Ondacinema

recensione di Alessio Cossu
6.5/10

Cosa succede quando uno è costretto in una situazione disperata? Le situazioni disperate spingono ad azioni disperate, e queste possono portare alla morte. Potrebbe essere questo l’interrogativo e la risposta che sintetizzano la logica alla base di "Metro Manila", il film proposto in chiave retrospettiva in occasione del Far East Film Festival 24 di Udine. A quasi dieci anni dalla sua uscita, il lavoro del cineasta filippino Sean Ellis resiste dignitosamente al trascorrere del tempo grazie ai pregi ideativi e realizzativi.

Inserito in cartellone allo scopo di fornire una delle chiavi interpretative della rappresentazione cinematografica in diacronia della capitale filippina, esso deve sicuramente il suo valore alla riuscita contaminazione tra due generi ben distinti, ovvero il cinema d’immigrazione e il thriller poliziesco, che qui appaiono armonicamente fusi a restituirci un quadro vivido e soprattutto più complessivo, meno stantio e settoriale della società filippina. Mentre "Manila by Night" (1980) circoscrive il suo sguardo sull’universo dei bassifondi notturni della città e "Slingshot" (2007) letteralmente ritaglia il set all’interno della smisurata baraccopoli di Quiapo, la pellicola di Ellis ha un’impostazione più orizzontale e spazia sia nel senso urbanistico che in quello temporale e sociale. La metropoli che dà il nome al film non è un mero sfondo bensì un organismo vitale che pulsa a un ritmo differente a mano a mano che ne attraversiamo gli strati sociali, che il regista ne rappresenta l’etnologia. Il titolo stesso del film è indicativo: la storia di Oscar Ramirez (Jake Macapagal) e sua moglie (Althea Vega) diventano solo un pretesto per tuffarci nelle contraddizioni delle società del cosiddetto terzomondo, caratterizzate da ex contadini che vedono nell’inurbamento una prospettiva. È un invito del regista a mantenere uno sguardo complessivo sul fenomeno, con tanto di cause ed effetti.

Qui vi sono, almeno apparentemente, due livelli sociali: coloro i quali, come Oscar, aspirano al benessere, e quelli come Ong che ce l’hanno fatta, sono socialmente arrivati. "Metro Manila", per circa un’ora del suo metraggio, rientra nei canoni del cinema d’emigrazione ampiamente affermatisi già con le pellicole di Lino Brocka, quali "Manila in the Claws of Light" (1975) o che si ritrovano anche al di fuori delle Filippine, come in "City Lights" (2014), dell'indiano Hansal Mehta. Tutti film che ruotano cioè intorno alle vicende di un contadino, in questo caso con la famiglia al seguito, che tenta di trapiantarsi in città ritrovandosi di fatto in situazioni ben peggiori di quelle che si è lasciato alle spalle. Fanno dunque parte dei clichè iniziali lo sfruttamento sul posto di lavoro, la mancanza di un alloggio stabile e confortevole, l’impossibilità di poter pianificare il proprio futuro. La tensione narrativa va di pari passo con lo sforzo, silenzioso ma epico, fatto più di gesti che di parole, di assicurare un’esistenza onesta per sé e i propri cari. Fatti i dovuti distinguo per come viene presentata la figura femminile e il contesto storico dal quale sono scaturiti, se si prende come pietra di paragone l’immagine della città appetibile ma ingannevole, ricca di opportunità ma allo stesso tempo insicura, sono diversi i noir anche classici che possono essere accostati al film di Ellis: Oscar ricorda le traversie dei protagonisti di "Contrabbando di esseri umani" (1951), "The Rat from Soho" (1950), o "In the Shadow of the Night" (1948).

Mentre, dopo alterne vicende, il protagonista di Metromanila riesce fortunosamente a essere assunto in un’agenzia di trasporto blindato di valori, la moglie Mai, non trovando di meglio, è viceversa costretta ad accettare un lavoro come hostess in un bar. Le due linee narrative, apparentemente divergenti giacchè il nucleo familiare, pur senza scossoni di carattere sentimentale, sembra dipartirsi in altrettante direzioni e perdere di vista l’agognata meta della piena felicità, ci mostrano alternativamente la piena integrazione lavorativa e sociale di Oscar e l’umiliazione di Mai. La divaricazione delle due linee è massima quando egli a tal punto sembra essersi guadagnato la fiducia del suo superiore da ottenere addirittura una sistemazione abitativa degna di questo nome, mentre a Mai viene chiesto di far prostituire la figlia, una bambina di non più di nove anni. Questa prima parte del film ha l’evidente scopo di far solidarizzare il pubblico con i due protagonisti riscuotendo l’empatia necessaria prima delle peripezie che complicheranno la trama.

