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recensione di Pietro S. Calò

Esiste qualcosa peggio di un incubo? 
Esserci dentro senza un motivo e patirne il terrore, tutto di matrice psicologica, privati persino della sofferenza fisica, della pietà verso se stessi e della pena che vorremmo suscitare negli altri, l’incubo si manifesta in un modo così insopportabile da non lasciare altra soluzione che il risveglio.
Risvegliarsi per ricominciare il patimento dal punto esatto in cui lo avevamo lasciato equivale grosso modo all’idea cristiana dell’Inferno, la massima pena possibile, allo stesso tempo psicologica e fisica.
Eppure, "E Johnny prese il fucile" modella su di un corpo orrendamente mutilato un nuovo tassello del dolore. 

Johnny (Timothy Buttoms) è un sano e gioviale panettiere ventunenne che alla vigilia di una vita adulta già pianificata decide di offrire alla Patria il suo ultimo colpo di testa, nei teatri europei della Grande Guerra che sarà probabilmente la sua unica occasione di vedere il mondo in quella estrema forma di turismo organizzato che da sempre è la guerra. 
Il racconto ha una struttura analettica: un presente in un modesto ospedale francese fotografato in un b/n che altro non è che la desaturazione della palette cromatica che, al contrario, esplode senza soluzioni di continuità nei flashback e nei sogni con un technicolor a tratti lisergico. 

Come per un neonato, il tempo scorre lentamente e solo dopo diciotto mesi Johnny avrà completato le informazioni che riguardano la sua nuova vita.
Al contrario dell’infante il cui stare al mondo è una presa delle sue misure e delle sue insidie, troppo al di là delle sue possibilità, Johnny deve rifare quel cammino iniziale sotto una nuova prospettiva: i limiti del corpo che non percepisce e che sembra perdere quotidianamente forza invece di acquistarne. 

Colpito in pieno da una bomba tedesca nel mentre insieme alla sua pattuglia provava a recuperare il cadavere in putrefazione di un "grasso bavarese", Johhny è riuscito a salvarsi la vita rannicchiandosi al momento dell’esplosione nella posizione della difesa più disperata, quella fetale che gli ha conservato l’ombelico (da cui era diventato un Individuo Distinto), l’apparato riproduttivo e una porzione del cervelletto sulle cui capacità residue la scienza si interroga lungo tutto il film.

L’aspetto più suggestivo della nostra storia non è infatti la capacità di Johnny di crearsi un calendario mentale su cui trascrivere i giorni, i mesi e anche gli anni che passano quanto invece quelle montagne russe della coscienza che sono i momenti di appercezione (di sé, della sua condizione) e le angosce della sua nuova cartografia, quando si accorge che "la cosa più prossima al suo braccio è la spalla e che tutto questo è un territorio immaginario sostituito da un grande buco che gli impedirà di tornare al suo lavoro di panettiere". 
Così come è suggestiva l’agnizione dei raggi del sole che si posano sul petto, riscaldandolo. 
Da questo punto di vista, "E Johnny prese il fucile" è una Odissea come quella di Kubrick nello spazio micro di un corpo mutilato. 

E così, un cervello che si considerava incapace di provare financo il dolore è invece in grado di elaborare l’Intelligenza e di esperirne le conseguenze, la Gioia di nuove scoperte che la cinepresa incornicia nel petto che sussulta di commozione, solarizzato da quel raggio di luce che rende la materia sofferente in una visione eterea, pura Luce Divina perché, ricorda, Dio è Amore. 
Tale climax avrebbe anche il suo apice allor quando Johnny ripesca un vecchio insegnamento di suo padre, l’alfabeto Morse. 

Johnny si illude così di poter infine comunicare coi suoi ormai irreversibilmente dissimili. Si slancia su questa possibilità con tutta l’enfasi di cui è capace, in un ultimatum: fargli raccontare al Mondo la sua storia, la sua sofferenza, messo comodo in una bara di seta e all’interno di un tendone da circo con la biglietteria a quindici centesimi per spettacolo. 
Oppure lasciarlo andare, aiutarlo a morire. 

Messosi in trappola da solo, Johnny si battezza come lo scandalo insostenibile. Non è più il
monstrum che si era illuso poter essere, non può più essere mostrato perché il suo quadro clinico che la medicina poteva elaborare ha superato il comodo recinto della biologia, della chimica, dell’elettricità… Johnny è una macchina che si ostina a vivere contro ogni evidenza. 

