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recensione di Giancarlo Usai

Guardati attorno: una volta era un deserto, e ora è un giardino. Non ne sei fiero?



Per capire davvero quanto "L'uomo che uccise Liberty Valance" sia un film fortemente voluto e sognato da John Ford, vale la pena partire dalla battaglia produttiva che il cineasta americano ingaggiò con la Paramount Pictures per ottenere che l'opera venisse realizzata in bianco e nero. Nella prima metà degli anni 60, infatti, il genere western hollywoodiano stava conoscendo un periodo di crisi di pubblico e la modernità di nuovi stili e filoni aveva portato a un rigetto da parte della grande industria. E se proprio western doveva essere, allora la produzione doveva ricalcare il piglio contemporaneo delle pellicole di successo del tempo e, quindi, di certo il colore risultava essere un elemento obbligatorio. Ford, a quasi settant'anni, con una carriera che ormai non aveva nulla da chiedere al cinema, insistette perché la pellicola fosse in bianco e nero. Già al momento di leggere sulla rivista "Cosmopolitan" il racconto di Dorothy M. Johnson da cui l'opera è tratta, egli aveva immaginato la realizzazione scenica attraverso un uso espressionista delle ombre, con una valenza fondamentale dell'alternanza luce/oscurità, al punto che la forma di rappresentazione visiva prescelta diventava essa stessa protagonista del lungometraggio, assumendo un ruolo fondamentale in chiave narrativa. Appassionato da sempre del contrasto, della valenza fortemente simbolica del buio anche nei film a colori del suo passato (si pensi alla celeberrima scena finale di "Sentieri selvaggi", dove l'interno della casa in cui Ethan Edwards non può/non vuole entrare è una cornice di nero che avvolge l'esterno sulla Valley), ne "L'uomo che uccise LIberty Valance" la sperimentazione registica di Ford diventa assoluta, in questo campo. L'oscurità, allora, amplificata dall'eccellente lavoro del direttore della fotografia William H. Clothier, diviene la quinta di questo teatro di posa che costituisce l'ambientazione del film, il non luogo da cui entra in scena il personaggio di John Wayne (Tom Doniphon) e in cui lo stesso si eclissa ogniqualvolta il suo compito si esaurisce davanti alla cinepresa. In uno scambio di battute fra Ransom Stoddard (James Stewart) e Liberty Valance (Lee Marvin), il ruolo del chiaroscuro viene addirittura esplicitato: il criminale chiede all'avvocato di uscire dal buio per affrontarlo; è un momento diegetico fondamentale, in cui la sceneggiatura supporta una sorta di manifesto programmatico delle scelte stilistiche e tecniche dell'autore.
Nella lunga relazione tra Ford e il cinema western, la pellicola del 1962 assume, com'è ormai noto a tutti, un valore di rottura. Definito come il ponte tra il classicismo degli anni d'oro e il filone revisionista che dominerà il decennio 1965-1975, "L'uomo che uccise Liberty Valance" ha fatto scrivere numerose pagine ai critici americani ed europei sul fatto che Ford, alle soglie della terza età, avesse riconosciuto che il suo modo di intendere il western fosse ormai superato, quasi come se l'opera in questione costituisse un rinnegamento di quanto fatto in precedenza e un tentativo di avvicinarsi a uno stile à la Sam Peckinpah, che nello stesso anno usciva, coincidenza piuttosto significativa, con un titolo come "Sfida nell'Alta Sierra", per molti motivi accostabili proprio al lungometraggio fordiano. Crepuscolare è l'aggettivo più utilizzato, ancora una volta, per significare della fine del Far West come veniva inteso tra gli anni 40 e gli anni 50, con quel carico di malinconica nostalgia e di pessimismo legato ai dubbi relativi all'avvento di una nuova civiltà. Altri hanno preferito utilizzare la definizione di western noir, che altro non sarebbe se non un concetto per descrivere l'incontro fra le ambientazioni tipiche della Frontiera occidentale e i toni (e, visto quanto esposto poco sopra, verrebbe da aggiungere anche le immagini) del genere letterario hard boiled. Sono, a parere di chi scrive, accostamenti e categorizzazioni fuorvianti. "L'uomo che uccise Liberty Valance" resta profondamente connesso, nei temi e nel linguaggio, a tutta l'esperienza western di Ford e se ne distanzia, semmai, nello spostamento focale dell'analisi politica e sociale. Un western realista, semmai, in cui il realismo è appunto una connotazione di natura intellettuale, più che cinematografica o storica.


