del tutto opposta, il regista procederà verso un bianco e nero assoluto, una gamma di chiaroscuri che definirà il mondo a venire e la perdizione cui esso va incontro in modo irreparabile.

damnationtarrNel 1985, in un periodo esente da progetti specifici e appesantito dalla più completa disillusione verso la politica nazionale, il primo romanzo di László Krasznahorkai fu per Béla Tarr una assoluta rivelazione. Le potenzialità offerte da quella narrazione al contempo lineare e perfettamente circolare spinsero il regista a concordare con l'autore, nello stesso anno, l'adattamento cinematografico di "Sátántangó"; purtroppo nessuna struttura si dimostrò intenzionata a finanziarne la produzione, primo fra tutti il Társulás Studió, mettendo così a serio rischio la carriera del regista. Egli decise perciò di ripiegare su un altro progetto più contenuto, scrivendo in collaborazione con Krasznahorkai una nuova sceneggiatura e riunendo in seguito vari sponsor che ne supportassero la realizzazione - una scelta obbligata, data la poca fiducia dimostrata dalle istituzioni. È in questo periodo che Tarr, sulla scorta delle conversazioni con l'amico Kovács, si pone l'obiettivo di giungere alla rappresentazione di un mondo artificiale che mantenga però un contatto visivo diretto con la realtà in senso universale, e in questo senso Perdizione (1987) si dimostrerà un mirabile risultato artistico.
Un grigio scenario post-industriale. Una finestra. L'ombra di un uomo di spalle, che guarda attraverso il vetro, in silenzio. La sequenza d'apertura è emblematica di tutta l'opera che ne seguirà, ripresentandosi con ricorrenza anche negli altri film del maestro ungherese. Karrer, uomo senza lavoro né qualità, è stato lasciato dalla sua amante, una giovane cantante presso il bar Titanik. Il proprietario del bar gli offre sottobanco una commissione per la quale ricaverebbe una discreta percentuale; alla prospettiva del guadagno Karrer preferirà proporre l'affare al marito della cantante, sfruttando poi la sua assenza per indurre la cantante ad una riappacificazione. Karrer vede in lei "un mondo indescrivibile", una via di fuga dallo squallore e dall'inerzia che sembrano affliggere tutta l'umanità. Riuniti per pochi giorni da una falsa passione, al rientro del marito l'illusione si infrange: alcool, musica e danze sono gli unici diversivi per sentirsi ancora in vita, torna ad animarsi il Titanik mentre con esso affondano le fragili speranze di questa misera compagine umana. Karrer cederà al desiderio di vendetta, confessando alla polizia il furto del marito della cantante di una parte della merce trafficata; infine, alla stregua dei cani randagi sguazzerà nel fango, abbaiando come per difendersi dal rimorso e dalla vergogna che lo assalgono da ogni parte. Come aveva presagito la guardarobiera del bar, la nebbia ha finito con l'insediarsi nell'anima, e la pioggia continuerà a cadere rovinosamente su questa waste-land irredenta.
Una trama volutamente ridotta ai minimi termini per fare sì che l'attenzione non sia rivolta esclusivamente a quella che è una tra le tante piccole storie di decadenza morale. Perdizione è la contemplazione di uno sfacelo silenzioso e ineluttabile, ma laddove non c'è novità nelle tematiche vi è altresì un'amalgama di elementi visivi del tutto inedita. Il primo cambio di rotta riguarda l'inedito scenario che pervade tutta la pellicola, come testimoniato dalle parole dello stesso Gyula Pauer: "Abbiamo vagato tra tutti i villaggi di minatori e le cittadine del paese. Eravamo alla ricerca di un ambiente industriale che portasse l'impronta chiara e inconfutabile della lenta distruzione e decomposizione. [...] Abbiamo volutamente evitato di mostrare alcun segno della politica e dell'economia reale riguardanti questo ambiente. Abbiamo creato le location in modo tale che esse riflettessero il finale di partita di un'era globale, lo stato dell'ultimo istante prima della scomparsa definitiva. I siti sono reali, ma abbiamo girato il film in luoghi molto diversi". L'ambientazione di Perdizione è dunque una sorta di patchwork emotivo dove la linea di continuità è la più assoluta decadenza, rovine senza tempo solcate da una pioggia sporca e incessante. Il focus sui personaggi va così allentandosi in modo sensibile: se prima ciò avveniva per mezzo di effetti visivi estremizzati - espressionistici, per l'appunto - ora deriva dalla relazione spaziale che i personaggi assumono rispetto all'ambiente non più irrealistico, ma trasfigurato dall'occhio della macchina da presa e dalla prevalenza di campi lunghi e piani-sequenza.