Nella seconda parte emerge che Ong (John Arcilla), il superiore diretto di Oscar, ha in realtà intenzione di dare anch'egli una svolta alla propria vita appropriandosi del contenuto di una cassetta che, nel corso di una rapina al furgone portavalori sul quale prestava servizio, era stata abbandonata dai malviventi. Eppure non è ancora questo il twist, l’imprevisto decisivo. Il film ha fin qui i connotati del realismo sociale, quello che denuda le chimere che i protagonisti inseguono, quello che denuncia una società fatta di persone senza scrupoli e di ipocrisie sulle quali si infrangono le prospettive di ascesa sociale. È l’homo homini lupus di Hobbes quello che qui ulula impietosamente, è un darwinismo sociale quello cui anche Oscar e Mia finiscono per cedere. Dal punto di vista narratologico, il vero elemento di svolta, tuttavia, quello che dopo un deragliamento porterà la trama sui binari del realismo questa volta classico è il twist inscenato da Oscar. Mai tanto lontano dai canoni del cinema d’immigrazione e mai tanto vicino a quelli del thriller poliziesco, il protagonista riesce ad assicurare alla moglie e ai figli un futuro dignitoso. Si può sostenere che sul finale ingegnoso aleggiano, è proprio il caso di dire, "Le ali della libertà" di Frank Darabont (1994).

Gli aspetti scenografici sono ben curati; data la funzione evocativa degli ambienti esterni, è anche su di essi che si è concentrata la scrittura del testo filmico. Manila è un ingorgo di macchine, risciò, treni, ma anche un groviglio di aspirazioni frustrate, di capricci insoddisfatti, di perenni contraddizioni. Dal punto di vista della sceneggiatura, invece, pecca evidente del film è una rappresentazione forse un po' troppo oleografica e manichea dei protagonisti, soprattutto nella prima parte. Mentre il caldo umido è iconicamente rappresentato sui volti e sugli abiti di più personaggi, del calore umano non vi è traccia se non in Oscar e Mai. La fotografia è all’altezza della narrazione: l’illuminazione al neon, artificiale all’interno della sede lavorativa del protagonista trasmette freddezza tanto efficacemente quanto quella naturale dei campi, in apertura del film, contraddistingue la bellezza di un mondo lasciato per sempre. Per quanto riguarda le inquadrature, quelle migliori sono dedicate ai protagonisti sotto la doccia, quelle più cariche di tensione coincidono con il rallenti dei due flashback su Alfred Santos, velleitario rapinatore e solitario dirottatore d’aereo, e con i primissimi piani sul volto di Ong all’interno del furgone blindato. Metro Manila è stato presentato al Sundance Film Festival nell'anno della sua realizzazione ed è stato accolto con successo ottenendo il World Cinema Dramatic Audience Award.


06/05/2022

Cast e credits

cast:
Jake Macapagal, John Arcilla, Althea Vega, Erin Panlilio, Iasha Aceio, Mailes Kanapi, JM Rodriguez, Ana Abad Santos, Moises Magisa, Reuben Uy


regia:
Sean Ellis


titolo originale:
Metro Manila


distribuzione:
A-Film Distribution


durata:
114'


produzione:
Chocolate Frog Films


sceneggiatura:
Sean Ellis, Frank E. Flowers


fotografia:
Sean Ellis


montaggio:
Richard Mettler


musiche:
Robin Foster


Trama
Oscar Ramirez, contadino impoverito delle Filippine, si trasferisce con la moglie Mai e la famiglia a Manila sperando così di migliorare le proprie condizioni. La capitale si rivela tuttavia una giungla d'asfalto, tanto che Mai è indotta a lavori umilianti e la famiglia non si può permettere un'abitazione dignitosa. Oscar sembra essere stato preso in simpatia da Ong, una guardia giurata diffidente ma anche sicura di sè, che gli permette di diventare un suo collega. Ma ben presto si scoprirà che la generosità di Ong non è così disinteressata...