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recensione di Giancarlo Usai
7.5/10

Fare un film per gli altri e un film per sé: è sempre stata la regola aurea che ha disciplinato la carriera di Martin Scorsese, fin da quando, ex studente di cinema, faticava a convincere i produttori che quel nuovo modo di approcciare l'industria cinematografica fosse il segno di un tempo che era irrimediabilmente mutato. Sì, perché Scorsese, al pari dei suoi compagni di studi Francis Ford Coppola, George Lucas e Steven Spielberg, era l'alfiere di un'idea di regia che si imbeveva di tutto ciò che la Settima arte avesse già proposto. Un autore-cinefilo, non solo un autore-pioniere, insomma. E nel corso dei decenni la strategia di alternare produzioni che accontentassero i suoi danti causa e altre che invece nascessero esclusivamente per appagare il proprio spirito indomito è sempre stata valida. Negli ultimi tempi, invece, Scorsese è andato oltre; oltre l'industria, oltre le definizioni del suo stile, oltre un approccio teorico ed etico al lavoro sull'immagine. I suoi ultimi tre film, "Silence", "The Irishman" e, appunto, "Killers of the Flower Moon", sono pellicole che sfuggono a qualsiasi ipotesi di categoria pre-esistente. Sono oggetti alieni e incoerenti rispetto a gran parte del percorso creativo in atto fino a "The Wolf of Wall Street"; e lo sono, si potrebbe precisare, fin dal principio, fin dalla loro origine, nel tentativo del Maestro di non essere solo, come suo solito, ossessivamente presente in ogni fase della produzione (pre, durante e post), ma anche di dare un'impronta personale alla sceneggiatura, mettendoci dentro un suo approccio alla scrittura quasi rudimentale, nella semplcità e nella genuinità di un suo personale e autentico stile di espressione.

"Killers of the Flower Moon" si impone fin dal primo sguardo dello spettatore come un terzo momento perfettamente in linea con i due film precedenti della filmografia scorsesiana: è "Silence" nel mettere in scena la violenza in un modo rinnovato, violenza come parte del Dna umano, come mezzo inevitabile per il raggiungimento dei propri scopi, violenza che si contrappone a violenza e chi prevale, alla fine della vicenda, è grazie a un utilizzo più spregiudicato della stessa. Ma è anche "The Irishman" nella gestione del tempo, dello spazio, della coralità di voci. E' una somma di tutto questo, il nuovo lungometraggio. Un'opera caratterizzata da un gigantismo che non è solo nel minutaggio (oltre i duecento minuti, un vero e proprio affronto all'attenzione media che ormai il pubblico cinematografico è disposto ad assicurare), ma nel respiro complessivo dell'opera. "Killers of the Flower Moon" è infatti romanzo storico, che taglia in due mezzo secolo, che spazia fra più Stati dell'America del primo Dopoguerra, che dà voce a più umanità: ci sono gli Osage e ci sono i bianchi, i politici e i latifondisti, le autorità e gli avvocati, ci sono i puri e i compromessi, gli avidi e gli stolti, i cinici e i servi. Si è sempre detto, a proposito del cinema di Coppola, che fossimo di fronte a un'arte "più grande della vita". Ebbene, per Scorsese possiamo infine coniare un detto esattamente opposto: la vita che esonda dal grande schermo è più grande del cinema stesso, è incontenibile, a tratti impossibile da imprimere nella pellicola, per la smisurata ambizione di affrescare uno spettro totale degli animi umani, di quegli Stati Uniti e del mondo intero, di quei protagonisti e dei comprimari alle loro spalle, di quei temi sociali ed economici, ma anche di ogni forma di implicazione morale che essi portano in dote.