Jacques Rancière individua nel cinema due modi di osservare la realtà: "quello relativo, che strumentalizza il visibile al servizio del concatenarsi delle azioni; e quello assoluto, che dà al visibile il tempo di produrre il proprio effetto". Ed è difatti il tempo l'elemento che segna un fondamentale distacco dai film precedenti: Tarr ne fa la materia prima delle sue inquadrature, attraversando gli spazi lentamente e muovendosi principalmente su ampie profondità di campo o su carrelli orizzontali, che svelano uno ad uno i soggetti e i dettagli della scena, dapprima percepibili solo a livello uditivo. Uno sguardo saldamente ancorato alla terra, di cui il long-take diviene fondamento per la costruzione di un paesaggio, sia fisico che emozionale, quasi sempre indipendente dalle azioni dei personaggi, prigionieri di una insana routine dell'immobilità. Ciò si riflette anche nelle musiche di Mihály Víg, stanche nenie di ispirazione popolare, ripetute in modo dissennato come i minimi gesti dei piccoli esseri umani, inespressivi poiché hanno il destino già scritto tra le pieghe dei loro volti. Tarr li attraversa come fossero dettagli del paesaggio stesso: per questo non ci sono veri protagonisti, ma solo soggetti coinvolti in uno scenario allegorico, una "realtà sospesa", impossibile da identificare con esattezza, sulla quale aleggiano rumori meccanici innaturalmente accentuati e uno sfuggente bordone, come un vento greve e senza sosta.

Per assolutizzare questa visione si è inoltre reso indispensabile il passaggio a dialoghi artificiosi, finanche didascalici, abbandonando l'improvvisazione in favore di un copione soggetto a variazioni minime. Nonostante l'espediente dell'astrazione visiva, infatti, i dialoghi spontanei del film precedente rimandavano ancora alla realtà dell'Ungheria negli anni '80. In Perdizione lo straniamento è reso attraverso una dialettica impostata di radice filosofica, in un contrasto piuttosto stridente con i luoghi e l'atmosfera cui prendono parte. I personaggi parlano di azioni e sentimenti nobili ma non fanno altro che ingannarsi a vicenda, come avverrà in modo ancor più tragico nell'opera seguente, in una sordida spirale di tradimento e usurpazione. Ma qui, in maniera del tutto inedita, si ha l'impressione che le vicende umane passino quasi in secondo piano, sovrastate da un paesaggio capace di inglobarne tutta la corruzione; è come se Tarr volesse mostrarci qualcosa d'altro, forse una sola sensazione, un impalpabile sentimento di abbandono che ci pervada, al di sopra di ogni giudizio morale. Nelle sue parole: "Fondamentalmente, la domanda è come puoi portare la vita nell'immagine indipendentemente dalla narrazione. È attraverso questo film che sono giunto a comprendere che la narrazione non ha alcuna importanza. Sono stato in grado di filmare un muro come lo avrebbe dipinto un pittore. Ciò che mi interessava in una scena era la pioggia che cade, l'attesa che l'avvenimento più banale si verificasse." Non sembrerà strano, dunque, osservare gruppi di uomini ammassati davanti agli ingressi del bar, a guardare un uomo che balla tra le intemperie, da solo e senza musica, o forse a guardare la pioggia stessa, con gli occhi persi nel nulla. I medesimi occhi dei due amanti in seguito all'amplesso, i corpi ritratti come nature morte, sullo sfondo lo stesso scenario colmo di un ancestrale désespoir. "Nulla andrà più bene / Mai più / Mai."

Pur non trattandosi affatto di un mero esercizio formale, bensì di un'esperienza vivida e impattante, Perdizione assurge a manifesto del nuovo corso nel cinema di Tarr, una autentica pietra miliare per il cinema ungherese a venire, definitiva di uno stile con cui tanti registi hanno poi voluto identificarsi, senza mai raggiungere il radicalismo che lo ha reso celebre. Sino ad ora, nonostante i prestigiosi riconoscimenti, Tarr era perlopiù ancora visto dalla critica come un amatore: già con Almanacco d'autunno era peraltro emersa una certa discrepanza tra la notorietà in Ungheria e quella a livello internazionale; con Perdizione essa giunge al culmine, con recensioni denigratorie in patria ma ben due premi - a Cannes e a Bergamo -, una nomination e numerosi inviti da parte di festival di tutto il mondo. L'anno successivo Tarr riceverà una borsa per artisti, trasferendosi per un anno a Berlino Est assieme alla moglie. Verrà inoltre invitato a realizzare un corto - Utolsó hajó, da un racconto di Krasznahorkai - per il progetto "City Life", a cura di svariati registi europei, dove darà ulteriore prova dello sviluppo nella tecnica del piano-sequenza in relazione agli ambienti narrativi. Grazie alla fama acquisita in seguito a Perdizione, al suo rientro in patria Tarr comincerà l'estenuante lavoro che lo porterà alla realizzazione del suo monumentale capolavoro.


