Ondacinema

recensione di Pietro S. Calò
8.0/10
Tokita, uno scienziato grasso, bulimico e geniale, ha inventato la DC-Mini, una macchina in grado di entrare nei sogni e dirigerli a scopo terapeutico: aggiustando quelli sarà possibile riequilibrare la psiche umana, gravata che sia da una semplice nevrosi o da una grave psicopatologia. La scoperta, però, ha attirato gentaglia senza scrupoli, più propensa al terrorismo che all’umano benessere. Una DC-Mini, infatti, è stata rubata.

Ultimo lungometraggio di Satoshi Kon che perfeziona una personale ossessione piegata a stilema, fin da "Magnetic Rose", il primo dei tre episodi del film collettivo "Memories" (supervisionato da Otomo Katsushiro, 1995) di cui scrisse la sceneggiatura messa in scena da Morimoto Koji, passando per il suo esordio, "Perfect Blue" (1997) e non dimenticando né "Millennium Actress" (2001) né quel capolavoro che è la serie animata "Paranoia Agent" (2004).

La mente. Le sue manifestazioni, quantitativamente e qualitativamente risibili, nella vita reale, i suoi meccanismi imperscrutabili e non ultimo la sola vaga idea di quanto e come riesca a imbrigliarla l’arte e in special modo quella che chiamiamo "l’industria del sogno", il cinema appunto.
Satoshi Kon affronta un pre-testo, il romanzo omonimo da cui "Paprika" nasce, scritto da Tsutsui Yasutaka che in tanti, ancora oggi, avevano e hanno provato a mettere in scena, senza risultato.

Tokyo, tempo presente. Vita, architettura e tecnologia sembrano quelle dei nostri giorni, salvo la DC-Mini che la bella dottoressa Chiba, algida e professionale, sta usando in via sperimentale sulle nevrosi del detective Kogawa, un paterno capitano di polizia alle prese con un difficile caso d’omicidio e che soffre di un trauma legato a un’antica amicizia spezzata. La DC-Mini, che riesce anche a registrare i sogni per poterli rivedere e analizzare, proietta sullo schermo il mondo interiore dell’uomo che, senza alcuna logica causale, è un libero raccordo di film inaccostabili e che si chiudono sempre con un uomo a terra, ucciso.
Questo rappresenta di sicuro il suo caso insoluto, ma nell’oscuro lavorio della psiche è anche il suo trauma, totalmente slegato dal caso. Nel "film a episodi" il capitano è coadiuvato da Paprika, una frizzante teen-ager allo stesso tempo strumento della DC-Mini e alter-ego della dottoressa Chiba. Insomma: una matassa quasi impossibile da sbrogliare poiché, come appare chiaro già dalla messa a nudo di un uomo tutto sommato solido, equilibrato e semplice, afflitto da una nevrosi neanche grave, cosa può succedere se si allargasse il meccanismo a psicologie più complesse, devianti e che addirittura possano interagire tra loro? In effetti, il soggetto del film è proprio questo, una storia in cui la parola "Fine" risulterà assolutamente arbitraria, insoddisfacente, una sorta di resa a ciò che è più grande di noi. La questione del sogno, infatti, è la sua onnipotenza. La realtà, con le sue logiche, scopi, economia, utilità, principi di conservazione e linearità è al confronto una povera cosa, la casa del limite umano-troppo umano. Il sogno non ha soluzioni di continuità, virtualmente infinito, digiuno dei concetti di forza e morte, totalmente a-lineare; esso utilizza la realtà come uno dei suoi infiniti strumenti, e neanche il più potente; non conosce la rassicurazione delle traiettorie, dei climax, non cede alle regole del raccordo e del montaggio, mescola realtà e possibilità, passato e presente, paure e aspettative. In ultimo non si fa problema a giocare sporco, ad attaccare l’umano con le patologie che lui stesso ha categorizzato: l’Edipo, il dualismo, la metamorfosi, la sessualità.