Così, quella che voleva sembrare un’accusa veemente contro la guerra e i suoi orrori diventa qualcosa d’altro, di più potente, una sorta di Inno alla Vita e se Dio attraverso l’Amore è diventato Uomo per soffrire fino a morire, l’Uomo attraverso la Volontà emula Dio per poter vivere per sempre. 
A lato di questo progetto già ambizioso, Trumbo inserisce una sottotrama che celebra un ruolo attoriale sempre ben presente nel periodo aureo della Grande Hollywood. 
Che siano stati film bellici o noir o drammi o anche commedie, non sono mai mancati in quel ventennio le sequenze, spesso pochissime inquadrature, in cui l’eroe, il villain o l’irresistibile maldestro si ritrovavano in ospedale assistiti da una angelica e sorridente infermiera. 
Nel cast è quasi sempre accreditata così, "nurse", e nove su dieci era una bellezza da copertina delle riviste leggere
Se vi interessasse l’esperimento seguitene le biografie su Wikipedia: quasi nessuna ha sfondato nel cinema, molte hanno fatto televisione, alcune hanno sposato un ricco pollastro, altre sono finite in miseria, alcolizzate o ritrovate in fondo a un fiume. 

Semplici comparse che lasciano il segno per quei pochissimi istanti in cui sorridono al malato sofferente o insofferente, dicono una frasetta di incoraggiamento, rimbalzano con grazia un corteggiamento goffo non prima di aver loro rimboccato le lenzuola. Basta così, fino al film dopo. 
Le nurse del cinema classico americano costituiscono una archeologia che può essere equiparata a quella delle Veline italiane. 

Nel nostro film la
nurse (Diane Varsi) non può dialogare con un uomo sordo, cieco e muto, non può rimboccarle le coperte di cui non è stato provvisto perché, tanto, non sarebbe in grado di percepirle. Non deve far da filtro con genitori, amici e parenti che stanno ignari in America mentre Johnny occupa lo sgabuzzino delle scope in Francia. 
E allora cosa resta da fare a un Essere Umano che si trova davanti un Essere Umano? 

La cinepresa di Trumbo con tutta la discrezione dell’auto-censura e la Grazia del gesto in sé, stringe l’inquadratura sulle sue mani che scivolano sotto le coperte nell’atto inequivocabile della masturbazione, nel mentre l’aria rinfresca quel corpo residuo illuminato e riscaldato dal Sole così da mostrarcelo, in quell’attimo interminabile, come il re del Mondo. 
In nessuno dei suoi sogni a occhi aperti (su cui Trumbo si avvalse della consulenza di Luis Bunuel!), un Gesù Cristo interpretato da Donald Sutherland gli aveva offerto così tanta consolazione e volontà di vivere. 
Era necessario un reale atto di Amore. 
Così, al netto di un pacifismo peraltro innegabile, "E Johnny prese il fucile" ottiene un risultato superiore alla tesi di partenza che peraltro parte con la magistrale sequenza iniziale del film che è un prodigio di sintesi. 

Si tratta di un montaggio frequentativo che rappresenta il preludio alla partenza verso il Fronte: baci, abbracci, canti patriottici, sventolio di fazzoletti bianchi, politici in tuba e
tuxedo che salutano da un palco altissimo e immenso i giovani soldati che marciano con la testa alta e la divisa lustra e i cui scarponi lentamente prendono il sopravvento sui canti allegri fino a trasformarsi in una marcia forte e sorda, sulle cui cadenze si insinua un fastidioso sibilo che infine deflagra nella bomba che ferirà Johnny e sterminerà la sua pattuglia. 

Dalton Trumbo è stato uno dei più quotati sceneggiatori della Grande Hollywood; iscritto al Partito Comunista fu attenzionato dal senatore Mc Carthy e fu uno dei dieci professionisti che rifiutarono ogni sorta di patteggiamento o di abiura il che gli costò undici mesi di prigione e la disoccupazione. Trumbo continuò a lavorare sotto pseudonimo col quale firmò, tra le altre, le sceneggiature di "Spartacus" (Stanley Kubrick) e "Exodus" (Otto Preminger) entrambe del 1960.

Il romanzo "Johnny Got his Gun" fu da lui scritto nel 1936 e aveva lo scopo tattico di predicare il non intervento americano in Europa; quando nel 1941 le armate di Hitler invasero l’URSS la strategia mutò e Dalton si impegnò personalmente a ritirare dal commercio il suo romanzo così come si interruppe la produzione del film che vide la luce solo nel 1971, unico suo lavoro da regista e ultimo atto di una carriera brillante che lo vide vincitore di due Oscar per il miglior soggetto, "Vacanze romane" (William Wyler, 1953) e "La grande corrida" (Irving Rapper, 1956).


24/07/2015

Cast e credits

cast:
Timothy Bottoms, Kathy Fields, Marsha Hunt, Jason Robards, Donald Sutherland


regia:
Dalton Trumbo


titolo originale:
Jonny Got his Gun


distribuzione:
Cinemation Industries


durata:
111'


produzione:
World Entarteinment


sceneggiatura:
Dalton Trumbo - Luis Bunuel (non accreditato)


fotografia:
Jules Brenner


scenografie:
George R. Nelson - Bob Signorelli


montaggio:
Millie Moore


costumi:
Theadora Van Runkle


musiche:
Jerry Fielding


Trama
Johnny è un sano e gioviale panettiere ventunenne che decide di partire soldato nell'Europa sconvolta dalla Grande Guerra. Inizia così un incubo interminabile.