Ondacinema

recensione di Matteo Zucchi
8.0/10

Memoria


"Col mio spagnolo?"

"Il tuo spagnolo è perfetto per la poesia"
Dal film

Ex tenebras lūx. O meglio, ex tenebras sonus. Con una usuale inquadratura statica, stavolta non riempita dai colori e dai rumori della giungla ma silenziosa e oscura, inizia il nuovo film del più grande regista thailandese, il ritorno di Apichatpong Weerasethakul al lungometraggio dopo sei anni comunque pieni di film collettivi, cortometraggi e installazioni, nonché sua prima produzione realizzata all’estero. In un contesto così complesso, e carico di aspettative, il cineasta thai presenta fin da subito uno dei principali nuclei tematici della pellicola, l’elemento sonoro, incarnato dal suono misterioso che rompe la preesistente quiete notturna, la cui natura non è mai completamente comprensibile e il cui tentativo di decodifica muove le peregrinazioni della protagonista interpretata da Tilda Swinton per quasi tutta la durata del film. Questo suono indefinito, che pare "venire dalle profondità della terra", diventa facilmente immagine dell’elemento sensibile che sfugge però dalla comprensione diretta e definente della visione (come i momenti finali della pellicola paiono ribadire), e quindi all’interpretazione e alla catalogazione, un tema da sempre centrale nel cinema di Weerasethakul. Il resto della pellicola rimarca questa centralità del sonoro, costruendo un soundscape stratificato forse più che mai, considerando il contesto urbano a cui il regista thai non tornava da un decennio: negli statici long take che sono l’altro pilastro estetico della sua produzione fin dagli esordi, il sonoro ha la funzione di esaltare la differenza delle immagini in modo da renderle vivide come una metropoli sudamericana o una vasta foresta tropicale.


Fig. 1: "Ears Wide Shut" e la (in)visibilità (della centralità) del suono

Il suono non è quindi solo il motore narrativo della pellicola ma ne diviene uno dei fondamenti discorsivi, venendo tematizzato esplicitamente nella parentesi dell’incontro fra la protagonista e il tecnico del suono Hernàn. In questa sequenza la ricostruzione del suono misterioso si trasforma in uno sfoggio di strumenti e tecnologie coerente con l’approccio para-documentario del cineasta thai, rimarcando inoltre la centralità dell’elemento metalinguistico nella sua produzione, un cinema in cui l’utilizzo della tecnica, e l’esplicazione del suo funzionamento, aiuta a (tras)porla oltre i suoi limiti. Un’ulteriore sottolineatura della centralità del sonoro si presenta quasi esattamente a metà della pellicola nella forma di una breve, serendipica, parentesi di un’esibizione musicale, unica concessione alla musica in un film praticamente privo di OST (fig. 1). E non a caso, verso la fine di "Memoria", il tentativo di comprensione del suono si riflette e sostanzia attraverso lo sviluppo della vera capacità di ascoltare da parte della protagonista Jessica, assecondando l’emergere del paranormale (meglio, sovrannaturale) nella quotidianità che è uno degli elementi tipici del cinema di Weerasethakul.

Risulta chiaro (cosa molto rara quando si parla del cinema del thailandese) a questo punto quanto "Memoria" sia un film perfettamente inserito nella produzione di Weerasethakul, fugando i dubbi di chi pensava che la sua trasferta all’estero potesse trasformarsi in un altro esempio di loffio cinema d’autore turistico, o "in vacanza", come accaduto in anni recenti a Kore-eda Hirokazu e Asghar Fahradi. Infatti, nonostante la presenza di una celebre attrice protagonista, la suadente location straniera, l’adozione di uno scontato multilinguismo per quanto riguarda il cast e l’apparente maggiore adesione alle strutture del cinema narrativo, l’ultima opera del regista dell’Isan si rivela progressivamente una sorta di bignami del cinema di Weerasethakul, che dimostra ancora una volta una coerenza, nella sua ricchezza di sfaccettature e forme, che ha pochi eguali nel cinema contemporaneo. La recitazione compassata di Tilda Swinton, così come il suo apparente impaccio con la cultura e la lingua della Colombia, diviene quindi un dispositivo retorico nelle mani del regista, un’immagine della stolidità del suo cinema e della sua capacità di adattarsi a contesti molto differenti senza mai conformarsi ai cliché cinematografici o alle aspettative del proprio pubblico. Così "Memoria" dà una considerazione senza precedenti al proprio spunto narrativo mistery, alla propria protagonista e alla presenza di diverse linee narrative, incarnate dalle varie persone con cui Jessica si confronta nella sua ondivaga quête, per poi immergere ancora una volta il tutto nell’apparente immobilità di una foresta tropicale.


