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recensione di Eugenio Radin

Lo scrittore e il cineasta

Dopo il fiasco al botteghino della commedia “Leone l’ultimo”, uscita nel 1970, John Boorman si trova costretto a rimandare il sogno nel cassetto dell’adattamento cinematografico de “Il signore degli anelli” per cercare un progetto più adatto alle sue tasche e ai fondi che i produttori sono disposti a concedergli. Sarà proprio la Warner Bros., di lì a poco, a sottoporre all’attenzione di Boorman un nuovo romanzo ambientato nel Sud degli Stati Uniti, nel quale è narrata la drammatica escursione di quattro amici lungo le correnti di un fiume incontaminato: il titolo è “Deliverance” e l’autore è James Dickey, poeta e collaboratore universitario eccentrico, dalla corporatura imponente e dal carattere difficile.
È la prima volta che Boorman si ritrova a lavorare in condizioni di dipendenza così forte da un testo non cinematografico (“Point Blank” stesso non aveva che piccoli rimandi al racconto di Richard Stark), così decide di intraprendere una collaborazione con lo stesso Dickey per la scrittura della sceneggiatura. Non sarà una relazione facile né per lo scrittore, che si ostina a vedere la pellicola come il proprio film, né per il cineasta, intento a mediare tra le proprie idee sulla storia e quelle del libro e a ideare soluzioni registiche che, a sacrificio della componente letteraria, possano rendere il soggetto funzionale al grande schermo. Nella corrispondenza tra i due i contrasti spesso si inaspriscono e si finisce per parlare di tutto, meno che del film, ma la collaborazione prosegue e alla fine si giunge a una prima bozza di sceneggiatura - accreditata poi al solo Dickey.
È ora il momento del casting. Boorman non vuole nel proprio film volti troppo noti, non soltanto per poter abbassare le spese relative agli attori, ma soprattutto perché la presenza di celebrità nell’opera finirebbe per condizionare le sorti dei personaggi e per imporre un andamento più morbido alla vicenda, mentre nell’idea del cineasta britannico lo spettatore dovrà avere la sensazione che ognuno sia in pericolo e che, alla fine dell’avventura, nessuno si sia effettivamente salvato.
I primi a essere assoldati sono due attori provenienti dal teatro, alla prima esperienza davanti a una cinepresa: Ned Beatty e Ronny Cox, che interpreteranno rispettivamente i personaggi di Bobby e Drew. È poi il turno di John Voight, probabilmente il più celebre dei quattro all’epoca. Per il personaggio di Lewis, Boorman ha in mente Burt Reynolds, un prestante stuntman, da anni impelagato in produzioni televisive fallimentari, per il quale la performance in questione rappresenterà un vero e proprio rilancio di carriera. Anche la ricerca degli interpreti per i villici non è semplice. Bill McKinney è un caratterista di western dedito alla botanica, che nonostante l’espressione intimidatoria è ricordato da tutti per il suo carattere docile e per la sua generosità. Grazie all’eccezionale controllo del proprio corpo, nella scena successiva all’omicidio riuscirà a rimanere immobile su un tronco d’albero, letteralmente senza battere ciglio, per oltre sei minuti e per ben due ciak, fintanto che i protagonisti discutono sul da farsi. Il secondo villico era stato un collaboratore di Reynolds in alcuni stunt dieci anni prima. Privo degli incisivi superiori, completamente analfabeta e balbuziente, venne assoldato all’istante da Boorman. Una scelta complessa, ma di successo, che contribuì a rendere la pellicola un cult-movie senza tempo.
Persino il direttore della fotografia Vilmos Zsigmond venne scelto non tanto per il suo curriculum, quanto per il suo passato burrascoso da fuggitivo del comunismo ungherese, che per Boorman lo metteva in condizioni di capire meglio il clima di violenza che avrebbe caratterizzato il film.
Riunito il cast e scelto come location l’inavvicinabile Chattooga River, tra la Georgia e il Sud Carolina, per quasi due settimane gli attori vivono in simbiosi in una riserva naturale, dove prendono lezioni di canoa e di tiro con l’arco, sotto il minaccioso sguardo di Dickey, che si ostina a chiamarli con il nome dei loro personaggi per imporre loro un’immedesimazione totale e a intrattenerli con aneddoti fasulli nel tentativo di dare maggior veridicità all’intera vicenda. A un certo punto, dopo una furiosa lite con Boorman, arrivata alle mani, lo sceneggiatore è allontanato dalle location, ma in seguito i rapporti si riappacificheranno, tanto che lo scrittore otterrà la parte dello sceriffo, e tornerà sul set per la parte finale delle riprese.