satantangocatSatantango
(1994) è la massima espressione a cui sia giunta l'unione di due visioni del mondo speculari: il romanzo di László Krasznahorkai e il susseguente adattamento di Béla Tarr partono necessariamente - e necessariamente vi ritornano - dal pensiero del filosofo che nel Novecento ha scolpito l'epitaffio sulla pietra tombale del genere umano. Così "viene parlato" Zarathustra:
"Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo [...] Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque anche se stesso?"
È dunque nel solco dell'eterno ritorno postulato da Nietzsche che si pone l'opera che segnerà l'apoteosi di una feconda e coerente collaborazione, nonché di un'intera ricerca artistica. Un film-mondo che è già in sé una maratona, una smisurata pellicola che diviene seconda pelle (di qui il nome del supporto) per poi divenire parte dello spettatore, prendendo il sopravvento sulla vita reale - come solo i film di Béla Tarr, in misura maggiore o minore, riescono a fare. Una sfida su tutti i fronti all'impero dei prodotti hollywoodiani e in generale a tutte le forme dominanti della narrazione cinematografica - rapida, superficiale e di facile consumo. Con le sette ore di Satantango Tarr è ormai deciso a imboccare, una volta per tutte, la via degli outsider.
Si potrebbe definire la parabola di un falso profeta deciso a privare l'umanità del poco che le è rimasto, offrendole "distruzione e miseria senza fine, mascherate da redenzione ed elevazione" (Kovács). La pellicola ricalca la struttura circolare e la suddivisione in capitoli del libro, i quali corrispondono in entrambi i casi a lunghe sequenze dal punto di vista dei diversi gruppi di personaggi; perciò, nonostante la necessaria unitarietà dell'opera, gli episodi mantengono un certo grado di autonomia, come racconti paralleli che si intrecciano nello stesso sciagurato destino. I personaggi di Krasznahorkai rappresentano le varie categorie umane e sociali, a formare una comunità che rispecchia il mondo reale in minima scala. Tarr porta sullo schermo i loro gesti e le loro parole in modo piuttosto pedissequo - lasciando sulla carta solo alcuni paragrafi più intimamente esistenziali -, ma lo fa dilatandone i margini temporali, lasciando che ogni azione si evolva in modo naturale, mantenendo spesso uno sguardo statico su una realtà che cambia in modo appena percettibile. Il tempo in Satantango è il tempo della catastrofe: come in un mondo che ha sempre vissuto al rallentatore, limitandosi a "osservare questa vita del cazzo che passa", l'inesorabile disintegrazione morale ci scorre dinnanzi nella sua gravosa lentezza, attraverso i volti inerti degli attori - quasi tutti non professionisti - e le ambientazioni desolate, dai chiaroscuri sempre più contrastati, ormai del tutto distaccate da ogni concretezza storica e geografica. La tela del ragno è la metafora che fa da contrappunto alle trame intessute dagli antieroi di questa miseranda epopea che, nel suo (voler) essere fisicamente provante, ha ottenuto con merito lo status di esperienza visiva autenticamente sui generis.

