Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi
7.5/10

sto pensando di finirla qui

So now I'm goin' back again,
I got to get to her somehow […]
We always did feel the same,
We just saw it from a different point of view,
Tangled up in blue.
"Tangled up in blue" – Bob Dylan

 

Non è facile essere Charlie Kaufman

Così titolava un articolo di Stephen Applebaum sul The Jewish Chronicle che presentava un profilo dell’autore a ridosso dell’uscita nelle sale americane di "Synecdoche, New York", il debutto dietro la macchina da presa il cui clamoroso insuccesso influenzerà il resto della sua carriera. "Sto pensando di finirla qui" è infatti solo il terzo film da lui diretto in questi dodici anni, e cinque ne sono trascorsi da "Anomalisa": l'accordo stretto con Netflix per l'adattamento dell'omonimo romanzo di Iain Reid arriva a compimento in questo strano e difficile 2020, anno in cui Kaufman ha dato alle stampe anche "Antkind", il suo primo romanzo (in Italia sarà edito dai tipi di Einaudi). La visione della sua terza regia conferma che essere Charlie Kaufman non è diventato più semplice col passare del tempo.

"Sto pensando di finirla qui" è la frase d’apertura del film ed è un leit-motiv per buona parte di esso. Emerge nei pensieri di Lucy come uno zampillo ingovernabile, come se qualcuno gliel'avesse instillato per tarlare le basi del suo rapporto con Jake. I due stanno insieme da poco (sei o sette settimane) e lei ha acconsentito a conoscere i suoi genitori che abitano in una fattoria isolata. Il viaggio in macchina si prospetta lungo e lei, che il giorno dopo ha molto lavoro da fare, teme che potrebbero rimanere bloccati a causa della neve, ma lui la tranquillizza poiché "ha le catene". C'è un velo di inquietudine ogni qual volta Jake ribatte che ha le catene, nonostante non emergano mai sfumature aggressive: Jesse Plemons con la sua fisicità precocemente imbolsita, i modi educati e bonari s'inserisce nella galleria di uomini kaufmaniani, la cui pignoleria e saccenteria nascondono fragilità e insicurezze ben radicate che esplodono in repentini cambi di umore; è il perfetto sparring partner per la brillante e irrequieta personalità della ragazza a cui presta il volto una bravissima Jessie Buckley. Tali parole divengono sibilline, poiché la loro sicurezza stride con lo stato d'animo di Lucy, i cui segreti lo spettatore conosce tramite la voce fuori campo che ci rende partecipe delle sue riflessioni e del suo persistente e sempre più evidente disagio. Il disagio, il sentirsi fuori posto è un tratto costante dei protagonisti di Kaufman, i quali vorrebbero essere qualcun altro e talvolta divengono davvero qualcun altro, oppure, cercano di rimuovere una parte di sé mentre, talvolta, sono terrorizzati dall'idea di poterla perdere.

Straniamento e surrealismo

Il groviglio di sentimenti contraddittori è acuito dallo straniamento, tecnica fondamentale nel lavoro dell'autore newyorkese e che sostanzia l'impalcatura di "I'm Thinking of Ending Things": l'ordito del racconto è come assediato da dissonanze, punti di vista alieni, piani temporali tangenti rispetto ai personaggi, elementi disturbanti che però rivelano livelli di realtà ulteriori, modificando ogni volta la percezione dei personaggi presso lo spettatore e la loro stessa posizione all’interno della narrazione. Se il flusso di coscienza che seguiamo appartiene a Lucy, la regia e il montaggio collaborano per insidiarne l'unità. A una riflessione della ragazza viene infatti raccordato il primo piano di un perplesso Jack, oppure, la macchina da presa si sposta per far entrare in campo il compagno la cui battuta sembra quasi una risposta al di lei pensiero: ad esempio, dopo che Lucy pensa "di finirla qui", Jake appare preoccupato e le chiede cos’abbia e, in un secondo momento, quando lei articola mentalmente The child is the father of man, egli le chiede se le piaccia Wordsworth (autore del celebre verso).