Un grande storico, un fine osservatore politico

E di nuovo, come in "Furore", è fondamentale rileggere l'opera fordiana come profondamente in relazione con un ragionamento politico. Nonostante la superficialità di molti biografi, cui lo stesso Ford, per la verità, dava una mano autodefinendosi, semplicemente, un regista di western, la filmografia del maestro di Cape Elizabeth è densa di un'osservazione mai banale, mai rozza della Storia americana. "L'uomo che uccise Liberty Valance", che si regge completamente su un equivoco mai rivelato pubblicamente (ovvero l'identità di chi sia l'uomo che materialmente pone fine alla vita del bandito che terrorizza la città di Shinbone), è un film di contrapposizioni che giungono a un compromesso irrinunciabile. Per una prima parte di film, i due caratteri principali appaiono più stereotipati, marcatamente radicali nelle loro peculiarità; da una parte c'è Doniphon, pistolero duro e puro che insiste sul concetto che la giustizia dell'Est dalle parti della frontiera non può funzionare e che la violenza sia un elemento impossibile da sradicare e dall'altra Stoddard, con i suoi codici e le sue regole, convinto che, invece, anche all'Ovest il diritto possa e debba essere fatto valere allo stesso modo. Poi avviene una compenetrazione tra i due approcci, che si dipana gradualmente, senza mai esplodere in scene madri. Questo, appunto, grazie a una sceneggiatura e all'abilità di messa in scena di Ford, che dipinge un affresco tale per cui le posizioni oltranziste risultano entrambe perdenti. Tom, a quel punto, comprende che, pur faticando ad accettarlo per orgoglio virile e avversità naturale, le istanze portate a Shinbone da Ransom sono legittime, così come quest'ultimo arriva a giustificare la condotta apparentemente aggressiva di un uomo retto cresciuto in un ambiente ostile come il West senza legge. La nostalgia per lo spirito pionieristico dell'avanzata verso la costa occidentale, per il Ford ormai anziano, si confonde allora con la consapevolezza di un destino ineluttabile. E la consueta ammirazione per il valore dell'uomo coraggioso, altre volte male interpretata come fascinazione per l'uomo forte, è temperata dalla presa di coscienza che quel valore, da solo, non potrebbe resistere all'urto del tempo. Nella riflessione di Ford entra un ulteriore tema, praticamente tabù fino a quel momento, ovvero il concetto di proprietà privata, di confini, di limiti allo spazio: è su questo che si discute nel dibattito per la scelta del delegato al Congresso, sull'introduzione di limitazioni territoriali che potrebbero definitivamente portare al tramonto del vecchio West.