Sotto un cielo infinitamente plumbeo, l'abbandono della fattoria da parte del suo ultimo bene materiale - una mandria di vacche - è l'evento che prelude alle vicende di una comunità ai confini del mondo civilizzato. Le prime luci dell'alba e un suono distante di campane svegliano Futaki come un oscuro presagio: la notizia dell'imminente ritorno di Irimiás e Petrina, creduti morti da tempo, manderà all'aria il suo piano di fuga assieme a Schmidt e agli ultimi risparmi collettivi; viene così spezzata anche la monotona assenza di direzione nelle vite di questo villaggio, fatte di sguardi indiscreti dietro le tende e di meschini sotterfugi destinati al fallimento. Ed è qui che il diavolo vorrà manifestarsi in due diverse forme, prima delle quali l'alcool, l'oblio etilico che porterà al vano sacrificio della piccola Estike. È proprio lei la vittima del primo inganno, parallelo a quello che subirà la comunità intera per mano di Irimiás: come il gatto e la volpe del Pinocchio collodiano, il fratello maggiore Sanyi la convince a sotterrare i suoi risparmi affinché cresca un albero di monete. Per imitazione dei continui soprusi da parte degli adulti che la circondano, Estike esercita una inconsapevole vendetta sul suo gatto, l'unico col quale può avere uno scontro palesemente ìmpari ed avere la meglio. In una delle sequenze più strazianti che il cinema ricordi, dopo averlo travolto e intrappolato in una rete lo costringerà a bere da una ciotola di latte avvelenato, assistendo - e noi con lei - al suo lento decesso. Svelato l'inganno del fratello, Estike si aggira sperduta nei sentieri che la porteranno alla finestra del pub, dove gli adulti danzano in un'orgia di ubriachezze e promiscuità. Nel mentre, è una donna che ancora una volta invita alla redenzione prima dell'Apocalisse: nel libro la signora Kráner, durante il tango del peccato, "si chiedeva soltanto perché il giudizio era così lento a venire: dov'era il fuoco infernale che li avrebbe sicuramente distrutti tutti? 'Cosa stanno aspettando lassù? Come possono guardare giù, a questo covo ribollente di malvagità uscito fuori da Sodoma e Gomorra eppure non fare nulla?' Poiché era così sicura che il giudizio era imminente, attese con ancor più impazienza per il suo momento di giudizio e assoluzione". Solo Estike nella sua innocenza vede e comprende, e come in trance si dirige verso la propria fine, un viaggio insieme iniziatico ed estremo che la porta lontano da tutto e tutti, nella speranza di una redenzione finale. Con la carcassa del gatto sottobraccio e il pensiero già proiettato nell'aldilà ingerisce una manciata di veleno, si sdraia a terra, si sistema i capelli e distende il vestito. Il narratore entra per noi negli intimi pensieri di Estike, che prima di spirare "sentì che quegli avvenimenti non erano il risultato del caso, ma c'era un indicibile e magnifico significato che li legava". Ancora una volta, il silenzio che accompagna la dipartita è quello di un vuoto cosmico, una voragine ancora invisibile a coloro che ne sono i diretti responsabili.
Sarà Irimiás, il diavolo nella sua seconda veste - quella di predicatore -, a stabilire un contatto diretto con le loro coscienze, incoraggiandoli a ripartire da un evento così atroce e imperdonabile verso una prospettiva di vita tutta nuova. Al vecchio podere di Almás, con l'intero capitale della comunità si può costruire un futuro dove "nessuno sarà senza potere": un'illusione che nel mondo reale ci ricorda la promessa mancata del comunismo, ma che nella figura di Irimiás assume anche evidenti connotati cristologici ("Non sono che il servitore di una causa più grande") e che Tarr ammanta di una abbagliante luce naturale; con la seduzione della parola egli prosciugherà le ultime risorse e speranze della comunità, rimandando la loro prosperità a un domani che non giungerà mai.
Così anche il risuonare di campane non apparirà più come "un invito all'azione, o perlomeno un incoraggiamento, una promessa", ma per quello che è realmente, il delirio di un pazzo o di un impostore, facendoci comprendere che qualunque segno, qualunque presagio avrebbe comunque condotto alla catastrofe. "Il cerchio si chiude", recita il titolo dell'ultimo capitolo del romanzo. Béla Tarr va oltre, sbarrandolo con forza in un'immagine che rimanda direttamente alla scena iniziale del film: a colpi di martello e chiodi, il dottore si estrania dal mondo esterno in un fade-out forzato, la luce della finestra che scompare una trave dopo l'altra; solo ora egli può assumere il ruolo di narratore, ricominciando dalle stesse parole del principio e aprendo un nuovo ciclo nel solco dell'eterno ritorno.

Con tre anni di lavorazione e non pochi ostacoli relativi alla sua distribuzione, Béla Tarr e i suoi collaboratori danno vita a un magnum opus in grado di cambiare (come minimo) la percezione del tempo e della sua relazione con la materia filmica, portando a un livello del tutto nuovo il concetto di tour de force. Non stupisce che nel corso degli anni Satantango sia divenuto un cult per le comunità cinefile di tutto il mondo, anche grazie al passaparola in rete e alla riedizione in dvd dell'intera opera di Tarr. Oggi molte classifiche degli utenti del web non esitano ad annoverarlo tra i più grandi film di sempre, al fianco di titoli decisamente più noti e universalmente conclamati.
Ciò è dovuto all'evidente scardinamento di ogni standard, all'aver portato all'estremo l'utilizzo del tempo come elemento narrativo in sé, senza che ad esso si accompagni un significativo sviluppo della trama. Un'opera definitiva ma non finale: oltre questo confine potrà infatti spingersi solo lo stesso Tarr, a distanza di molti anni, col film che segnerà la necessaria e inconfutabile chiusura del macro-cerchio che è la sua filmografia.

Nello stesso periodo in cui si svolgono le riprese di Satantango, Tarr decide di realizzare un breve documentario sfruttando gli stessi edifici e paesaggi alla luce del sole. Il ritratto che ne emerge è insolitamente pacifico e, una volta tanto, ci fa percepire un lieve e incondizionato affetto verso la propria terra. Come uno spirito onnisciente Mihály Víg ne ripercorre i sentieri, ne abita gli esili caseggiati - muri consunti, porte scardinate, finestre rotte - e li adorna con i versi (recitati a memoria) del poeta locale Sándor Petőfi, talvolta malinconici, talvolta solenni come un giudizio universale. Viaggio nella pianura ungherese sancisce uno splendido, nonché semplice, connubio tra poesia e cinema, mostrando come la quieta desolazione di quei luoghi abbia saputo e sappia ancora ispirare parole e opere di immane intensità e, a loro modo, umanità. Non a caso la dedica è ad una bambina senza nome che si dondola su una rudimentale altalena, simbolo di un'innocenza fugace al pari della piccola vittima del tango di Satana.