Fig. 2: doppelgänger ed echi nel cinema di Apichatpong Weerasethakul

Il viaggio della protagonista verso la regione rurale in cui la sua nuova amica antropologa forense sta facendo studi sui ritrovamenti di vittime sacrificali di un tempo lontano rappresenta difatti la più netta evoluzione della pellicola, quasi come se il ritorno di Apichatpong Weerasethakul a foreste pluviali così simili a quelle in cui ha ambientato quasi tutti i suoi film, e in cui ha trascorso buona parte della sua infanzia, permettesse a "Memoria", così come alla sua protagonista, di (ri)trovare una nuova identità. E allora il verde riempie progressivamente lo spazio dell’inquadratura, i suoni della foresta (e gli echi del passato) divengono il contenuto principale della colonna sonora e la durata dei campi lunghi e campi medi che compongono l’apparentemente elementare grammatica registica del cinema di Weerasethakul si dilata sempre di più, culminando nella sequenza dell’incontro, anche stavolta rivelatorio per Jessica, con Hernàn, o meglio con l’altro Hernàn. D’altronde, se quello del regista thai è in primo luogo un cinema di doppi e rispecchiamenti che negano il principio di identità e così la stessa logica che anima la maggior parte del cinema narrativo (e non solo) "sospendendo l’evidenza del quotidiano e riempiendo il momento con la gioia della speculazione"[1], "Memoria" non ha niente da invidiare a pellicole come "Tropical Malady" o "Syndromes and a Century" che hanno fatto della bipartizione narrativa e del rispecchiamento di caratteri il centro del loro apparato discorsivo (fig. 2). Ne rappresenta semmai l’adesione a una narrazione lineare, in maniera forse ancora più compiuta e ambiziosa rispetto a "Cemetery of Splendour".

Un ulteriore rispecchiamento fra le due parti di "Memoria", e fra i suoi protagonisti, è il tema della malattia/ano(r)malità e della sua percezione e, soprattutto, interpretazione, essendo d’altronde un’altra delle tematiche centrali nel cinema di Weerasethakul. Se "quasi tutto il suo lavoro allude a fisicità non-normate e agli interstizi sociali in gioco attorno a queste incarnazioni nei contesti etici, politici e sociali"[2], nel suo ultimo film è Jessica a incarnare la percezione non-normata, il suo sentire suoni che apparentemente non esistono, una condizione che sfugge sia a tentativi di spiegazione pragmatica sia medico-scientifica, similmente a come Hernàn ha la facoltà di ricordare quasi tutto, a discapito della possibilità di sognare (in maniera opposta ai soldati del film del 2015). Come già avveniva ne "Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti" è la malattia a muovere la narrazione e a favorire la miglior comprensione di sé, e del proprio posto nel mondo, da parte dei protagonisti, i quali si trovano così a vivere, e perciò a incarnare, la stessa ricerca di un senso dei confusi spettatori, che si trasforma implacabilmente nell’immersione in una realtà alt(e)ra(ta). Riconfigurando l’anormalità/malattia come quasi un’estensione della percezione, e della propria essenza, non a caso resa nella pellicola con la metafora dell’antenna e dell’hard disk, Weerasethakul riflette ancora una volta sul cinema e sul "gioco fra ‘abilità’ e ‘disabilità’ [della percezione] come la condizione malsana che rende il cinema possibile"[3].


