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recensione di Giancarlo Usai
9.0/10

Il nuovo cinema rumeno ha ormai quasi trent'anni, ma di quell'afflato espressivo che, attraverso una feroce parodia del passato, si impegnava a leggere le contraddizioni del presente, è rimasto ben poco. I suoi principali alfieri hanno preso delle strade differenti da quel punto di origine, connotando in modo molto netto il proprio modo di realizzare film. Cristi Puiu, pur non rinunciando alla missione di "comprendere il mondo attraverso l'immagine" (parole sue), sta percorrendo una strada di rigore stilistico a tratti respingente nella sua radicalità, concentrandosi soprattutto sul valore testuale del suo cinema; Corneliu Porumboiu, anche per motivi di estrazione familiare, è l'autore più propenso al compromesso con il mercato cinematografico mainstream, anche se la riflessione sul linguaggio e sull'evoluzione dello stesso nella contemporaneità non è mai venuta meno. Cristian Mungiu, il più anziano dei tre, il più legato al tempo della rivoluzione e il più segnato dai drammatici eventi degli anni 80 e 90 che hanno prima devastato e poi ricostruito una nuova Romania, è il cineasta più complesso e imprevedibile che il suo Paese abbia.

La filmografia di Mungiu è ormai assimilabile a una serie di cerchi concentrici che tende ad allargare a ogni nuovo titolo la propria circonferenza: prima singoli episodi che si fanno sineddoche delle tragiche difficoltà dell'età dell'oro ("Occident", "4 mesi, 3 settimane, 2 giorni"), poi lo sguardo che si fa ampio (e impietoso) sulla Romania dell'attualità, attraverso l'apertura di uno squarcio narrativo su fatti più o meno veritieri, sintomatici della tensione irrisolta all'interno di una società ancora da costruire (l'episodio in "Racconti dell'età dell'oro", il sottovalutato "Oltre le colline"); infine, con "Un padre, una figlia" l'inizio di un nuovo cammino attraverso le fragilità di una nuova epoca storica, che non ha fatto i conti con il passato, che ha scelto l'Europa senza reale convinzione e che adesso porta il paese ex-comunista a essere un incudine fra le aspettative di un continente che guarda con pregiudizio e sufficienza a Bucarest e le pulsioni centrifughe di una collettività che cova un orgoglio nazionale che, in taluni casi, rischia di deragliare verso istinti xenofobi e violenti.

E da qui, con l'ambizione di un'ulteriore estensione del raggio di orizzonte, parte "Animali selvatici", in assoluto l'opera più difficile, stratificata, in grado di confrontarsi con la complessità del reale diretta finora da Mungiu. Inizia con un'inquadratura fordiana che guarda al classico e finisce con una sequenza che è, invece, a suo modo rivoluzionaria per l'arte del regista rumeno, capace alla fine del film di sfondare il muro della sua consueta concretezza e andare a mettere in scena il paradosso surreale cui tutta la vicenda ha teso fin dal principio.
Poche righe di trama aiutano per comprendere la grande congerie di elementi che è possibile trovare nel suo quinto lungometraggio. Matthias torna nel suo villaggio natio in Transilvania pochi giorni prima di Natale, dopo aver lasciato il lavoro in Germania. Vorrebbe seguire più da vicino l'educazione del figlio Rudi che, lasciato alle cure della madre Ana, è rimasto in balìa delle sue paure infantili, ma è preoccupato anche per l'anziano padre, Otto, e vuole rivedere la sua ex-amante, Csilla. Quando alcuni lavoratori stranieri vengono assunti nella fabbrica di Csilla, la pace della comunità è rotta e le loro paure, conflitti e passioni esplodono con violenza. Nell'ordine: il protagonista abbandona inopinatamente il suo posto di lavoro perché viene insultato con l'epiteto "zingaro", lascia la Germania e nel suo villaggio torna per imporre ai suoi cari una condotta di vita fatta di durezza, prevaricazione, uso della forza. Qui rivendica quasi con orgoglio la sua doppiezza: vive con la moglie e il figlio ma ama un'altra donna. La sua amante è la manager della panetteria industriale della zona che crede nell'integrazione. Ma, in realtà, assume dipendenti dello Sri Lanka perché così chiedono le regole per l'accesso ai fondi europei. La comunità vuole l'Europa, sì, ma rivedica una parità di trattamento che non c'è stata nei fatti: sono stanchi dei cosiddetti occidentali che vengono in Romania a insegnare i principi della modernità e del progressismo ma respingono i migranti verso Est (funzionale a questo la presenza del cooperante di una Ong francese venuto a monitorare lo stato di salute degli orsi).

