Ondacinema

recensione di Dario Gigante
6.5/10

Piccoli cineasti crescono.

L'ultimo incontro con il trentasettenne Claudio Cupellini risale al 2007, e a "Lezioni di cioccolato", film (su commissione) per spettatori di bocca buona. Chi l'avrebbe detto, allora, che tre anni più tardi, lo stesso Cupellini avrebbe accantonato le commedie ipercaloriche per accompagnare, al Festival di Roma (in concorso) un noir adulto e responsabile come "Una vita tranquilla"?

Ispirato al soggetto "Il nemico nell'acqua" di Filippo Gravino, vincitore del Premio Solinas nel 2003, sceneggiato dal regista insieme a Gravino e a Guido Iuculano (già sodali di copione per l'esordio registico di Bentivoglio, "Lascia perdere, Johnny"), il film non è nulla di nuovo sotto il Sole. Anzi, sotto le nubi fosche e il cielo plumbeo della Germania in cui è ambientato. Rosario (Toni Servillo), camorrista spacciatosi per morto nel 1994 per sfuggire a una faida, si è ricostruito un'identità e un'esistenza artificiali nei recessi della provincia linda e boscosa del freddo Nord. Un ristorante rinomato, una moglie virago di tedesca rettitudine, un figlioletto biondo e candido. Una vita tranquilla, all'apparenza. La comparsa inaspettata del figlio italiano, Diego (Marco D'Amore), abbandonato allora, e di un altro giovane, Edoardo (Francesco Di Leva), assoldati dalla malavita per compiere da quelle parti un attentato, nella cornice di un losco affare che puzza di rifiuti, sconvolgerà la quiete che Rosario si è guadagnato in anni d'indefessa menzogna. Il passato che riaffiora. Un tema collaudato. Come da manuale, Rosario sarà trascinato dalle catene della colpa in a history of violence dall'epilogo sanguinario e straziante.

Attribuire a "Una vita tranquilla" la stoffa del capolavoro è un oggettivo sproposito. Perché, per quanto Cupellini e compagni svolgano una traccia convenzionale con abilità e regalandoci alcuni scampoli di buon cinema (la sequenza della cena che precede l'atto omicida di Rosario fibrilla di una suspense adrenalinica), sono numerose le sbandate, sia della sceneggiatura, che della regia. Consideriamo la prima. Alcuni errori appaiono sorvolabili. L'abbattimento del cinghiale da parte di Rosario, durante la battuta di caccia, nel prologo, quasi un rovesciamento del finale del "Cacciatore" di Cimino, con la commovente rinuncia di De Niro al sangue, è una prolessi fin troppo illustrativa e scontata, che porta con sé un bagaglio metaforico più vuoto che pieno; inutilmente riepilogativa suona, invece, la confessione di Servillo al capezzale del pastore. Ma questi sono i peccati veniali. Le condizioni del racconto si aggravano in una pinna caudale di sequenze che impongono alla pellicola, fino a quel momento contenuta e disadorna, una deriva patetica e confusa, nella quale, quasi in ossequio al genere, vendetta, predestinazione e melodramma si attorcigliano intorno a sviluppi forzati. Venti minuti o giù di lì che ci saremmo risparmiati volentieri. Anche sul piano formale, l'opera, che, nel complesso, non sfigura, tradisce, però, alcune ingenuità. Ingiustificati risultano certi movimenti di macchina, ampliamenti di campo e carrelli verticali che trasmettono l'idea di un occhio esterno che veglia o spia di nascosto, quando, in realtà, il dramma si consuma nella cerchia dei personaggi che tutti conosciamo fin dall'inizio; così come, d'altro canto, non si comprende perché, allo scoccare della tragedia più grave, lo schermo s'inondi kieslowskianamente di bianco, imponendoci un monocromo che nulla ci azzecca con le atmosfere cupe della pellicola. E se a tutto ciò aggiungiamo che Servillo non è in forma come al solito (discutibile l'assegnazione del Marc'Aurelio), e che i grugniti di D'Amore e Di Leva divengono, con il tempo, insopportabili, sveliamo un'ulteriore debolezza del film.

Il repertorio in cui spaziano gli autori non si limita ai classici, ma molte sono le suggestioni, o le presenze, che riconducono al cinema italiano contemporaneo, ai coetanei di Cupellini. L'impronta sorrentiniana - saranno le musiche di Teho Teardo o la figura di Servillo ancora una volta nei panni di un Titta Di Girolamo in esilio - si coglie. Il riferimento al business dei rifiuti non può che lasciarci udire un'eco garroniana e riportarci a "Gomorra". Ma Cupellini ancora scruta i primi della classe dalle retrovie. Sarà per il prossimo film. Intanto, con "Una vita tranquilla", si è dimostrato, a pieno titolo, author in progress.


05/11/2010

Cast e credits

cast:
Toni Servillo, Marco D'Amore, Francesco Di Leva, Juliane Kölher, Leonardo Sprengler, Maurizio Donadoni


regia:
Claudio Cupellini


titolo originale:
Una vita tranquilla


distribuzione:
01 Distribution


durata:
105'


produzione:
Acaba Produzioni, Eos Entertainment, Rai Cinema


sceneggiatura:
Claudio Cupellini, Filippo Gravino, Guido Iuculano


fotografia:
Gergely Pohamok


scenografie:
Erwin Prib


montaggio:
Giuseppe Trepiccione


costumi:
Mariano Tufano


musiche:
Teho Teardo


Trama
Rosario conduce, lontano dalla natia Italia, un'esistenza tranquilla. Almeno finché il suo passato criminale non riaffiora