Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi
7.0/10
"Tre volti", premiato a Cannes per la miglior sceneggiatura, è il nuovo film di Jafar Panahi dopo "Taxi Teheran" che, nel 2015, gli aveva regalato l'Orso d'Oro al Festival di Berlino. È indubbio che i premi servano al circuito festivaliero per tenere acceso un riflettore sulla sorte del regista  che, nel 2010, è stato condannato a vent'anni di interdizione dalla realizzazione di film e al divieto di lasciare l'Iran.

Con "Tre volti" Panahi torna a indagare la condizione femminile nella Repubblica islamica, dopo "Il Cerchio" (2000), che è ormai un classico del cinema iraniano, e il più lieve "Offside" (2006). Nel film del 2000 un gruppo di donne incrociavano i propri destini nell'arco di una giornata a Teheran, all'ombra di un regime per loro repressivo e opprimente: nel nono lungometraggio, Panahi si concentra su tre volti di donna, di differente età, estrazione e condizione. Non avendo più a disposizione la medesima libertà di movimento, il regista sfrutta la leggerezza del digitale ritornando a giocare il ruolo dell'autista, come accadeva in "Taxi Teheran". Il punto di partenza è un video fatto recapitare alla celebre attrice Benhaz Jafari (nel ruolo di se stessa, più o meno come tutti) da Marziyeh, una giovane abitante di un villaggio di campagna col sogno di diventare attrice ma a cui la famiglia, fedele alla tradizione, impedisce di trasferirsi nella capitale per frequenta il conservatorio. Marziyeh, nel video girato con uno smartphone, si dice disperata perché non ha mai ricevuto risposta da Benhaz e, pertanto, non ha altra scelta se non compiere un gesto estremo. L'inquietante testimonianza di un suicidio in diretta getta nel panico l'attrice che, insieme al regista Panahi, si mette in macchina per raggiungere il villaggio della ragazza, pur avendo dei dubbi sulla veridicità della situazione (d'altra parte non ricorda di aver ricevuto alcun messaggio di aiuto), mentre Jafar non vedendo stacchi di montaggio pensa che il video possa essere autentico. L'unico modo per accertarsene rimane comunque la constatazione diretta, l'esserci e vedere coi propri occhi. 

Il film rappresenta anche un esplicito omaggio al maestro della New Wave iraniana Abbas Kiarostami. In "E la vita continua" Kiarostami tornava nella regione di Gilan, dilaniata da un terremoto, alla ricerca dei protagonisti di "Dov'è la casa del mio amico?", per ritrovare gli uomini in carne e ossa a partire dall'immagine. Panahi, come il suo maestro, sceglie come veicolo narrativo l'on the road e segue due direttrici: una teorica, che è la riflessione sulla verità dell'immagine cinematografica, e una seconda di scandaglio socio-politico. Il viaggio serve infatti a verificare o a confutare il messaggio trasmesso dal video, restaurando il principio di realtà: gradualmente che ci si avvicina al villaggio, Panahi sembra destituire questo livello a mero pre-testo narrativo per analizzare nuovamente la situazione di marginalità e subalternità vissuta dalle donne, andando al cuore di una delle contraddizioni del regime iraniano. Benhaz, in quanto attrice televisiva, è molto nota e amata dal pubblico e viene subito riconosciuta e ben accolta nel villaggio; al contempo, Marziyeh è considerata dai suoi compaesani una "testa vuota", una ragazza con troppi grilli per la testa e che, addirittura, vorrebbe continuare gli studi. La posizione ideologica di Panahi è chiara e non l'ha mai nascosta, nemmeno ora che gira in semi-clandestinità; la differenza consiste in quello che è ormai un tratto distintivo dei suoi ultimi film: il tono più leggero e l'ironico disincanto con cui osserva la realtà del suo paese. Non c'è, da parte dell'autore, la volontà di sentenziare sulle scelte altrui ma la passione per l'umanità, la curiosità dell'aneddoto individuale che sboccia in questo viaggio che dalle autostrade porta alle mulattiere di paese e poi di cortile in cortile, carpendo segreti e racconti di varia quotidianità. Sul piano stilistico vanno notati due tratti: il concetto di confine e il dialogo fra presenza e assenza del regista. Come detto, il tragitto da Teheran al paese della ragazza è un viaggio di ritorno verso una zona liminare in cui i dialetti si mescolano, usi e costumi sono tradizionali se non propriamente arcaici: in tal senso, Teheran rappresenta la modernità e maggiore libertà, perché le periferie sono più conservative rispetto al centro. Si pensi inoltre a come gli spazi casalinghi siano quasi luoghi sacri, non si entra mai dentro: si resta nel cortile vezzeggiati dall'accoglienza tipica della tradizione persiana. Panahi riveste di nuovo i panni di se stesso e si ri-mette in scena come autista, ascoltatore e osservatore; nella prima e nell'ultima sequenza, però, è totalmente assente dalla scena, confondendo parzialmente il proprio sguardo con quello della videocamera, incorporando il proprio personaggio col ruolo di regista. Evidente come l'inquadratura si soffermi sui volti femminili, sulle loro espressioni e sulle loro confessioni: solo una donna rimane fuori campo, così come accade al regista, in un evidente parallelismo tra condizioni di confinati ai margini del profilmico, prossimi alla sparizione. Si tratta della vecchia attrice Shahrzad, una stella del cinema pre-rivoluzionario a cui è stato impedito di calcare i set e che è tornata a vivere nel paese natale, ostracizzata dal sindaco e nel biasimo collettivo. Grazie a Panahi sappiamo della sua esistenza, ne vediamo la sagoma, la intravvediamo, a debita distanza, di spalle, ma non ne sentiamo la voce né viene filmato il suo volto. È una paria del cinema, l'immagine mancante di quest'opera solo all'apparenza semplice.

27/11/2018

Cast e credits

cast:
Behnaz Jafari, Jafar Panahi, Maedeh Erteghaei, Marziyeh Rezaei, Narges Delaram


regia:
Jafar Panahi


titolo originale:
So Rohk


distribuzione:
Cinema


durata:
100'


produzione:
Jafar Panahi Film Productions


sceneggiatura:
Jafar Panahi, Nader Saeivar


fotografia:
Amin Jafari


montaggio:
Mastaneh Mohajer, Panah Panahi


Trama
La diva iraniana Behnaz Jafari riceve un videomessaggio di una giovane ragazza che filma il proprio suicidio, giunta alla disperazione per non poter realizzare il suo sogno di diventare attrice. Pur sospettando che si tratti di una simulazione per attirare l’attenzione su di sé, Behnaz si mette in viaggio col regista Jafar Panahi per recarsi al villaggio della ragazza. Sulla strada avvengono incontri, testimonianze, e prende forma la constatazione di un ricorrente rapporto popolare col sogno del cinema, nel presente di Behnaz e nel passato della diva Shahrzad, molto amata nel cinema iraniano prerivoluzionario e successivamente interdetta dal regime…