Per Daniele Luchetti la regia di "Io sono Tempesta" partiva con premesse diverse dalle altre. Da una parte, il nuovo film arrivava dopo la parentesi del biopic dedicato a Papa Francesco e, quindi, a seguito di un'esperienza che tanto nella tipologia produttiva quanto nei contenuti era da considerarsi se non un corpo estraneo, almeno un gesto anomalo rispetto al resto della sua filmografia. In più, per Luchetti si trattava di verificare la tenuta del proprio cinema rispetto ai mutamenti della società italiana, nella considerazione che sia "Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente" (2015), sia "
Anni felici" (2013) ne erano stati una sorta di vacanza dal presente, essendo, il primo, un'escursione in terre lontane dalla nostra, il secondo, un
amarcord semi-autobiografico ambientato negli anni Settanta. L'importanza dell'occasione è testimoniata dalla peculiarità delle scelte estetiche e contenutistiche che riguardano tanto i personaggi quanto gli ambienti raccontati dalle vicende del film. Così, se gli intrallazzi del finanziere Numa Tempesta e la sua collusione con il mondo politico-imprenditoriale permettono a Luchetti di recuperare esasperazioni caratteriali e fenomenologie della corruzione, che ne avevano attraversato le storie a cominciare dal Cesare Botero de "Il portaborse" (come Numa convinto di poter disporre degli altri a proprio piacimento), altrettanto utili alla causa sono Bruno e suo figlio Nicola, esempi di un proletariato umiliato e offeso a cui Luchetti si è rivolto quando si è trattato di passare dall'altra parte del guardo, per dare voce ne "
La nostra vita" a chi non può dare nulla per scontato e ogni giorno è chiamato a guadagnarsi l'esistenza. In questo senso, la contemporanea presenza di ricchezza e povertà, rappresentata appunto da Numa e Bruno/Germano, consente a "Io sono Tempesta" un collegamento, peraltro inedito, tra le diverse anime del regista: quella favolistica e surreale di titoli come "La settimana della sfinge" e "E' arrivata la bufera" e l'altra, manifestatasi in età matura e corrispondente al morbido realismo che ha segnato l'ultima parte dei suoi lavori.
L'interesse de "Io sono Tempesta" risiede su altro: per esempio, sul modo con il quale Luchetti riesce a trasfigurare personaggi e situazioni tratte dalle cronache dei nostri giorni per formulare una rappresentazione del paese che, almeno sul piano del pensiero e dei desideri, certifica la sostanziale parità di vedute tra alto e basso. Una verità che emerge durante il percorso riabilitativo di Numa, costretto a scontare la condanna per evasione fiscale lavorando presso il centro sociale frequentato da Bruno. Con il passare dei giorni il finanziere, grazie anche alle personali elargizioni di denaro, da corpo estraneo ne diventa parte integrante, riuscendo alla sua maniera a realizzare i sogni di ricchezza degli indigenti frequentatori. La quale cosa non sarebbe neanche cosi scandalosa se si pensa che, in qualche modo, la conversione finale di Numa, accompagnata dalla riconciliazione con sé stesso e con gli altri ha più di qualche punto di contatto (a cominciare dagli aspetti fiabeschi) con il miracolo raccontato da Dickens nel suo "Canto di Natale". In realtà, essendo la figura del protagonista almeno inizialmente ispirata a Berlusconi e all'affidamento ai servizi sociali di cui è stato soggetto per le note vicende giudiziarie, non è banale, da parte di Luchetti, optare per una visione delle cose tutto sommato indulgente, laddove il cinema italiano ha fatto carte false pur di figurare tra i grandi accusatori di Belzebù, enfatizzando la distanza tra quest'ultimo e le sue vittime.
Ma "Io sono Tempesta" - ed è questo l'altro pregio del film - non si limita a raccontare ciò che accade ai personaggi solamente a parole. Grazie all'apporto fotografico di Luca Bigazzi, il regista costruisce un sottotesto visivo che non è solo bello da vedere ma anche funzionale nel
surplus di senso che conferisce agli avvenimenti. E qui non ci riferiamo tanto alla metafora della solitudine di Numa, palesata dall'albergo nel quale vive e di cui è l'unico cliente. Meglio di questo è la scelta di fotografare Roma come fosse la Milano de "L'aria serena dell'Ovest" e, quindi, come una città aliena (l'inquadratura della roulotte in cui vanno a vivere Bruno e il figlio, vista da una prospettiva che ne esalta i punti di fuga, spiega ciò che vogliamo dire), perennemente grigia come la vita dei protagonisti. E poi, come fossero porte della nostra percezione, gli squarci di una verità ancora sconosciuta ma incombente, destinata a gettare un'ombra in direzione della felicità a cui la storia sembra volgere. La parete buia in fondo al corridoio attraversato da Nicola nella rielaborazione dell'analoga sequenza di "Shining" e, ancora, la ricercata artificiosità della sequenza finale, quando Luchetti decide di mettere in scena la felicità di Bruno e degli altri frequentatori del centro con una composizione di maniera. Non solo le luci al neon, ma, soprattutto, Elio Germano che rifà Aniello Arena di "
Reality" sembrano voler mettere in guardia lo spettatore sul significato ultimo dell'umanità festante, nell'inserto che precede quello conclusivo.