Ognuno degli oggetti appena listati nel film ci sono, tutti. E agiscono. "Paprika" è un pan-focus, i suoi quadri sono saturi di oggetti e dettagli tutti a fuoco. La storia è raccontata come un blockbuster ma la sua struttura e messa in relazione è totalmente sperimentale, così come, spiega la dottoressa Chiba il sonno duro e quello morbido generano diverse qualità di immagini-sogno. Tutto è utile e immanente. e alla sua base c’è un prigioniero: un uomo dalle gambe paralizzate che ha un solo, modesto sogno, quello di poter tornare a camminare, così come un corpo obeso in una testa geniale sogna di poter amare.
Così, in un contesto di totale produttività, i fondali di "Paprika" sono veri e propri quadri di pop-art, brillanti e rutilanti, curati fin nel dettaglio più insignificante. In una storia in cui ciascuno è protagonista e può assumere maschere e dimensioni a suo piacimento, spiccano i movimenti della cinepresa, le panoramiche vorticose in CGI, i plongée abissali, morbidi e vertiginosi. Una bambola che supera le dimensioni di un grattacielo è un mecha che sembra combattere gli alieni invasori mentre un mecha che con un monitor in testa proietta un volto obeso si incastra goffamente in un palazzo come Tokita tra le porte dell’ascensore e, in effetti, sono la stessa persona, in un raccordo falso, che ha abolito la logica.

Naturalmente, a dare man forte, interviene massicciamente il citazionismo cinematografico: il domicilio di Himuro, l’assistente omosessuale di Tokita, è un casa di bambole come quelle di "Blade Runner", e le bambole che lo salutano al suo arrivo sono le sue creature, le sue amiche e il transfert sessuale sotteso, tutto traslato in realtà dopo aver abolito il limite tra il conscio e l’inconscio. La porta d’ingresso alla terapia del poliziotto è un bar che molto ricorda quello dell’Overlook Hotel di "Shining" con la sola differenza che i baristi sono adesso due e rappresentano Satoshi (il regista), quello più alto, e Tsutsui (lo scrittore), quello più largo. Anche la scena del crimine si svolge sulla moquette rossa di un Overlook Hotel, denso di porte chiuse e tabù. Gli ingressi e le intrusioni nei sogni altrui, fino all’obiettivo terroristico del "sogno collettivo", riportano sia a "The Matrix" (Wachowski Bros, 1999) sia al suo ispiratore "Ghost in the Shell" cui "Paprika" rimanda anche per la tematica del guscio (shell), l’inconscio da cui si accede per immersione attraverso la zona pubica, sia per la rutilante parata di rane suonatrici, frigoriferi e ombrelli che richiama irresistibilmente la sfilata di "Ghost in the Shell 2 – Inosensu" con la sola differenza che questa è la rappresentazione estetica di un Ordine, aberrante ma comunque operativo e uniformatore, mentre la parata di "Paprika" porta alla morte. I film che compongono il pur modesto inconscio del capitano trovano la loro logica nella loro successione illogica, dal genere fantastico all’avventura passando, attraverso il noir, al sentimentale da cui riconosciamo "Il più grande spettacolo del mondo" (C. B. De Mille, 1952), "Tarzan" (W. S. Van Dyke, 1932), "Vacanze romane" (W. Wyler, 1953).

E infine Paprika. Diciamo infine perché tutto ciò che non comprendiamo siamo soliti assegnarlo o a una questione di Fede, Dio, o a una questione di Speranza, l’Amore.
Paprika è quell’oscuro oggetto del desiderio che il genio di Bunuel scisse in Angela Molina e Carole Bouquet, così simili alle nostre Chiba/Paprika: algida o passionale, pura personificazione del terrore che non siamo disposti a tollerare, Satoshi decide, motu proprio, che una consolazione è necessaria.
E così abbiamo anche un lieto fine.

13/12/2017

Cast e credits

regia:
Satoshi Kon


titolo originale:
Papurika


distribuzione:
Sony Pictures Classics


durata:
90'


produzione:
Madhouse


sceneggiatura:
Seishi Minakami, Satoshi Kon


fotografia:
Michiya Katou


montaggio:
Takeshi Seyama


musiche:
Susumu Hirasawa


Trama
Tokita ha inventato la DC-Mini, una macchina in grado di entrare nei sogni e dirigerli a scopo terapeutico. Una DC-Mini, però, è stata rubata...