werckmeisterimgTratto dalla seconda parte del romanzo "Az ellenállás melankóliája" (The Melancholy of Resistance, 1989) di Krasznahorkai, Le armonie di Werckmeister (2000) viene ultimato a sei anni di distanza dal suo ingombrante predecessore, del quale riprende la struttura narrativa circolare. Ma laddove lo scrittore, come nell'esordio, raccontava la vicenda dai diversi punti di vista dei personaggi, Tarr fa una scelta controcorrente e la incentra quasi esclusivamente sullo sguardo di un singolo individuo, l'ingenuo postino János Valushka, interpretato da Lars Rudolph. Gli stessi piani-sequenza acquisiscono una durata ancor maggiore, atti a sostenere un fluire emotivo vividissimo, non più indipendente dall'azione sullo schermo. Si instaura così un'aderenza empatica (definita addirittura "romantica" dallo stesso regista) al protagonista che, unitamente alle commoventi musiche da camera di Víg - mai più così accorate -, rende il film un notevole stand-out nella filmografia matura di Tarr.

Ed ora avremo una spiegazione grazie alla quale anche noi persone semplici potremo comprendere qualcosa sull'immortalità. Vi prego soltanto di venire con me in uno spazio sconfinato. Lì regna la stabilità, la serenità, la pace e il vuoto infinito. Immaginate che qui, in questo infinito silenzio sonoro, tutto sia avvolto da un'oscurità impenetrabile. Per il momento percepiamo solo un movimento generico. In principio neanche ci accorgiamo di quali avvenimenti straordinari siamo testimoni.

Le armonie di Werckmeister si apre con la scena più poetica - e tra le più rappresentative - del cinema di Béla Tarr. Al centro di un pub János inscena il moto dei pianeti servendosi dei clienti abituali, che volteggiando in modo rozzo comprendono cosa accade durante una eclissi totale, e che ciò che può sembrare una fine è solo il rito di passaggio verso un altro lungo ciclo cosmico. È tarda notte, il bar chiude e per János incominciano le consegne per la città addormentata. Come solito fa visita all'anziano signor Eszter, volontariamente relegato in casa per dedicarsi ai suoi studi sull'armonia, nel tentativo di ridare al suo pianoforte un'accordatura naturale, precedente al sistema temperato teorizzato da Andreas Werckmeister.
Un mastodontico TIR avanza lento e minaccioso, illuminando la strada buia e attraversando lo sguardo di János: in una città già traboccante di squilibri sociali e lacune politiche, l'arrivo di un circo ambulante si pone come un evento del tutto inspiegabile e fuori luogo: un altro presagio che sconvolge l'ordine pubblico, alimentando dicerie ed eventi soprannaturali; si parla di una copertura per qualcosa di assai più sgradevole, o di una nuova incarnazione del diavolo. Il gigantesco container ospita la carcassa di una balena dell'Oceano Pacifico e il misterioso Principe, un individuo che si mormora deforme, inneggiante alla distruzione senza che mai sia rivelato il suo volto.

All'improvviso vediamo che il disco della Luna si sovrappone al globo fiammeggiante del Sole creando una cavità, e questa cavità, un'ombra scura che cresce, cresce sempre più. [...] improvvisamente scoppia il dramma. In quel preciso attimo, l'aria si raffredda inaspettatamente. Lo sentite anche voi? Il cielo si scurisce, e tutto diventa buio. I cani guaiscono, le lepri si nascondono, il cervo corre impazzito. In questo tramonto, spaventoso e inconcepibile anche gli uccelli... gli uccelli sono turbati e volano ai loro nidi. Ora il silenzio è totale! Tutte le creature viventi ammutoliscono. Le montagne si muoveranno? La volta celeste precipiterà su di noi? La Terra sprofonderà? Non lo sappiamo. Non possiamo saperlo perché ora c'è l'eclissi totale del Sole.

La mancanza di direzione e di speranze del popolo lo porta a seguire una irragionata ideologia pseudo-nichilista: in silenzio, i cittadini si dirigono come ipnotizzati verso l'ospedale, danneggiando la struttura e ribaltando i malati dalle loro brande per poi batterli in un moto di follia cieca e sorda; sarà la vista di un vecchio canuto, scheletrico e inerme, in piedi dentro una vasca da bagno, a sopprimere l'impeto distruttivo della folla.

Però...non c'è motivo di avere paura. Non è ancora finita. Sul lato opposto del globo solare lentamente spunta la Luna. Il Sole ora torna a splendere e sulla Terra lentamente torna la luce e riprende a diffondersi il calore. Tutti sono presi dalla commozione. Sono sfuggiti al peso dell'oscurità.

