Ondacinema

recensione di Claudio Fabretti
6.5/10

"Il male si annida ovunque sotto il sole"
(Agatha Christie, "Corpi al sole")

Kenneth Branagh torna sul luogo del delitto. E ancora una volta – c’è da scommetterlo - dividerà i fan di Agatha Christie, della cui arte giallistica si propone ormai come novello esegeta cinematografico. Dopo la prova poco convincente di “Assassinio sull’Orient-Express” – talmente tronfio e artefatto da deludere anche il meno oltranzista tra gli adepti della Regina del crimine - l’attore e regista di “Belfast” (nel senso della città natale e dell’omonimo film) ci riprova trasponendo in immagini uno dei più avvincenti romanzi della scrittrice di Torquay, “Assassinio sul Nilo”, già visto al cinema nel 1978 con la regia di John Guillermin. Un’impresa che, più che con le esigenze di budget, ha dovuto fare i conti con la pandemia, che ha fatto slittare il film di oltre due anni, impedendo alla troupe di girare sulle vere sponde del Nilo.

Ancor più che nel predecessore, Branagh mette al centro dell'intera operazione sé stesso (ed è la croce o delizia del film, a seconda di come la pensi su di lui), cercando di modellare la splendida sceneggiatura naturale fornita dal romanzo sul suo gusto teatrale shakespeariano e sulla sua personale rivisitazione del mito di Hercules Poirot, il baffuto e vanesio detective belga dal fiuto infallibile, paragonabile solo a quello di Sherlock Holmes. Raramente, nei romanzi della Christie, il suo investigatore di fiducia si erge a protagonista, limitandosi a fungere il più delle volte da trait d’union tra i personaggi, tessendo (e smantellando) la tela complessiva delle loro intricate vicende, fino all’immancabile ricostruzione finale. Branagh, invece, lo fa salire sul palcoscenico, calandolo persino nelle fangose trincee belghe della Prima guerra mondiale nel sorprendente incipit in bianco e nero – a metà tra “1917” e “Dunkirk” (dove lo stesso Branagh interpretava il Comandante Bolton) - in cui scopriamo un giovane Hercules già decisamente perspicace nonché deturpato dalle ferite di guerra e per questo costretto a farsi crescere i due inconfondibili mustacchi. Un Poirot decisamente più umano e sfaccettato di quell’ometto arrogante e pignolo emerso spesso dalle pagine gialle della sua creatrice. Addirittura disperatamente innamorato di una donna che perirà sotto i bombardamenti, condannandolo a un triste destino di dolore e solitudine. Siamo quindi assai lontani dall’elegante e rigido Poirot di Albert Finney, ma ancor più da quello paffuto e ironico di Peter Ustinov, che figurava anche nel cast del film di Guillermin (assieme a star come David Niven, Mia Farrow e Bette Davis). Il Poirot di Branagh, insomma, è quasi un eroe tragico shakespeariano: fragile e spaesato di fronte alla sua missione di disvelatore delle nefandezze umane.

