"Dream" ha il classico inizio onirico che stuzzica le fantasie e la curiosità degli spettatori.
Jin, un giovane incisore, sogna di avere un incidente stradale mentre sta seguendo la macchina della sua ex-fidanzata, quindi prosegue senza fornire gli opportuni soccorsi. Si sveglia e senza apparente motivo esce da casa e guida fino al luogo del realistico sogno, dove è effettivamente avvenuto un incidente. Secondo le telecamere di sorveglianza, che hanno ripreso la scena, a causare l'incidente è stata una donna. Jin segue la polizia fino a casa della donna, e poi fino al commissariato, dove l'accusata, Ran, afferma che nell'ora dell'incidente dormiva; a questo punto Jin interviene, auto-accusandosi dell'incidente...nel suo sogno.
Una sorta di psicanalista spiegherà loro che i sogni di Jin sono determinati dal forte amore che ancora nutre verso l'ex-fidanzata, la quale ora frequenta l'odiato ex-ragazzo di Ran. Per un oscuro motivo, i sogni di Jin di rincontrare la sua ex si ripercuotono in Ran che, da sonnambula, esegue nella realtà le stesse azioni oniriche di Jin, nei confronti però del suo ex-fidanzato. Sono agli estremi di un filo e per questo collegati. "Bianco e nero sono lo stesso colore" afferma l'esperta in problematiche del sonno.
Una delle domande che ci si pone durante la visione di "Dream", opera numero quindici dell'ormai noto Kim Ki-duk, è dove sia finito l'autore sud-coreano, e se il regista che ha firmato questo lavoro non sia soltanto un omonimo che tenti di copiarne lo stile.
Nonostante la storia si addica al regista, qui ci ritroviamo di fronte a uno dei suoi lavori meno difendibili. L'idea di partenza è quella di creare un ambiente in cui sin dall'inizio sogno e realtà si confondano e si perdano l'uno nell'altro in un risveglio continuo. Ma il cinema dell'ultimo Kim è saturo di inconsistenti simbologie, che tarpano le ali alla narrazione e soprattutto alla
visione.
Kim sembra aver perso il passo, la sua regia è diventata banale, non si avverte più il gusto che si sentiva in passato, e anche l'estetismo pittorico, inizialmente piacevole, alla lunga diventa inevitabilmente stucchevole.
"Dream" non è altro che un film di seconda mano, nel quale l'autore sembra addirittura riciclare alcuni stilemi del suo cinema (si veda la fuga finale alla "Ferro 3"), ma è così sovraccarico di intenzioni che invece dell'autocitazione si giunge quasi a una grottesca autoparodia: Kim getta alle ortiche quello che sulla carta era un interessante spunto meta-filmico - sprecando anche l'intelligentissima scena teatrale nel campo di grano, in bilico fra sogno e realtà - in favore del solito metaforone sull'amore e sul dolore, che ha mortalmente ammorbato il cinema dell'autore coreano, e dell'ennesima
via crucis a cui sono condannati i protagonisti.
Ingenuità di scrittura da dilettanti, sequenze e scelte ai limiti dell'assurdo anche per un film che vuole speculare sul sottile confine fra mondo onirico e mondo reale sono il segno di una vena creativa in via di esaurimento e di una parabola discendente forse irreversibile. Si rimpiange il suo cinema di qualche anno fa, così fluido, visionario, aperto, oggi tremendamente chiuso e solipsistico. E Joe Odagiri che recita in giapponese in un film coreano è la cartina di tornasole del modo di comunicare di Kim Ki-duk.
16/05/2009