János è un testimone silenzioso, esterno alle vicende del mondo e ai suoi gesti estremi: al pari di Estike è l'idiota innocente, vittima passiva che soccombe al crollo morale della massa pur essendone immune. L'ordine dell'universo è ricostituito ma all'opposto: reincontriamo da ultimo János in una clinica psichiatrica, dove riceve la visita del signor Eszter che lo rassicura, dicendogli che presto potrà raggiungerlo nella sua dimora. L'eclisse è cessata, dopo il caos si torna ad una apparente quiete: Eszter ha riaccordato il pianoforte alla maniera classica, l'equilibrio delle sfere entra in un altro ciclo, sempre nuovo e sempre uguale.
Focalizzandosi ancora una volta sui soggetti indifesi, in questo caso Tarr ne assume anche il punto di vista per sondarne la percezione del mondo. La minaccia che sembra annientare il buonsenso della folla è per János una manifestazione terrena della potenza e della fantasia di Dio: le loro vacue pupille si incontrano, guardano con la stessa indole sommessa al delirante esercizio del potere e alla sua messa in pratica inumana. Non potendo esserci un'interpretazione univoca a tutto ciò, anche in questo caso non ci viene chiesto di essere giudici ma soltanto spettatori, lasciandoci guidare da un flusso di immagini mai così denso e, appunto, malinconico.


L'essenza più pura dello sguardo sugli ultimi della società trova posto, come al principio, nei pochi minuti di un cortometraggio. Il progetto corale "Visions of Europe" viene realizzato nel 2004 da venticinque registi di tutto il continente: Béla Tarr sceglie il titolo Prologue per commentare il futuro ingresso dell'Ungheria nell'Unione Europea; ma ciò avviene senza l'uso della parola, nel riprendere una lunga fila di persone comuni, dall'aspetto umile e consumato, che scopriremo solo alla fine della ripressa essere ammassati in attesa di ricevere una scodella di zuppa. Così, mentre si realizzano piani sovranazionali lungamente discussi, Tarr pone un'affollata mensa dei poveri come paradigma degli squilibri sociali che ancora affliggono l'Ungheria. Persone degne di essere filmate e nominate una ad una - come avviene nei titoli di coda -, perché anche l'ultimo dei cittadini non venga dimenticato da chi ha in mano le sorti di un intero popolo. Prologue ci ricorda anche di come, in definitiva, tutta l'opera di Tarr parli della dignità umana, una componente che agli occhi del regista non crolla mai del tutto, anche nelle vicende più deplorevoli che si possano raccontare.

uomolondratarrForte di diversi premi e riconoscimenti critici per Le armonie di Werckmeister - sia in patria che altrove -, Tarr dà il via a un nuovo progetto, il primo ad essere prodotto dalla compagnia da lui fondata assieme a Gabór Téni nel 2003, la T.T. Filmműhely. L'uomo di Londra (2007) è il terzo adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo di Georges Simenon, che il regista lesse all'età di vent'anni e già negli anni '90 si propose di realizzare per il grande schermo con la sceneggiatura co-firmata da Krasznahorkai.
Dietro le trame ed atmosfere tipicamente noir, di cui lo scrittore francese è tra i maestri assoluti, Tarr percepì anzitutto l'ennesima storia di profonda solitudine incarnata nel personaggio di Louis Maloin, un guardiano del porto di Dieppe, in Normandia. Un osservatore di professione, il cui punto di vista privilegiato gli permette di assistere al losco traffico di una valigetta, a causa della quale un uomo perderà la vita affogando nelle acque del molo - il tutto entro lo stesso piano-sequenza, lento e meditativo. Per Maloin è l'implicita occasione di interrompere l'infinita monotonia della sua quotidianità, di uscire letteralmente dalla sua "gabbia", la torre di vedetta, per recuperare l'oggetto sommerso che scoprirà contenere una grossa somma in sterline inglesi. Nel mentre Brown, l'uomo di Londra responsabile dell'omicidio del porto, viene intercettato dall'ispettore di polizia Morrison, incaricato di recuperare il denaro appartenente all'impresario teatrale Mitchell. Con un pretesto Brown si dà alla fuga, mentre Maloin cova un nervosismo sempre più evidente: il possesso di così tanto denaro lo rende irascibile verso la moglie e la figlia Henriette, che non si spiegano un tale comportamento; in un accesso di rabbia obbligherà Henriette a lasciare il suo lavoro, portandola in seguito a comperare dei costosi capi d'abbigliamento.
Nel mentre proseguono le indagini di Morrison che, dopo aver interrogato senza successo Maloin sulla notte del delitto, convoca la moglie di Brown per informarla che il fuggitivo è ora accusato di omicidio, oltre che di furto. Sarà Henriette a trovarlo, nascosto nel capanno dove Maloin tiene la sua barca e gli attrezzi per la pesca. Una volta avvertito, il guardiano lo raggiunge con alcune provviste, chiudendo la porta della capanno dietro di sé: ma laddove il romanzo ci descrive dettagliatamente la feroce battaglia tra i due, nel film essa ci viene del tutto celata, sia alla vista che all'udito; non ci è permesso di varcare quella porta chiusa - inquadrata per circa un minuto e mezzo in un silenzio che ci avverte della morte ancor prima che essa sopraggiunga - e i fatti avvenuti al di là di essa ci verranno poi solo in parte svelati, quando Maloin si costituirà al detective Morrison. Dopo aver ucciso l'uomo di Londra "i suoi gesti erano quelli di un uomo normale, ma sapeva benissimo di non essere più un uomo come gli altri. Aveva marcato una ignota linea di confine, anche se ignorava quando fosse accaduto". Il finale del libro ci rivela anche la condanna penale di Maloin, cui viene negata la scagionatura per legittima difesa; nel film essa rimane una faccenda distinta dal lutto della signora Brown sul cui volto, devastato dalla perdita, la pellicola si dissolve in un bianco accecante: un rito di passaggio che prescinde dalle colpe individuali e dal giudizio morale, e che segna l'ingresso di un'altra anima nel regno della solitudine terrena.
I netti ritagli di luce e i chiaroscuri intensi del noir d'annata definiscono un'ambientazione notturna incredibilmente suggestiva, che attraverso le lunghe riprese di Tarr viene in qualche modo iconizzata, come fotografata dallo stesso occhio che ne osserva l'esistenza quasi immota. I tempi e spazi della regia rasentano ormai la perfezione: la macchina da presa attende con pazienza il concludersi dell'azione, si abbandona a primi piani capaci di soffermarsi sullo stesso volto per un tempo incalcolabile, eppure necessario alla piena comprensione di ciò che (non) ci viene mostrato. Una contemplazione sempre più scevra da dialoghi, dove è semmai il commento musicale a farsi più presente, replicando la disillusione che si scorge in ogni gesto ed espressione.

