Ondacinema

recensione di Stefano Santoli
8.0/10

L'ucraino Loznitsa, autore in una carriera ventennale di 18 documentari e 2 film di finzione, ci porta con "Austerlitz" dentro un campo di concentramento nazista. Acclamato alla 73° mostra del cinema di Venezia, il film viene distribuito in sala a gennaio 2017 in occasione della Giornata della Memoria. Si tratta di un documentario totalmente contemplativo, privo di voce narrante, composto di una serie di piani-sequenza a camera fissa. Il film si dipana seguendo i visitatori del campo lungo il percorso di visita, che inizia e finisce di fronte al cancello con l'iscrizione "Arbeit Macht Frei". Loznitsa ha effettuato lunghissime riprese, lasciando da sola, in funzione, la macchina da presa. Poi ha lavorato in studio di montaggio. Non è quasi il caso di parlare di "sequenze", dal momento che i tagli prescindono quasi sempre da un'azione con un inizio, uno svolgimento e una fine. "Austerlitz" è una collezione di frammenti di un continuum.

Ma perché quel titolo? Come "Brazil" di Gilliam, è uno di quei titoli che portano su una falsa pista. Il rimando è al romanzo omonimo di Sebald, dove si narra di un individuo, Austerlitz appunto, il quale ormai adulto scopre che a quattro anni era stato messo dalla madre su un treno diretto in Inghilterra, per essere salvato dalle persecuzioni naziste. Al di là dell'Olocausto, non c'è nessun altro legame apparente fra libro e film.

Per provare a capire "Austerlitz" occorre partire dal registro stilistico, in cui non c'è alcuna interazione fra soggetto che guarda e oggetto dello sguardo. Lasciare una macchina da presa a riprendere da sola rende evidente l'obiettivo prioritario di lasciare i visitatori indisturbati: farli agire il più possibile spontaneamente senza sentirsi osservati. Il modo di porsi di Loznitsa è agli antipodi rispetto a quello di figure come Joshua Oppenheimer o Rithy Panh, che si rendono attivamente partecipi di un'interazione con i soggetti che riprendono, li spronano ad agire per ottenerne una reazione di fronte alla macchina da presa. L'approccio di Loznitsa assomiglia molto più a quello di un maestro del documentario come Wiseman. La contemplazione neutra e silenziosa di un microcosmo. Nel caso di "Austerlitz" questo microcosmo è un campo di concentramento nazista, divenuto monumento alla memoria, aperto al pubblico come un museo. Guardare i visitatori che si aggirano nel loro "tour" è un'esperienza non lontana dall'osservazione dei visitatori della National Gallery di Londra nel film omonimo di Wiseman.

Solo poche volte qualcuno lancia un fugace sguardo in macchina, e magari torna sui propri passi incuriosito dal dispositivo di ripresa. Ma sono casi sporadici (molti di più, probabilmente, quelli eliminati in fase di montaggio) che servono a ricordare allo spettatore l'impossibilità di azzerare completamente l'influenza dello sguardo sul proprio oggetto (non si sfugge al principio di indeterminazione di Heisenberg: il cineasta, come lo scienziato quando osserva un fenomeno, non può essere considerato alla stregua di uno spettatore: con la sua presenza influenza il fenomeno stesso, comportandone la variazione).

Tutto il film di Loznitsa è centrato sull'atto del guardare, e sulla connessa coscienza di ciò che si guarda. Sta qui forse il rapporto segreto con il romanzo di Sebald. Lì il tema di fondo era il rapporto della coscienza con la memoria e con l'oblio (Sebald rimanda a Proust per stile e temi); nel film il regista documenta nei visitatori - e vuole provocare nello spettatore - il rapporto con qualcosa di visibile e presente (il campo di concentramento oggi), la cui attualità ha lo scopo di conservare la memoria (collettiva) e stimolare la coscienza (individuale).

