Ondacinema

recensione di Giancarlo Usai
8.0/10

Quando si pensa a un autore cinematografico in grado di imbastire nel corso di una filmografia un vero e autentico poema sul corpo umano e i tormenti di ogni tipo che esso provoca nell'animo, il nome cui abbiamo sempre pensato, almeno negli ultimi vent'anni, è quello di David Cronenberg. In realtà, lavoro simile e non meno impressionante per adesione al tema è quello di Steve McQueen, il regista britannico giunto con "12 anni schiavo" al suo terzo lungometraggio, dopo una gavetta fatta di corti ed esperienze diversificate nel campo delle arti visive, dalla scultura alla fotografia.

Il corpo umano per McQueen è stato strumento di protesta in "Hunger", manifesto nella decomposizione della forza d'animo dell'uomo solo nella sua battaglia civile. E, quasi all'esatto opposto, è diventato fardello insopportabile per il tormentato essere umano costretto a confrontarsi quotidianamente con le sue abiezioni carnali in "Shame". Stavolta la carne, la pelle e le ossa vengono mercificate, torturate, umiliate, svendute nell'epopea schiavista del violinista Solomon. Il suo corpo, come quello dei suoi sventurati compagni nelle piantagioni di cotone, è sottoposto senza censura a ogni tipo di vessazione. È così che il cineasta britannico affronta il suo film più difficile sotto il profilo tematico: fondendo a freddo il suo talento per le video composizioni, con le consuete inquadrature suggestive e dense di molteplici significati, e un lirismo narrativo insolitamente crudo e, al tempo stesso, convenzionale.

Solomon, interpretato da Chiwetel Ejiofor, è un uomo libero ingannato, rapito e venduto negli Stati del Sud, dove diventa un animale senza identità, il cui valore è dato dalla sua forza-lavoro. Da lì, inizia la sua odissea di dodici anni attraverso tre proprietà, fra pochi momenti di fiducia nel prossimo e un dominio sadico e intollerabile da parte del latifondista Edwin Epps (Michael Fassbender). E McQueen mette in scena il dolente peregrinare del suo Ulisse nero stupendo per capacità di dedizione alla causa e di ibridazione del suo solito modo di intendere la messa in scena filmica.

Forse perdendo un po' del suo rigore stilistico, il regista londinese è su tre fronti che opera con decisione. Il primo è già stato detto: con un nuovo cambio di prospettiva rispetto ai suoi due precedenti, straordinari film, è ancora il profilo corporeo dell'uomo ad essere al centro di ogni inquadratura. La schiavitù era piaga politica, sociale e morale, è vero. Ma prima di tutto era una vergogna per il fisico, che fosse di uomo o di donna. Senza compromettere mai la pudicizia delle sue inquadrature, che già in "Shame" avevamo avuto modo di osservare anche nei momenti più scabrosi, McQueen affida al sangue e ai calli, al sudore e alle lacrime l'essenza stessa della sofferenza causata dallo schiavismo. Un dolore che diventa palpabile anche al di qua dello schermo.

In secondo luogo è il classicismo del racconto stesso che quasi stordisce. Senza timore di risultare a tratti didattico nella semplice concatenazione di eventi, la sceneggiatura di John Ridley è solo un mero strumento di supporto: nessun virtuosismo di scrittura, se non qualche minimo salto temporale, aiuta l'opera del regista. E non è certo un caso anche la scelta di affidarsi a un autore esperto come Ridley, per McQueen, rinunciando così al ruolo di "scrittore" della propria storia, così come era accaduto per le sue due prime opere. È semmai una scelta coerente con il diverso registro tematico quella che porta il regista a impostare un film che, solo distrattamente, può apparire come troppo ordinario per essere riconoscibile nella sua finora breve carriera. Coadiuvato dalla partitura musicale di Hans Zimmer, poi, restiamo stupiti dall'uso che l'autore fa sia degli effetti sonori che delle possibilità che lo spazio scenico dà. Che si tratti di una prigione claustrofobica o della glaciale Manhattan o, infine, dei suggestivi quanto crudeli paesaggi sterminati degli Stati del Sud, McQueen costringe i suoi personaggi a interagire violentemente con ciò che li circonda.

Ed eccoci alla sublimazione finale dell'opera. Sì, perché "12 anni schiavo" è anche e soprattutto un lavoro di grandi prove recitative. Vittime e aguzzini, bianchi e neri, tutti i protagonisti compiono su loro stessi un encomiabile lavoro di perfezionamento nel proprio fisico, ancora una volta, coerente con la drammaticità dei rapporti umani che vengono messi in scena. Sia Ejiofor che la giovane Lupita Nyong'o hanno la forza per rendere dolore e frustrazione, alternate a pochi spiragli di speranza, così evidenti per chi guarda. E i bianchi Benedict Cumberbatch, Paul Dano e Paul Giamatti sono ottimi nella caratterizzazione delle contraddizioni che la società del diciannovesimo secolo tentava così vergognosamente di soffocare. Ma è ancora una volta Fassbender, qui per la prima volta non assoluto protagonista in un film dell'amato McQueen, a salire in cattedra e rubare la scena ai colleghi: l'interpretazione che dà dello spietato e irragionevole Epps è quanto di più inquietante ci sia capitato di vedere ultimamente. Il registro scelto non è sopra le righe: sono la follia e l'irrazionalità della propria ira le uniche armi concesse, appunto, per riuscire a possedere le vite altrui senza alcun cedimento interiore.


20/02/2014

Cast e credits

cast:
Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Sarah Paulson, Paul Dano, Paul Giamatti, Lupita Nyongo


regia:
Steve McQueen


titolo originale:
12 Years a Slave


distribuzione:
BiM Distribuzione


durata:
134'


produzione:
Plan B Entertainment, New Regency Pictures, River Road Entertainment


sceneggiatura:
John Ridley


fotografia:
Sean Bobbitt


scenografie:
Adam Stockhausen


montaggio:
Joe Walker


costumi:
Patricia Norris


musiche:
Hans Zimmer


Trama
La storia vera di Solomon Northup, che nel 1841, nonostante fosse un uomo libero, venne rapito e portato in una piantagione di cotone in Louisiana come schiavo, per rimanerci fino al 1853. Tutta colpa delle diverse leggi che regnavano negli Stati americani, per cui a Washington (dove avvenne il rapimento) la schiavitù era legale, a differenza di quello che succedeva a New York, città in cui viveva normalmente Northrup. Responsabili dei dodici anni di schiavitù dell’uomo furono due bianchi, che con l’inganno lo portarono nella capitale americana e poi lo privarono dei documenti che provavano il suo status di uomo libero.