Nella sceneggiatura scritta a quattro mani con Eric Roth c'è, forse, l'elemento più interessante - se segno di debolezza non ha neanche molto interesse specificarlo - da mettere in rilievo di tutta l'opera. Innanzi tutto, siamo "solo" al settimo titolo della carriera scorsesiana in cui il cineasta newyorchese firma lo script. E in ciascuna occasione è evidente l'animo intrepido con cui egli ha voluto appropriarsi, finanche fisicamente, del soggetto che realizzava, di un testo filmico che, in quei casi, non era solo il nuovo progetto, ma, appunto, andava oltre tutto questo, diventava un'esigenza insopprimibile di esprimere una propria visione autoriale che doveva assorbire persino il controllo delle parole dette, della connessione fra sequenze, della scelta sull'ordine logico e cronologico degli eventi da mettere in scena. Sono, a ben vedere, episodi di pellicole in un certo senso irregolari, fatte di slanci creativi difficili da definire con la parola perfezione ("Quei bravi ragazzi", nel suo farsi manifesto di tutto un genere cinematografico, potrebbe essere l'unico esempio in controtendenza rispetto a questa definizione). In "Killers of the Flower Moon" convivono due personalità autoriali molto ben delineate; da una parte, appunto, c'è l'irrequietezza tipica dei momenti più furenti dell'inventiva scorsesiana, ma dall'altra c'è la professionalità e l'abilità di grande normalizzatore di Eric Roth, la cui lista di collaborazioni con pezzi da novanta della New Hollywood è lunghissima e segnata da una costante: Roth mette ordine laddove il regista-autore vorrebbe sparigliare tutto, il suo ruolo è quello di regolare i meccanismi di scrittura e riportarli sui binari della narrazione lineare. È probabilmente grazie a lui che "Killers of the Flower Moon", nonostante la sua durata fluviale, scorre veloce come una pellicola di genere pur senza esserlo fino in fondo ed è forse grazie a lui che il rovesciamento del punto di vista, chiesto da Leonardo DiCaprio e accettato da Scorsese, è stato possibile con una certa efficacia. Va infatti ricordato che il saggio storico scritto da David Grann, che rievoca il massacro degli Osage in Oklahoma negli anni 20, era incentrato, nella sua impostazione quale libro-inchiesta, sull'indagine successiva che il nascente Fbi aveva affidato al suo implacabile agente Tom White. Qui invece i fatti non vengono ricostruiti a ritroso, ma il film sceglie un punto di vista che segue la vicenda con una consequenzialità cronologica che rende protagonisti gli autori stessi, di quel massacro.
Scorsese trova in Roth, insomma, una sorta di nemesi, che porta il suo film a una cornice narrativa più regolare, meno imprevedibile di quanto potesse esserlo in "Silence". Non è necessariamente un male, perché in questo modo il regista può concentrarsi su un lavoro tutto incentrato sui volti, i corpi, i movimenti, le interazioni e le reazioni dei suoi personaggi. È un'opera meno teorica delle precedenti, probabilmente, e più connessa con i risvolti concreti delle azioni mostrate. In questo si torna alla riflessione sul concetto di violenza, sul suo non essere esibita in modo esclusivamente figurativo - il termine iperrealismo, tante volte scomodato per i gangster movie di Scorsese, non può trovare cittadinanza in questa occasione. La violenza diventa parte integrante del mondo rappresentato, una normale espressione della volontà di prevaricazione, ma lo è alla pari dell'inganno, della truffa, dell'ambizione. Come in "The Irishman", infatti, anche in "Killers of the Flower Moon" la violenza dei personaggi è subordinata all'arricchimento, all'istinto di sopravvivenza, alla volontà di appropriarsi di terre, concessioni, petrolio, denaro.
Si diceva di un lavoro che fa dell'osservazione umana il suo fulcro narrativo. Diventa a questo punto impossibile non soffermarsi sulle interpretazioni dei due protagonisti, Robert De Niro e, per l'appunto, DiCaprio. Del primo vale una considerazione che ci riporta fino a "Quei bravi ragazzi", per poi passare a "Casinò" e infine a "The Irishman". Esistono due De Niro nella collaborazione con Scorsese; uno è l'alter ego del regista, capace di restituire in scena il tormento e il dramma, l'indicibile e l'inspiegabile. Poi c'è il De Niro dei titoli citati poco sopra, una sorta di Virgilio alle dipendenze della storia, un sostegno allo sguardo del cineasta e del suo obiettivo, un accompagnatore, a volte attonito a volte più partecipe, negli sviluppi della vicenda. In questo suo secondo ruolo, l'attore ormai ottantenne esalta le sua capacità di mimesi. Per quanto invece riguarda DiCaprio, che per la cronaca convinse scorsese a interpretare Ernest Burkhart anziché l'agente Fbi White, scomodare dei confronti con i massimi esecutori del Metodo Stanislavskij, ormai, non è più un azzardo, quanto una constatazione. Il suo identificarsi pienamente con l'indefinibile debolezza degli uomini che impersona raggiunge a ogni nuovo titolo dei risultati sempre più annichilenti: si spiega ormai con una necessità temporale di adeguarsi al ruolo la sua scelta di recitare in un numero relativamente scarso di lungometraggi. Nella sua carriera non esistono più lavori secondari, pellicole più semplici, personaggi più elementari. Ogni singolo carattere viene costruito con una profondità di immedesimazione che non ha confronti nel cinema contemporaneo.