L’uomo e la natura

Ci si domanda spesso, e a ragione, che tipo di film sia “Deliverance”. Come sostiene Adriano Piccardi nel suo saggio sul regista inglese: “La presenza costante dell’acqua, insieme al movimento di discesa che accompagna il distendersi del racconto e con esso il viaggio dei quattro amici, fa di Deliverance un film sommerso, fluttuante. La sua voluta inafferrabilità permette interpretazioni diverse, ma nessuna sembra esaurire il disegno degli elementi in gioco”[1].
Per quanto risulti infatti comodo incasellare l’opera dentro ai confini del survivor-movie, “Un tranquillo weekend di paura” finisce inevitabilmente per tracimare dai propri argini e per superare i limiti del genere, richiamandosi a tradizioni cinematografiche apparentemente distanti o influenzando nuove tendenze e nuovi filoni. Come fa notare Roberto Chiavini, ad esempio: “Pur restando discutibile una sua appartenenza al genere slasher, [“Un tranquillo weekend di paura”] ne anticipa molte pellicole seminali (da Non aprite quella porta a Le colline hanno gli occhi), con il suo tratteggiare una fauna rurale del profondo Sud fatta di villici dementi, figli di generazioni di rapporti incestuosi, di un’umanità degradata che ne popola gli anfratti più reconditi”[2]. È poi impossibile non evidenziare la forte componente sociologico-politica dell’opera nel suo delineare l’incontro-scontro tra la civiltà industriale e il mondo rurale e di montagna, come appare chiaro sin dalle prime sequenze del film, ambientate nella rimessa di montagna.
Tuttavia una delle interpretazioni più interessanti arriva dallo stesso saggio di Piccardi, dove si afferma che “Deliverance è sostanzialmente un western, al quale si intreccia uno dei temi-chiave del cinema americano (ma anche di tutta la cultura occidentale), ossia quello del viaggio”.
Il romanzo di Dickey tratta in effetti dell’incontro tra l’uomo e la natura selvaggia, della sfida della sopravvivenza, del richiamo della frontiera. E tuttavia il tema della frontiera, centrale in tutta la tradizione western classica (e, si può dire, in tutta la cultura americana, come testimonia l’ormai classico saggio di Frederick Turner[3]) viene qui ripreso per poter essere trasformato. La natura come bacino incontaminato in cui fondare il sogno americano è tale solo nell’immaginazione dei protagonisti, ma nella dura realtà, nel viaggio iniziatico che essi compiono attraversando il fiume, essa si trasforma nella linea d’ombra in cui l’uomo civilizzato si accorge della propria impotenza, in cui emergono le pulsioni represse, in cui riaffiora una violenza primitiva.
Se i protagonisti del film vengono violati è, a ben vedere, per il fatto di aver sfidato la natura: i montanari, come spiriti maligni dei boschi, vendicano la natura contro chi per primo l’ha violentata, contro i rappresentati di quella civiltà che, in un mai sopito atteggiamento di conquista, spinge avanti la propria frontiera, fino ad annichilire il concetto stesso di limite naturale.
È qui interessante un confronto con l’altra pellicola di Boorman che analizza il rapporto uomo-natura: “The Emerald Forest” (1985), che di “Deliverance” rappresenta per alcuni versi l’antitesi, per altri il completamento. Entrambe le pellicole si aprono sulla scena della costruzione di una diga, sulla violenza che il progresso occidentale porta con sé. Ma se “Deliverance” mette in luce lo scontro, l’impossibilità di dialogo tra la società naturale e quella industrializzata, con il completamento finale della costruzione dell’opera ingegneristica a suggellare il distacco tra i due mondi, “The Emerald Forest” mostra l’inesauribile potere della natura di riappropriarsi di tutto ciò che è umano: “il bambino appena entrato nella foresta, ancora al limite, viene da essa letteralmente assorbito, come i rapitori sono confusi tra le linee dei suoi alberi delle sue liane delle sue foglie in unico tessuto”[4]. Qui, la diga viene infine distrutta e la natura vince. Ma il ragazzino di “The Emerald Forest” ha un legame indissolubile con la foresta, ne è in qualche modo un figlio, un eroe mitico e leggendario, mentre la sfida naturalistica di Lewis e dei suoi compari mantiene un sapore artificioso (lo stesso Lewis si mostra refrattario nei confronti della società, ma ne utilizza le tecnologie e i più raffinati kit di sopravvivenza) ed è per questo che essi ne sono sopraffatti.