Il lavoro che ha portato alla realizzazione de L'uomo di Londra è stato dichiaratamente il più difficoltoso nella lunga carriera di Tarr, che ha viaggiato per i porti di tutta Europa prima di scegliere quello di Bastia, in Corsica, come location perfetta per il tipo di narrazione a cui mirava. Ciò però a costo di enormi ostacoli di natura burocratica e finanziaria - specie dopo l'improvviso suicidio del produttore esecutivo Humbert Balsan. Uno sforzo senza precedenti, tanto per il regista quanto per l'ampia troupe coinvolta, ma che purtroppo non otterrà nemmeno l'accoglienza sperata. Presentato all'interno della selezione ufficiale del Festival di Cannes nel 2007, riceve critiche tiepide quando non del tutto denigratorie: si passa dal plauso prettamente estetico ad aggettivi quali "tedioso" e "inguardabile"; commenti obiettivamente inspiegabili dato che, come si è visto, sin dai tempi di Perdizione il cinema di Tarr ha intrapreso una via estremamente radicale, entro la quale il nitore visivo e drammaturgico de L'uomo di Londra si colloca alla perfezione. Non bisogna però credere che la cattiva ricezione del film e le sempre maggiori difficoltà economiche - fattori comunque non ininfluenti - siano tra i motivi principali per cui in seguito Tarr renderà pubblico l'imminente ritiro dalla carriera cinematografica.

turinhorse1Il cavallo di Torino (2011) sarà, infatti, la logica ed estrema conclusione di un percorso durato oltre tre decenni, e che dal punto di vista formale si spingerà oltre ogni limite. A posteriori si direbbe che tutti gli sforzi affrontati sinora erano tesi a questa summa, una muta allegoria della vita in un mondo dopo la civiltà, colto nella paralisi dell'attesa che precede la fine dei giorni. L'aderenza al pensiero nichilista è qui ancor più manifesta, a partire dal racconto iniziale - oscurato dallo schermo completamente nero - dove la prosa asciutta di Krasznahorkai dipinge a parole quello che potrebbe essere considerato simbolicamente l'ultimo atto di pietà del genere umano. La ferrea logica di Friedrich Nietzsche frana al cospetto di un cavallo maltrattato dal suo cocchiere per una strada di Torino; il filosofo gli si getta al collo in preda a un pianto liberatorio e liminale, che prelude agli anni della sua pazzia e, in seguito, a una morte in solitudine.
La dissolvenza in apertura ci proietta in un non-luogo fuori dal tempo, dove un uomo e la sua unica figlia portano avanti i brandelli di un'esistenza stanca, fatta di gesti - e un ombroso tema musicale, un "quartetto per la fine dei tempi" nell'epoca del minimalismo - ripetuti incessantemente, svuotati di ogni fine. Mangiatori di patate "post-litteram", inconsciamente rassegnati alla dissoluzione di un mondo che fa il proprio crudele corso senza incontrare ostacoli, "perché per questa vittoria perfetta era anche essenziale che l'altra parte, tutto ciò che è eccelso, in qualche modo grandioso e nobile, non si impegnasse in alcun tipo di lotta". Il rumore del vento attraversa la casa, sembra portare le voci di chi non c'è già più, e assieme alla malattia del cavallo non permette al padre di lasciare la casa per procurare nuove provviste. Da un giorno all'altro anche il pozzo si prosciuga, interrompendo la paralisi e obbligando i due ad abbandonare la loro umile abitazione: li vediamo allontanarsi e scomparire poco a poco oltre una nuda collina, sormontata da un esile e solitario alberello; ma come ne "L'angelo sterminatore" di Buñuel la fuga viene loro negata come da una barriera metafisica, che li costringe a ritornare sui loro passi. Il cavallo è l'elemento ultimo di una serie di martiri animali nei film di Tarr: nei suoi occhi consumati dalla vecchiaia rivediamo lo sguardo vuoto della balena in putrefazione ne Le armonie di Werckmeister, inerme testimone dell'impossibilità del genere umano di sfuggire al proprio destino, resa qui evidente una volta per sempre. Solo sei giorni per la fine del mondo: ma nella dolorosa consapevolezza perdura l'impulso di esistere sino all'ultimo, senza lottare, lasciando che la fine sopraggiunga secondo natura nell'ultima, letterale dissolvenza sul vuoto assoluto.