A proposito della regia, va sottolineata la scelta del formato 4:3 (o per essere più precisi 1,37:1, il cosiddetto Academy Ratio), negli ultimi anni tornato di tendenza nel cinema indipendente e arthouse: ne sono validi esempi "A Ghost Story", "First Reformed", "First Cow" e "Cold War" con cui condivide il direttore della fotografia. Se il cinema riguarda la dialettica tra gli elementi del profilmico e quelli che vengono esclusi, il formato 4:3 è rivelatorio della volontà di Kaufman di nascondere parte della messa in scena che dovrà essere inquadrata da un movimento di macchina che quasi sempre anticipa il gesto o lo sguardo di un personaggio, in uno spazio che viene dunque decentrato e a cui vengono sottratti solidi punti di riferimento e uno sguardo dominante (fin dall'incipit il regista interroga e sollecita il ruolo di Lucy quale enunciatore della diegesi).
La sensazione di straniamento precipita nei territori di un surreale thrilling quando si arriva a casa dei genitori di Jake: memore della lezione di Luis Buñuel, Kaufman sfrutta la dilazione dell'incontro, la dislocazione di elementi eccentrici (il cane che appare improvvisamente dopo essere stato nominato, le foto, i quadri) e soprattutto l'uso di falsi raccordi e di un montaggio discontinuo per spiazzare non solo lo sguardo dello spettatore ma anche la sua protagonista che, sempre più spaesata, sembra perdere il contatto con le coordinate del reale. Dentro la casa di Jake, il tempo non ha uno sviluppo lineare ma si avviluppa in falde attraversate dalla protagonista: Lucy in un'inquadratura ha un abito e in quella dopo un altro, cambia nome (Louisa, Lucia, Yvonne, Ames) e anche mestiere (fisica, pittrice, gerontologa, poetessa, cameriera), i corridoi, le scale, le soglie delle stanze sembrano wormhole attraversando i quali i genitori invecchiano fino alla demenza per poi inaspettatamente ringiovanire. Kaufman aveva già sperimentato in "Synecdoche, New York" un simile procedimento stilistico che, oltre allo slittamento di senso, produce innumerevoli strappi nel drappo della realtà, quasi che essa sia ammalata come chi la agisce.

Il perturbante generato aspira alle vette di inquietudine di David Lynch, ma il lavoro sull'immagine resta minimale, inversamente proporzionale alla cultura espressa dall’autore e che grava sui protagonisti, costretti a verbosi botta e risposta su qualsiasi argomento: dalla fisica all’entomologia, dalla letteratura alla filosofia e al cinema, con almeno un paio di passaggi autoindulgenti, come quelli dedicati a Guy Debord, a David Foster Wallace (per certi versi un modello di Kaufman) e alla stroncatura di "Una moglie" di John Cassavetes vergata da Pauline Kael, recensione declamata da Lucy che sussume in sé lo spirito arguto e spigoloso della celebre critica del New Yorker. In tal senso, i limiti di "Sto pensando di finirla qui" sono fondamentalmente due e inestricabili, riguardanti l'intima struttura dell'opera: lo sviluppo decentrato e spiazzante, una volta compreso l'insieme, smette di produrre la disagevole tensione che lo innerva; inoltre, l'onnipresenza dell'autore che si cela dietro ogni indizio individuato da Lucy, accompagnandola nel processo di disgregazione identitaria, finisce per guidare rigidamente il tracciato ermeneutico.