Fig. 3: contemplazione e assenza di visione nel finale di "Memoria"

E quando Jessica ha compreso la ragione di quel suono ctonio e misterioso, avendo capito l’impossibilità di definirne la natura, allo spettatore è dato di poterne vedere l’origine con una delle cose più vicine a un colpo di scena che si sia mai vista nel cinema di Weerasethakul, un’imprevista nota fantascientifica che pone ancora una volta il suo opus nell’ambito di quell’"alter-realismo" che "non è limitato alla realtà che esiste effettivamente, ma che piuttosto contribuisce a inondare, a riempire, la realtà partendo dai suoi margini"[4]. Ma questa visione è concessa agli spettatori soltanto, rispecchiandosi a partire da quel momento nella negazione della visione dei personaggi in scena, inquadrati sempre di spalle, intenti a contemplare non si sa cosa, ennesime incarnazioni di quella ricerca di senso di cui tutti i corpi del cinema di Weerasethakul sono avatar (fig. 3), e andando così a produrre un’ulteriore rispecchiamento con gli occhi sgranati a fissare il nulla di Jen nell’epilogo di "Cemetery of Splendour" (ovviamente in quell’occasione a favore di macchina). Anche all’interno di una pellicola meno radicale ed eccentrica rispetto ai capolavori precedenti del regista thai, Apichatpong Weerasethakul continua a imbastire la stessa, sempre differente, polifonia di sguardi, rispecchiamenti ed echi da oltre vent’anni, rendendo possibile un cinema sempre "ospitale, aperto a una molteplicità di esseri e strutturato attorno a situazioni di paziente ascolto"[5]. Un cinema che, come nel silenzio e nell’immobilità che introducono "Memoria", colpisce dal nulla come un’eco che proviene dagli abissi della Terra per poi tornare nel reame informe della potenzialità, senza fare prigionieri.



[1] T. Pape, "The Vitality of Fabulation: Improvisation and Clichés in Mysterious Object at Noon and The Adventure of Iron Pussy", in Bordeleau, É., Pape, T., Ronald, R-A., Szymanski, A., Nocturnal Fabulations Ecology, Vitality and Opacity in the Cinema of Apichatpong Weerasethakul, London, Open Humanities Press, 2017, p. 21
[2] B. Bergen-Aurand, "The "Strange" Dis/ability Affects and Sexual Politics of Apichatpong Weerasethakul's Transient Bodies", in Cineaction, n. 96 (2015), p. 27
[3] Ivi, p. 30
[4] I. Marrero-Guillamón, "The Politics and Aesthetics of Non-Representation: Re-Imagining Ethnographic Cinema with Apichatpong Weerasethakul", in Antípoda. Revista de Antropología y Arqueología, n. 33 (2018), p. 29
[5] Ivi, p. 28


07/01/2023

Cast e credits

cast:
Tilda Swinton, Daniel Giménez Cacho, Agnes Brekke, Juan Pablo Urrego, Elkin Díaz, Jeanne Balibar, Constanza Gutierrez


regia:
Apichatpong Weerasethakul


distribuzione:
MUBI, Academy Two


durata:
136'


produzione:
Kick the Machine, Burning, Anna Sanders Films, Match Factory Productions, Piano, Xstream Pictures, i


sceneggiatura:
Apichatpong Weerasethakul


fotografia:
Sayombhu Mukdeeprom


scenografie:
Angélica Perea


montaggio:
Lee Chatametikool


costumi:
Catherine Rodríguez


musiche:
sound design: Akritchalerm Kalayanamitr


Trama
Tormentata da un suono che solo lei pare sentire, la scozzese espatriata in Colombia Jessica inizia un percorso che, parallelamente alle sue attività quotidiane, la spinge a immergersi nella vita del posto e a cercare di comprendere l'origine di quel misterioso suono.