A due anni di distanza dal deludente
"Io, loro e Lara", Carlo Verdone torna con una commedia più brillante e ispirata, sempre con un occhio all'attualità e venata dalla solita malinconia, che però ultimamente si fa più melensa, a tratti indigesta. E infatti anche in questo contesto di padri separati e single più o meno attenti, più o meno presenti, e di figli più saggi dei genitori, su questo sfondo di un presente di difficoltà economiche, la retorica si trova sempre dietro l'angolo e la sceneggiatura non riesce a evitare soluzioni semplicistiche. C'è il rischio che il precariato, sempre più usato come pretesto narrativo, si appiattisca sullo sfondo, e che l'insistenza nel voler fotografare situazioni d'attualità e rapporti genitori-figli, una costante del cinema di Verdone, da elemento originale si trasformi in freno, dato che i momenti che funzionano maggiormente sono quelli più comici, disimpegnati e di situazione della prima parte.
Ulisse, ex-produttore discografico, gestisce ora un negozio di vinili e, per necessità, condivide un appartamento con Fulvio, critico cinematografico retrocesso alla cronaca rosa, e Domenico, cialtrone inaffidabile e libertino. Le premesse per spunti e situazioni comiche ci sono tutti e sono sfruttati, soprattutto quelli legati alla convivenza, alla mancanza di denaro e alla diversità caratteriale. Peccato poi che si scivoli in quei contesti genitori-figli sul sentimentale andante e poco convincenti. Le dinamiche più piacevoli sono nei primi tre quarti del film, prima che l'intreccio si impantani e si focalizzi sul rapporto tra Ulisse e la figlia e il senso di responsabilità, e concluda frettolosamente con gli altri due personaggi costretti a una sorta di contrappasso con ipotesi di riconciliazioni. Rispetto al personaggio del prete, per quanto Verdone vi fosse affezionato, quello dell'esperto musicale sembra calzargli meglio. Già in passato i suoi film avevano avuto a che fare con la musica ("Sono pazzo di Iris Blond", "Maledetto il giorno che t'ho incontrato"), sempre considerata attentamente, che qui spazia dai
Doors agli affezionati Stadio (insomma spazia un po' troppo).
Un piacere vedere di nuovo assieme dopo
"ACAB" Giallini e Favino, quest'ultimo tra gli attori italiani più in forma. Metamorfosi da personaggi fascistoidi e violenti, per interpretare l'uno il classico filibustiere pieno di donne e che cerca la fortuna col gioco d'azzardo, l'altro l'intellettuale impacciato, entrambi con debiti verso la commedia degli anni Sessanta. Ma la sorpresa migliore la riserva Micaela Ramazzotti
à-la Monica Vitti, con un personaggio disastrato sentimentalmente, fragile, fortemente emotiva, capace di passare dall'euforia al pianto, tipico nella galleria di donne del cinema di Verdone e tra i più riusciti.
Alternando film più memorabili ad altri meno brillanti, più ricercati a nazional-popolari, comici e malinconici, Verdone ha attraversato i decenni passati con più originalità di quanto non riesca a fare ultimamente, per quanto "Posti in piedi in paradiso" sia divertente e brioso. Ritroviamo il meglio del regista romano quando asseconda i pazzi con cui ha a che fare, quando li manda a quel paese in modo liberatorio, quando si lascia andare ai commenti più caustici, quando gioca con malattie e acciacchi, quando rovina i momenti intimi trasformandoli in imbarazzanti e quando indovina le gag più riuscite (in particolare la sequenza della rapina). Poco in forma invece quando si tratta di immergersi nella malinconica fragilità e umanità dei personaggi che negli ultimi film sembra sempre un po' scadere nel patetico, e la mancanza delle penne di Benvenuti e De Bernardi si fa sentire. La regia riposa su soluzioni un po' facili e teatrali, non cerca strade alternative a voci fuori campo e orribili dissolvenze in stile Premiere per introdurre i flashback dei personaggi nella prima parte. E anche questo è un rammarico per un regista che aveva osato di più.