A quindici anni di distanza, Il cavallo di Torino potrebbe qualificarsi come l'atto finale di quell'eterno ritorno della tragedia umana inaugurato da Satantango. La miseria del mondo non è il risultato di situazioni finanziarie o politiche, ma dello sfruttamento delle ultime tracce di fede nell'umanità (Kovács). "Tutto è stato corrotto", ripete con livore un visitatore, impegnato a raccontare la breve storia della rovina cui si è giunti, unico monologo in un contesto che altrimenti sposta il proprio fulcro dalla sinossi alla muta "narrazione" delle immagini, con una durata media senza precedenti di circa 240 secondi a take.
L'intenso fascino de Il cavallo di Torino è quello di un'opera totale e rigorosa, l'ultimo frutto di una incrollabile convinzione (o illusione) morale; un testamento artistico nel quale si realizza pienamente il passaggio dal sociale al cosmico, non per mezzo di un'astrazione bensì tramite una profonda lucidità e concretezza, tese ad elevare le sorti dell'umanità sofferente a icona universale. Il mondo è stato corrotto, non resta che attendere la fine: e ancora, ciononostante, la dignità umana non viene meno nello sguardo di Tarr, che assieme a loro si ritira nel buio e nel silenzio di quella fredda stanza nel mezzo del nulla. La bufera è cessata.

È la chiusura del cerchio non soltanto per l'opera di Tarr, ma per il cinema tutto. Un punto di non ritorno dopo il quale sarebbe impossibile non fare un passo indietro nella realizzazione di un altro film. Se davvero Il cavallo di Torino non avrà seguito, l'opera di Tarr potrà essere vista come quella di un autore mai sceso a compromessi con ogni possibile limitazione; e nemmeno si potrà parlare di una "carriera", intesa come strada votata al riconoscimento e al successo, ma di un puro percorso artistico, perfettamente coerente e conchiuso. Non si tratta di una scelta professionale quanto di un dovere morale: i film di Tarr vanno man mano spostandosi dall'atto politico all'autodafé, dove il suo imperativo è semplicemente mostrarci ciò che vede ("potete non accettarlo e andarvene, ma io devo farlo"); è il gesto accorato di un uomo che pur trattando la miseria universale non smette di credere nell'umanità e nella dignità che ne contraddistingue ogni membro. Da sempre, e ancora un'ultima volta, la voce di Béla Tarr giunge a pochi ma parla per tanti, illusi e disillusi di tutto il mondo che ai suoi occhi sono gli unici (anti)eroi possibili.


Postludio: nel maggio del 2012 Tarr annuncerà anche la chiusura della casa di produzione T.T. Filmműhely, che produsse non solo i suoi ultimi due film ma anche opere di diversi registi ungheresi. La missione di salvare progetti "con poco spazio e senza respiro" naufraga a causa della politica culturale nazionale: Tarr ne denuncia l'insensibilità e torna ad auspicare un futuro in cui il cinema sia davvero indipendente dalle variabili del potere.

 

BIBLIOGRAFIA

Peter Hames, The melancholy of resistance. The films of Béla Tarr, Kinoeye.org, 2001
András Bálint Kovács, The cinema of Béla Tarr. The circle closes, Wallflower Press, 2013
András Bálint Kovács, The world according to Béla Tarr, National Audiovisual Archive and Eötvös Loránd University, Budapest, 2008
Jacques Rancière, Béla Tarr, le temps d'après, Capricci, 2011





Béla Tarr