Come sempre, il cinema di Ford si regge anche e soprattutto sull'efficacia di determinate sequenze, sulla loro potenza evocativa. Ne "L'uomo che uccise Liberty Valance" tutto ciò è estremamente amplificato grazie a quel tono da requiem che aleggia attorno a questo pezzo di frontiera messo in scena. Tutto viene coinvolto in una generale impressione di fine corsa, di sipario pronto a calare su personaggi che hanno vissuto il loro tempo e che stanno per lasciare spazio a nuovi protagonisti. E così la Storia e le piccole storie di sentimenti sono avvolte nel loro insieme da un'emozione malinconica che il cineasta statunitense riesce a riflettere attraverso l'obiettivo della sua macchina da presa. Ci limitiamo a citare alcuni spunti, ma a ogni visione questi potrebbero essere diversi. Partiamo dal delicato zoom che va a stringere sul viso di Hallie (la magnifica Vera Miles) allorché, scortata dall'ex sceriffo, torna a Shinbone e va subito a visitare la vecchia casa bruciata di Doniphon, con quella stanza che stava costruendo proprio per lei e che ha interrotto con il cuore spezzato. Un altro momento essenziale, oltre che di cesura rispetto alla tradizione, è l'inizio del lungo flashback che poi costituisce l'asse portante di tutta la struttura narrativa dell'opera: Stoddard si accomoda nell'anticamera dell'obitorio insieme al direttore del giornale locale e comincia il suo racconto. Qui assistiamo a una sequenza che smentisce l'assunto secondo cui il cinema di Ford fosse ormai antiquato: la scelta di spezzare la linea temporale del racconto, intenzione chiaramente mirata ad amplificare l'effetto commozione attraverso il ricordo, sfida oltretutto lo spettatore nella sospensione dell'incredulità, con un anziano James Stewart che ricorda il suo personaggio da giovane (ma, date le possibilità limitate del trucco dei primi anni 60, ritroviamo comunque uno Stewart ultracinquantenne). Ci spostiamo nella seconda parte del lungometraggio, al momento della rivelazione che Tom fa a Ransom riguardo la morte di Liberty Valance. Qui due sono i punti cardine della scena. In primo luogo assistiamo a un flashback nel flashback, con un narratore differente dal principale: è il cowboy rispuntato dal nulla che rivela all'avvocato di essere stato lui, da un punto nascosto nell'ombra (di nuovo) a sparare in contemporanea e freddare il fuorilegge. In secondo luogo, verifichiamo una reazione piena di pragmatismo di entrambi. Abituati a quell'ostentata rettitudine dei vecchi cowboy fordiani, ci stupiamo di fronte al comportamento razionale di questa coppia inedita. Uno, con il cuore dilaniato per la perdita della donna amata che ha scelto il "rivale", invita proprio quest'ultimo ad essere cinicamente obiettivo e proseguire con il suo percorso politico; e l'altro, dopo un momento di sorpresa, senza proferire parola, fa tesoro del consiglio e si avvia a una carriera brillante basata consapevolmente su una menzogna diventata leggendaria.


