«È con cuore molto pesante che prendo la penna per scrivere queste parole, le ultime con le quali avrò mai più occasione di ricordare al mondo le straordinarie capacità che il mio amico Sherlock Holmes possedeva.»
Così si apriva nel 1893 il racconto “L'ultima avventura”, con cui un esausto Arthur Conan Doyle tentava invano di disfarsi definitivamente di Sherlock Holmes, la sua creatura letteraria più famosa.
E attingendo ampiamente da questo racconto, nello stesso modo prende avvio “Sherlock Holmes - Gioco di ombre”, secondo capitolo del
recente franchise hollywoodiano di successo dedicato al personaggio, lasciato nelle mani affidabili ma non troppo di Guy Ritchie.
John Watson, accorato e un po' commosso, finalmente sposato, avvolto nel placido tepore della vita coniugale, mette mano alla macchina da scrivere per raccontare la fine del suo compagno di investigazioni, e con questo pretesto ci trascina in un lungo flashback che copre tutta la durata del film.
Dopo aver messo in relazione una serie di omicidi apparentemente scollegati, Sherlock Holmes scopre che dietro un'inestricabile ragnatela di orchestrazioni delittuose si cela la mente criminale più geniale del suo tempo: il professor James Moriarty. La vicenda segue i due personaggi Holmes e Moriarty, legati a doppio filo, l'uno impegnato a piegare l'altro e a liberarsene definitivamente, sullo sfondo di un'ambientazione costantemente mutevole, dall'Inghilterra alla Svizzera, fino al raggiungimento di uno stallo e alla caduta (anche simbolica) dei due avversari nelle cascate Reichenbach.
Se la storia di Doyle a cui il film si ispira era una delle migliori del “Canone”, anche per il finale tragico di cui era vittima il celebre detective di Baker street, la pellicola di Ritchie è invece una raccolta di falle malcelate e gravi carenze da attribuire in primis senza ombra di dubbio alla sceneggiatura.
Sceneggiatura stesa dagli sconosciuti e inesperti coniugi Mulroney, che costringono Ritchie a muoversi su un terreno instabile, pieno di punti oscuri, conclusioni affrettate e vuoti narrativi che il regista inglese riempie come meglio può e come meglio sa fare: spingendo al massimo sul pedale dell'azione a scapito dell'investigazione, fino a un punto di non ritorno in cui ci si ritrova ad avere troppo di Bond e troppo poco di Holmes. Una situazione di squilibrio tra azione e stasi che già si intravedeva nel primo capitolo, che raggiunge qui il massimo compimento e che fa poco ben sperare per il terzo (e ultimo?) film della serie.
Mentre nel precedente capitolo qualcosa delle brillanti deduzioni di Holmes si era salvato, “Gioco di ombre” con molta probabilità segna per questa saga la fine dell'Holmes letterario, che sparisce completamente o quasi: il “metodo Holmes”, i succulenti ragionamenti sulla cui brillantezza ed eccentricità si basavano i racconti di Doyle, vengono inseriti frettolosamente e in extremis per fare in modo che tutti i conti possano forzatamente tornare.
Privato così della soddisfazione intellettuale di poter vedere il bandolo della matassa dipanarsi sui ragionamenti del detective di Baker street, allo spettatore non restano che le briciole delle conclusioni, affrettate, povere, insipide. E subito l'azione si sposta verso un nuovo botto, una nuova sparatoria, un nuovo inseguimento, o qualsiasi altra trovata buona a far salire adrenalina nel sangue.
Robert Downey Jr. e Jude Law, rispettivamente nei panni di Holmes e Watson, sono come al solito chimicamente impeccabili, divertono e si divertono, sostenuti da un entourage di attori forse non sempre all'altezza: se Stephen Fry nei panni di Mycroft Holmes, fratello tanto geniale quanto pigro di Sherlock, stupisce per l'efficacia comica (e per la somiglianza con Oscar Wilde), al contrario Jared Harris nella parte di Moriarty è poco convinto, dando comunque del suo meglio per modellare un personaggio talmente mal costruito da rendere lo spettatore perplesso su come possa essere proprio quello il megalomane genio del male di cui parla Holmes, e facendo rimpiangere più volte il Mark Strong/Lord Blackwood del primo capitolo.
Rachel McAdams, ottima qui come nel precedente capitolo, è confinata purtroppo a una breve comparsata, Kelly Reilly porta un modesto ma piacevole contributo comico alla storia, mentre la zingara Noomi Rapace è vuota, inespressiva, e pur dovendo interpretare un personaggio fondamentale si riduce ad essere una fastidiosa zavorra per gran parte della sua presenza in scena.
Belle le ricostruzioni storiche condite da vaghi sapori steampunk, buona la colonna sonora di Zimmer nonostante una triste e insistente tendenza a riciclarsi.
Degna di nota la scena della fuga nel bosco dove l'uso a tratti esasperato del ralenti e di un montaggio frenetico à la Ritchie creano diversi momenti di pathos e di evidente ricerca estetica.
Collezione annoiata di una catena interminabile di scene d'azione, “Sherlock Holmes - Gioco di ombre” non regge il confronto con il precedente capitolo e nonostante si risollevi verso il finale (con una conclusione un po' raffazzonata ma non banale, che mette un esplicito punto di domanda alla parola fine e introduce il capitolo successivo) resta un buono ma misero
blockbuster, in cui si esaspera la buffoneria fino a farla diventare buffonata, verso un modo di fare cinema che è sempre più videogame e sempre meno cinema.