Dice Loznitsa nelle note di regia: L'idea di fare questo film mi è venuta perché visitando questi luoghi sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire, attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d'animo. Ma non nascondo di esserne rimasto, alla fine, abbastanza perplesso. Da cosa scaturisce questa perplessità è facile capirlo: per tutto il corso del film non facciamo che vedere persone che non appaiono turbate né meditabonde né tantomeno sconvolte. Sembrano assolutamente serafiche: visitano un campo di concentramento come visiterebbero un museo, addirittura un parco a tema. Da spettatori, ci chiediamo più volte se Loznitsa intenda con il film formulare un capo d'accusa alla superficialità di sguardo dei turisti, fra i quali beninteso potremmo anche esserci noi. E allora ci mettiamo lì, alla ricerca di qualcuno che appaia più partecipe e coinvolto: e non trovandolo ci sentiamo di ipotizzare, non a torto, che il limite sta nel mezzo. È la mdp ad essere fallace, incapace di cogliere i moti interiori e gli stati d'animo. Nessuno ci autorizza a pensare che, almeno qualcuno, fra questi "turisti", non sia intimamente scosso, e non stia facendo un'esperienza che lo segnerà nel profondo.

Ciò su cui si è voluto soffermare Loznitsa è probabile siano proprio i limiti del mezzo. Che non è solo la macchina da presa. Sono anche le tantissime macchine fotografiche e videocamere imbracciate da quasi tutti i visitatori del campo. Quando si tratta di Olocausto e cinema, sembra non si possa prescindere dal porsi la questione etica sui limiti della "rappresentabilità dell'irrappresentabile": in questo caso, la questione viene traslata, dalla macchina da presa si sposta alla miriade di dispositivi impugnati da persone che non sembrano porsi alcuna remora a farsi ritratti e selfie, a mettersi in posa di fronte alla scritta "Arbeit Macht Frei" o ai forni crematori.

Ma "Austerlitz" stimola riflessioni che vanno anche oltre. Loznitsa aggiunge infatti un tassello importante a un tema più generale, quello del bisogno di rappresentazione della realtà in un'epoca caratterizzata da un'imponente ipertrofia delle immagini: un aumento sconsiderato che pone la questione dello scadimento di valore delle immagini stesse, della loro vacuità e del rischio della loro perdita di senso (1). Non è difficile intuire come l'impulso a immortalare ciò che si guarda sembra procedere a braccetto con la superficialità dello sguardo. Il rapporto fra profondità di sguardo e disponibilità illimitata di mezzi idonei a catturare immagini è inversamente proporzionale? Se fosse così, l'apparente superficialità riscontrata, pressoché omogeneamente, nei visitatori del campo, sarebbe un derivato di un diverso problema, che consiste  nell'attrattiva costituita dall'immagine come feticcio, come inconsapevole scopo ultimo della visita. Un bisogno di immagini che servono a testimoniare a se stessi di esserci, prima ancora che a riflettere o a fungere da strumento di memoria.

Non sappiamo se Loznitsa sia giunto a queste stesse conclusioni: ha realizzato un film che non dice e non dichiara, ma si limita ad osservare. Se volessimo trovarvi dei limiti, essi scaturirebbero proprio dall'onestà con cui l'autore ha evitato di tentare risposte che sentiva di non avere. L'importanza del film sta invece nello stimolare domande, portando ciascuno a elaborare le proprie riflessioni, senza suggerire soluzioni.


(1) Sono in fondo i temi che da sempre ossessionano Wim Wenders (si pensi al fotografo protagonista di "Alice nelle città"). Wenders ha preconizzato con svariati decenni di anticipo la deflagrazione dell'immagine registrata che avrebbe poi caratterizzato l'avvento dell'era digitale sul finire del XX secolo (in "Fino alla fine del mondo", 1993, il tema viene esplicitato in modo perfino didascalico).


24/01/2017

Cast e credits

regia:
Sergei Loznitsa


distribuzione:
Lab80


durata:
93'


produzione:
Imperativ Film


sceneggiatura:
Sergei Loznitsa


fotografia:
Sergei Loznitsa, Jesse Mazuch


montaggio:
Danielius Kokanauskis


Trama
"Ci sono luoghi in Europa che sono rimasti come ricordi dolorosi del passato, fabbriche dove gli esseri umani erano trasformati in cenere. Questi luoghi sono ora luoghi della Memoria, aperti al pubblico sono visitati da migliaia di turisti ogni anno. Il titolo del film si riferisce al romanzo omonimo scritto da W.G. Sebald, dedicato alla memoria della Shoah. Questo film è una osservazione dei visitatori di un sito per il ricordo, nato negli spazi di un ex campo di concentramento. Perché le persone ci vanno? Che cosa stanno cercando?"