Il lungo addio

Utilizzando l'aggettivo leggendario non si può non arrivare al momento della fine del flashback, allorché il giornalista, che straccia gli appunti una volta scoperta la verità, risponde al senatore che "qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda". Si tratta di una battuta (in realtà leggermente enfatizzata nell'adattamento italiano, ma poco importa) che diventa a suo modo mitica perché sul finire del film, un capolavoro costellato di addii, lutti simbolici e reali e ricordi sfumati, riannoda i fili di un racconto durato tutta una vita, quella di Ford, per l'appunto. E rivendica, pure se con una venatura di sarcasmo e cinismo, il desiderio di lasciare il western all'immaginario cinematografico. Ford, con quella battuta, si volta all'indietro, dopo aver guardato davanti a sé per tutto il tempo di realizzazione dell'opera e sceglie un profilo valoriale che lo riporti a un mondo che sente suo, dove appunto la realtà non conta, ciò che ha importanza è la leggenda. Ed è una leggenda, però, diversa da quanto mostrato nei suoi celeberrimi lavori del passato, affidata com'è, appunto, a un dialogo. Anche sul finale, quindi, "L'uomo che uccise Liberty Valance" conferma quell'austerità stilistica messa in scena fin dall'incipit. Addio ai campi lunghi e lunghissimi sulla Monument Valley, addio alle cavalcate, alle panoramiche e alle profondità di campo che incastravano l'uomo (o l'eroe, se preferite) come elemento connaturato al paesaggio selvaggio. "L'uomo che uccise Liberty Valance" è un trionfo dello studio cinematografico, inteso come spazio artificiale ove collocare scenografie costruite ad hoc, è una pellicola stilisticamente rigorosa nel suo lavorare quasi esclusivamente con piani americani. I vezzi del grande uomo di set sono ridotti al minimo, ai cambi di prospettiva inattesi (come la sparatoria ripresa da un punto di osservazione inatteso nel flashback di John Wayne, ad esempio). Per alcuni biografi, oltre che di motivazioni artistiche, per questi evidenti cambiamenti di approccio registico si dovrebbe anche parlare di una certa stanchezza nello girare in esterna, nel far fronte ai costi di produzioni importanti.
Ci sono ricostruzioni discordanti sul punto. C'è chi racconta, come Lindsay Anderson nel suo imprescindibile libro del 1981, che "non c'è dubbio che fosse un altro esempio della crescente intolleranza di Ford nei confronti del lavoro di ripresa: non lo trovava più divertente. Lo irritavano le esigenze narrative, lo spettacolo da offrire alla folla, le trappole dell'arte". Giunto a fine carriera, il Maestro rivendicava una libertà espressiva che non ammetteva compromessi con l'industria hollywoodiana. Ecco perché soffrì particolarmente delle imposizioni arrivategli dalla Paramount, come ad esempio quella di scritturare Wayne per uno dei due ruoli da protagonista, mentre egli avrebbe preferito un volto meno iconico. Ma, dalle parti della California, il cinema di Ford cominciava ad essere visto come qualcosa di superato, di vecchio. Il suo linguaggio, perennemente frainteso e mal decodificato, veniva continuamente considerato sintomo di un conservatorismo non più al passo dei tempi. Il suo approccio alla riflessione politica e al suo ragionamento sull'evoluzione della macchina-cinema risultava fin troppo sofisticato per i critici dell'epoca, attratti più dalle tendenze e dalle correnti piuttosto che da articolate carriere che nascondevano spunti impensabili. E così, attorno alla realizzazione de "L'uomo che uccise Liberty Valance", si era creata un'atmosfera di sfiducia, la convinzione che un vecchio della Settima arte stesse girando un film minore di fine corsa. Le testimonianze dal set, all'opposto, raccontano di un uomo ancora pieno di energie ed entusiasmo che, salvo qualche momento di nervosismo con i due divi che si contendevano la scena, aveva occhi e testa ben focalizzati sull'obiettivo finale. Rivisto ora, al termine di una filmografia irripetibile, ci troviamo di fronte a un'opera che assume i contorni di un canto elegiaco, l'atto conclusivo di una relazione fra l'autore e i mille possibili sguardi attorno all'Ovest senza fine.


12/07/2021

Cast e credits

cast:
John Wayne, Vera Miles, Lee Marvin, Edmond O Brien, James Stewart


regia:
John Ford


titolo originale:
The Man Who Shot Liberty Valance


distribuzione:
Paramount Pictures


durata:
123'


produzione:
Paramount Pictures, John Ford Productions


sceneggiatura:
James Warner Bellah, Willis Goldbeck


fotografia:
William H. Clothier


scenografie:
Eddie Imazu, Hal Pereira, Sam Comer, Darrell Silvera


montaggio:
Otho Lovering


costumi:
Edith Head


musiche:
Cyril J. Mockridge


Trama
Il senatore Stoddard ai funerali del vecchio Tom, in una sperduta cittadina del West, racconta a un giornalista la loro amicizia, cementata in gioventù dalla lotta al temibile fuorilegge Liberty Valance. Stoddard era allora un avvocato alle prime armi, che trovò in Tom un prezioso alleato; senza volerlo gli rubò anche la ragazza, dopo aver ucciso (così credeva) Valance in duello. Ora è finalmente tornato con la moglie per abitare per sempre nella regione...