L'arte della melanconia
(attenzione spoiler)

Come accennato, il mondo costruito e messo in scena da Kaufman è interiore ed è sempre sull'orlo del collasso, affetto da senescenza, una progressiva decrepitezza che non può che approssimare la morte. Il titolo stesso si presta a interpretazioni divergenti, potendo significare sia la volontà di troncare una relazione, sia un proposito suicida. Se dovessimo analizzare l'opera di Kaufman secondo una lente psicanalitica, si potrebbe asserire che essa rientri nella clinica della melanconia, che è "una clinica della pulsione di morte: il soggetto è preso in una spirale di odio per se stesso – di rifiuto della propria vita – che sembra non avere argini e che tende a trascinarlo fuori dalla scena del mondo" (p. 1). I protagonisti kaufmaniani sono schiacciati dallo iato tra senso ed esistenza e pertanto succede che "la scena del mondo si disfa, che il suo quadro collassa e che il soggetto cade fuori da questa scena trovandosi chiuso, confinato, isolato nel 'proprio mondo'" (p. 14). Durante il tragitto in macchina, Jake dice alla compagna che viaggiare è importante perché gli ricorda che il mondo è più grande della sua testa. Quasi tutti i personaggi creati da Charlie Kaufman sono infatti bloccati dentro la loro testa e questo confinamento ha rappresentato da sempre il punto di forza e il limite (soprattutto per i detrattori) del linguaggio codificato dall’autore nel corso di più di vent'anni tra sceneggiature poi realizzate da terzi e la sua finora non prolifica carriera di regista.

Nell'ultima parte del film, si comprende come il vero enunciatore non sia Lucy e nemmeno Jake, bensì l'anziano bidello della scuola superiore le cui attività quotidiane interpuntano il viaggio dei due: l'indizio decisivo è inserito nell'incipit quando a un’inquadratura sulla ragazza che guarda in alto si raccorda quella dell'anziano, di spalle, affacciato alla finestra. Il linguaggio filmico non mente e salda un rapporto tra i due, ma rovesciato di segno rispetto alle aspettative: entrambi i giovani sono una proiezione fantasmatica corroborati dalle letture, dai sogni e dai rimpianti dell’anziano e in tal senso sono "l'ombra dell'oggetto perduto che cade sull'Io", un'assenza che per il soggetto melanconico "resta sempre presente sebbene nella forma paradossale della sua assenza" (p. 17). Lo psicanalista Massimo Recalcati scrive che nell'universo melanconico "l'assenza dell'oggetto diviene una forma assillante di presenza; è così una assenza che, essendo sempre presente, sostituisce la presenza stessa. È quello che un mio paziente traduce efficacemente quando, parlando di un suo vecchio amore non dimenticato, afferma di sentirsi come 'ingombrato dalla perdita'" (p. 25). In questo delirio melanconico, il protagonista crea un universo parallelo col quale interagisce, dopo che la protagonista (l'ideal-tipo Lucy) si è emancipata rispetto al ruolo assegnatole: anche nello spazio della fantasia, Jake non può che venire scartato, annichilito definitivamente da un orizzonte di non-senso che lo esclude dalla Cosa. Nei finali che si sovrappongono in modo un po' ridondante si decifra il simbolismo dietro la scelta del musical "Oklahoma!", intertesto utile per la catarsi di Jake che avviene in quella dissolvenza in blue, in quello stato interiore e saturnino, che l'ha inderogabilmente espulso dal mondo.

 

Nota

Le citazioni sono tratte da M. Recalcati, Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019.


13/09/2020

Cast e credits

cast:
Jessie Buckley, Jesse Plemons, Toni Collette, David Thewlis, Guy Boyd


regia:
Charlie Kaufman


titolo originale:
I'm Thinking of Ending Things


distribuzione:
Netflix


durata:
134'


produzione:
Likely Story - Projective Testing Service


sceneggiatura:
Charlie Kaufman


fotografia:
Łukasz Żal


scenografie:
Molly Hughes


montaggio:
Robert Frazen


costumi:
Melissa Toth


musiche:
Jay Wadley


Trama
La giovane Lucy viene portata dal fidanzato Jake a conoscere i genitori di lui, che abitano in una fattoria isolata. Durante il viaggio, Lucy rimugina tra sé la sua intenzione di "farla finita" e chiudere la sua stora con Jake. Arrivati a destinazione, nonostante il carattere aperto e cortese dei genitori di Jake, la permanenza di Lucy in casa loro assume dei tratti sempre più spiacevoli e inquietanti.