Violenza e formazione

Possiamo però analizzare l’opera in questione anche considerandola sotto il punto di vista del film di formazione. Dickey scrisse la storia pensando a una sorta di parabola su un uomo (Ed) che matura la consapevolezza della propria virilità attraverso l’esperienza iniziatica della violenza.
Alla fine del film ognuno dei quattro personaggi risulta, chi più e chi meno, segnato dagli avvenimenti, in un modo diverso e per ragioni diverse.
Abbiamo anzitutto Bobby: l’archetipo dell’americano amante della comodità, trascinato in un ambiente al quale non appartiene e, non a caso, il primo a esserne violato. Lo stupro di Bobby rappresenta la violenza della natura nei confronti di chi, ormai, è completamente altro rispetto ad essa.
Agli antipodi rispetto a Bobby c’è Lewis: l’uomo forte, convinto della necessità di esercitare il proprio spirito di sopravvivenza, ma in realtà ancorato più di quanto creda a quella società che intende lasciarsi alle spalle. Lewis rappresenta una tendenza molto diffusa dell’America di provincia: cerca di distanziarsi con spavalderia dalla civiltà, ma rimane succube di uno scenario sul quale non riesce a esercitare il proprio controllo fino in fondo, passando dall’essere il capo banda al diventare l’impedimento che mantiene bloccati gli altri personaggi nella gola di roccia in fondo alle rapide.
Drew è per molti versi il personaggio più interessante dei quattro: intellettuale virtuoso e giusto, è lui il protagonista del duello musicale con il ragazzino menomato, nel quale le due realtà sociali, quella borghese e quella contadina, sembrano romanticamente ritrovarsi. È la coscienza etica a mostrare a Drew - e, attraverso i suoi occhi, allo spettatore - quell’unione ideale, confutata solo poche scene più avanti: quando il gruppo di avventurieri si imbarca nelle canoe, lo stesso ragazzino li osserva da un ponte sospeso. E tuttavia non risponde al saluto di Drew, quasi non lo cogliesse affatto, ma si limita ad oscillare il banjo, come a mimare il ticchettio di un pendolo, segnale non colto rivolto al tragico destino dei protagonisti. Drew è anche l’unico a mantenere un senso di giustizia dopo l’incidente e a rifiutarsi in un primo momento di seppellire il cadavere del montanaro. Egli viene annichilito dalla presa di consapevolezza riguardo all’impossibilità di far valere la moralità in una natura che trasforma ogni uomo in un lupo tra gli altri uomini: Drew muore - probabilmente suicida - perché di colpo non esiste più come individuo morale: egli è il rappresentante di una condotta di vita basata sulla virtù e sul rispetto. Quando tale concezione viene sgretolata, egli non può che scomparire.
Infine c’è Ed: il vero protagonista delle vicende, colui che più di tutti viene trasformato dall’incontro ravvicinato con la violenza. C’è un’inquadratura che sintetizza al meglio la trasformazione di Ed: nel risalire la cascata alla ricerca del cacciatore-killer, sospeso nel vuoto, Ed estrae dalla propria tasca una foto della moglie e del figlio. Pochi attimi dopo la foto scivola dalla sua mano e precipita nell’abisso sottostante. È una scena metaforica che testimonia tutta la potenza con cui Boorman è riuscito a rendere cinematograficamente il romanzo di Dickey: in quel momento Ed perde se stesso, i propri legami sociali e civili, e si trasforma in un uomo diverso, un uomo in grado di uccidere a sangue freddo un altro uomo per garantirsi la sopravvivenza. Ed, in un certo senso, deve diventare Lewis, deve ritrovare l’uomo primordiale, riscoprire il cacciatore dentro di sé.
Ritornando per un attimo al confronto con “The Emerald Forest”, nella pellicola del 1985 Tomme, il bambino che viene “assorbito dalla foresta”, rappresenta una visione del mondo in cui l’Io si discioglie nel tutto e ritorna natura, ritorna a uno stato di pre-coscienza: Tomme, il giovane protagonista, non è più un soggetto, ma finisce per confondersi nelle indistinte linee degli alberi e delle foglie. Ed ne è in un certo senso l’opposto, per lui la natura non rappresenta un cammino di de-soggettivizzazione, ma un cammino di autocoscienza, di confermazione. Un po’ come per il padre di Tomme, “l’incubo diventa iniziazione e poi coscienza”[5], acquisizione di maturità, consapevolezza di non poter rimanere lo stesso uomo di prima. Nella natura il pensiero esce da sé per poi far ritorno a sé, mutato, per scoprire che l'orrore non si cela - conradianamente - nel mezzo della foresta, ma nell’uomo stesso.
Ma se nel romanzo di Dickey l’intero viaggio è metafora della maturazione del protagonista, Boorman, nel finale, aggiunge un tocco personale suggerendo l’irreversibilità dell’incontro con la violenza, che rappresenta un trauma impossibile da sanare. Così come Ed non potrà più essere sé stesso, allo stesso modo non potrà più esserlo, ai suoi occhi, la società. E non è un caso che, al termine del viaggio, i protagonisti non ritrovino altro ad accoglierli che il rottame arrugginito di un auto, metafora di una civiltà ormai corrosa dall’incontro con quel fiume. Allo stesso modo, allontanandosi nella macchina dello sceriffo, Ed vede un camion intento a trasportare in un altro luogo la piccola chiesa del paese, che a breve sarà subissato dalle acque della diga. È la geniale soluzione visiva con cui Boorman suggerisce allo spettatore il sentimento di precarietà di tutti i valori: le certezze sono state scosse, nulla più rimane di stabile, tranne quella mano affiorante dall’acqua, che continuerà a tormentare per sempre i sogni dei protagonisti e di tutti noi.