In queste righe non abbiamo fatto alcun accenno alla trama dell'opera. Non perché non abbia un peso importante nel tentare di avvicinarsi criticamente al film, quanto perché, proprio sotto questo profilo ci troviamo di fronte a un lavoro la cui analisi può prescindere da una descrizione dell'intreccio. Più interessante, allora, è registrare il percorso stilistico di Scorsese, un viaggio che non è né circolare come quello di alcuni suoi colleghi coetanei, portati a reiterare dopo una certa età alcuni punti di forza sperimentati e sedimentati nel tempo, né tanto meno procede a strappi, alternando episodi pioneristici ad altri più conservativi. La filmografia scorsesiana, invece, è costantemente proiettata nel futuro, alla ricerca di nuovi punti di equilibrio tra la gestione tecnica del suo ruolo dietro la macchina da presa e la scrittura di storie cui egli dimostra di tenere particolarmente. In quest'ultimo scorcio di carriera, la regia di Scorsese rinuncia quasi del tutto a ogni forma di virtuosismo scenico, arresta il movimento di macchina prima che si compia l'imprevedibile scarto, fa in modo che il montaggio segua un nuovo ritmo di racconto, più adatto a dei tempi in cui lo spazio dell'attore deve essere preponderante. Al netto del ralenti iniziale e del finale caratterizzato da una confusione mediatica insolita (con tanto di clamoroso cameo parlante del regista), "Killers of the Flower Moon" ricerca continuamente una sorta di purezza dell'immagine, di correttezza algida di ciò che finisce nell'inquadratura. Il tempo aiuterà a capire se si tratta di un punto di arrivo o di un nuovo inizio. Nel frattempo registriamo questo: a ottant'anni compiuti, Scorsese vuole ancora affondare lo sguardo nelle radici dell'America contemporanea e non vuole accontentarsi di farlo da un punto di vista comodo e già noto. A ogni nuovo passo, si rivela un autore sempre diverso.


22/10/2023

Cast e credits

cast:
Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone, Jesse Plemons, Brendan Fraser


regia:
Martin Scorsese


distribuzione:
01 Distribution, Leone Film Group


durata:
206'


produzione:
Appian Way, Apple TV+, Imperative Entertainment, Sikelia Productions, Paramount Pictures


sceneggiatura:
Martin Scorsese, Eric Roth


fotografia:
Rodrigo Prieto


scenografie:
Adam Willis


montaggio:
Thelma Schoonmaker


costumi:
Jacqueline West


musiche:
Robbie Robertson


Trama
Oklahoma, anni Venti. Gli Osage, nativi americani costretti dal governo a trasferirsi nell’Indian Country, scoprono che sotto il loro territorio si trovano enormi giacimenti petroliferi. Da quel giorno, la loro vita cambia e ben presto si trovano a fare i conti con uno stuolo di uomini bianchi che bramano le loro ricchezze. Tra questi, il giovane Ernest Burkhart, reduce della Grande Guerra, che sposa l’indiana Mollie su suggerimento di suo zio William Hale, facoltoso e apparentemente generoso proprietario agricolo. Nel frattempo, tra l’indifferenza delle autorità locali, molti nativi vengono uccisi...