Ma non è l’unica licenza che il regista nordirlandese si concede. Branagh, infatti, cerca di introdurre elementi di modernità nel canovaccio classico della Christie, attualizzandolo con qualche trovata ad hoc. Così la romanziera dell’originale diviene una blues-singer afroamericana (con fugaci accenni al tema del razzismo), un altro personaggio si rivela omosessuale e non mancano anche rimandi al tema della tossicità delle relazioni, a cominciare dal triangolo amoroso centrale, che trasuda sensualità lasciva e pulsioni incontrollabili. In più, le già latenti scorie della falsità e dell’ipocrisia dell’aristocrazia neocoloniale britannica vengono esasperate in un cocktail al vetriolo. Tutte libertà che comunque non compromettono una fedeltà di fondo al romanzo, ben riadattato dalla sceneggiatura di Michael Green che, questa sì, non dovrebbe scontentare anche i più intransigenti custodi della memoria di Agatha Christie.
La storia, dunque, è quella nota: Poirot, viene ingaggiato dalla ricca ereditiera Linnet Ridgeway (Gal Gadot) e dal suo fresco sposo Simon Doyle (Armie Hammer) durante il loro viaggio di nozze in Egitto, per proteggerli dalla minacciosa “stalker” Jacqueline de Bellefort (Emma Mackey), ex-fidanzata di Doyle ed ex-amica del cuore di Linnet. Ad Abu Simbel (e non più Luxor, come nel romanzo) un masso calato giù dal tempio sfiora le teste dei due sposi, quindi la notte stessa Linnet viene uccisa nel sonno con un colpo di pistola alla tempia. Chi sarà l’assassino?
Alla giostra dei sospetti, come di consueto, nessuno dei protagonisti può sottrarsi - una delle regole auree della Christie è che chiunque può avere un buon motivo per uccidere - inclusi il fidato Andrew, assistente di Linnet (Ali Fazal), la timida cameriera Louise Bourget (Rose Leslie), l’ex fidanzato della vittima, il Dottor Bessner (Russell Brand), o la matrigna Marie (Jennifer Saunders) magari con la complicità della sua infermiera, Mrs. Bowers (Dawn French) o ancora il giovane Bouc, amico personale di Poirot (Tom Bateman), anch’egli in crociera assieme alla perfida madre Euphemia (Annette Bening) e alla sua nuova fiamma Rosalie Otterbourne (Letitia Wright), aggregatasi al gruppo in compagnia della madre-blueswoman Salome (Sophie Okonedo).
Attraverso i vetri smerigliati del vascello fluviale Karnak, tra tramonti d’oro sul Nilo e torridi pomeriggi assolati, l’investigatore belga dovrà mettere alla prova tutta la sua capacità deduttiva per porre fine alla catena di delitti e dipanare la matassa del mistero.

Se lo stesso Branagh convince nei panni di un inedito Poirot dal volto umano e si conferma tutto il valore dell’affascinante Emma Mackey - che dall’adolescente eroina Maeve di “Sex Education” si sta trasformando in un’attrice di razza - non altrettanto si può dire di altri protagonisti che non danno prova di grande vitalità, finendo ingabbiati in dialoghi senza particolare pathos (Gadot, Hammer, Brand, Bening). Luci e ombre (letteralmente) anche per la fotografia di Haris Zambarloukos, che alterna episodi di straordinaria efficacia (la sequenza bellica in bianco e nero, la plumbea Londra anni 30, la ricostruzione del tempio di Abu Simbel, le sequenze dorate sul fiume) a momenti di eccessiva saturazione patinata - con una palette di colori che oscilla tra il bianco e giallo - suggerendo l’idea di "un altro Egitto", di marca quasi fantasy, fatto di fondali digitali e di computer grafica (del resto, alcune riprese di esterni sono state girate in studio, ai Longcross Studios in Inghilterra). Ma l’allestimento d’epoca, nel complesso, funziona, grazie anche ai costumi di Paco Delgado e alle eleganti scenografie di Jim Clay, così come efficace è la resa sonora dell’angosciosa soundtrack di Patrick Doyle (“Carlito’s Way”, “L’alba del pianeta delle scimmie”).

“Assassinio sul Nilo” è un prodotto d’intrattenimento dichiaratamente mainstream, un compiaciuto esercizio di stile che non annoia (ed è già tanto), offrendo un’elegante messinscena alle immortali tessiture gialle e penetrazioni psicologiche della (unica) Signora in Giallo. Un godibile guilty pleasure al quale si possono perdonare i difetti, magari in cambio della promessa di un ulteriore affinamento del microcosmo-Christie nel prossimo capitolo di quello che è ormai diventato un vero e proprio franchise targato Branagh. Parola di fan (non oltranzista, però).


14/02/2022

Cast e credits

cast:
Letitia Wright, Jennifer Saunders, Sophie Okonedo, Rose Leslie, Daen French, Ali Fazal, Russell Brand, Annette Bening, Tom Bateman, Emma Mackey, Armie Hammer, Gal Gadot, Kenneth Branagh


regia:
Kenneth Branagh


titolo originale:
Death on the Nile


distribuzione:
The Walt Disney Company Italia


durata:
127'


produzione:
The Estate of Agatha Christie, Twentieth Century Fox


sceneggiatura:
Michael Green


fotografia:
Haris Zambarloukos


scenografie:
Jim Clay


montaggio:
Úna Ní Dhonghaíle


costumi:
Paco Delgado


musiche:
Patrick Doyle


Trama
Mentre è in vacanza sul Nilo, il geniale detective di fama mondiale Hercule Poirot si ritrova a dover indagare sull'omicidio di una giovane ereditiera.