[1] A. Piccardi, “John Boorman” (La nuova Italia 1982)
[2] AA. VV., “Guida al cinema horror, il new horror dagli anni Settanta a oggi” (Odoya 2015)
[3] Frederik J. Turner, “La frontiera nella storia americana” (Il Mulino 1959)
[4] E. Ghezzi, “Il richiamo della foresta”, in Id. “Paura e desiderio - cose (mai) viste” (Bompiani 2011)
[5] Ibid.


22/10/2019

Cast e credits

cast:
John Voight, Burt Reynolds, Ned Beatty, Ronny Cox, Bill McKinney, James Dickey


regia:
John Boorman


titolo originale:
Deliverance


distribuzione:
Warner Bors. Italia


durata:
109'


produzione:
Warner Bros.


sceneggiatura:
James Dickey


fotografia:
Vilmos Zsigmond


scenografie:
Fred Harpman


montaggio:
Tom Priesley


musiche:
Eric Weissberg


Trama
Quattro amici nel Sud degli Stati Uniti decidono di trascorrere assieme un weekend all'insegna dell'avventura e della sopravvivenza, percorrendo in canoa un fiume di montagna che di lì a poco sarà sommerso da una diga artificiale.
Quando però si troveranno a far fronte a un'aggressione da parte di alcuni abitanti del luogo, l'avventura si trasformerà presto in tragedia e li costringerà a mettere in gioco i loro valori morali e sé stessi.