E quindi "siamo stanchi di essere lo zerbino degli occidentali", sostengono all'arrivo dei tre panettieri cingalesi. In questo momento esplode tutto nel piccolo borgo: le credenze popolari si mischiano alle superstizioni, le pulsioni razziste agli istinti nazionalisti di ritorno, la convivenza tra etnia rumena e ungherese mette in evidenza tutti i nodi irrisolti di una pacificazione che non c'è stata. E poi ancora, il risentimento verso gli europei, definiti in chiave spregiativa "quelli dell'ovest", a marcare una incancellabile differenza, l'impossibilità di annullare le distanze soltanto perché sono cadute le frontiere interne.

Mungiu opera su tre piani parallelamente, con una progressione narrativa che non conosce escalation di tensione, che ingloba ogni evento in una perversa normalità. In primo luogo, come sempre, egli è il padrone completo della sceneggiatura, in cui confluiscono dialoghi e costruzione di scene caratterizzati entrambi da una coerenza estrema: l'autore dimostra una volta di più il totale controllo su ciò che sta mettendo in scena, sui rapporti di causa-effetto di quanto mostrato, sulle parole scelte, frutto di un accurato studio dei personaggi, tra i quali, a un certo punto, diventa difficile distinguere i protagonisti dai comprimari. In secondo luogo, c'è proprio il lavoro sull'attore, una peculiarità di tutta la sua carriera eppure non abbastanza evidenziata nelle precedenti sortite dietro la macchina da presa. Nel cinema di Mungiu l'interprete è chiamato a un annullamento delle sue abilità drammaturgiche, obbligato a nascondersi letteralmente dietro la fisicità del personaggio impersonato. Questa presa di posizione netta nella recitazione, a rischio di portare spesso all'inespressività, è fondamentale per un'ambizione di credibilità: il mondo che Mungiu racconta è terreno, è vero, è reale, qui non c'è spazio per alti e bassi, per accelerazioni e rallentamenti di ritmo. È la vita rurale stessa che va in scena, con le prepotenze fisiche e le debolezze intellettuali di uomini e donne che si esprimono con la parola e con la gestualità al meglio delle loro limitate possibilità. Il terzo piano su cui opera il cineasta rumeno è nuovamente sintetizzabile con la parola rigore. La sua regia alterna le tecniche che meglio conosce con il chiaro scopo di valorizzare quanto più possibile l'esistenza di uno spazio umano e naturale essenziale al racconto. La macchina a mano segue Matthias e suo figlio Rudi nei boschi, tallonandoli nel loro girovagare all'oscuro della presenza di vere o presunte creature selvatiche minacciose; l'inquadratura fissa permette invece un lavoro tutto incentrato sulla coralità nelle scene di interni, in cui i movimenti dei personaggi risultano precisi in modo geometrico.
La direzione che compie Mungiu sul set non ha eguali in questo momento nel cinema europeo contemporaneo: il quarto d'ora di unica inquadratura in cui riprende l'assemblea cittadina che deve decidere la sorte degli extracomunitari è il momento più estremo e al tempo stesso più coinvolgente di tutto il film. Piazzata frontalmente e tenendo fuori campo la voce del moderatore al di qua dell'obiettivo, la macchina da presa manda a fuoco o fuori fuoco, di momento in momento, questo o quell'intervento, questo o quel gesto non programmato in una sequenza collettiva provata e riprovata fino alla perfezione finale.

La scrupolosità formale in Mungiu non è mai fine a se stessa: diviene sostanziale e morale nel momento in cui il suo punto di vista compie delle scelte mai partigiane. C'è sì un intervento evidente e sottolineato dalla volontà di non mettere in scena determinate azioni, ma resta il fatto che allo spettatore viene consentita una libertà di pensiero che non tutti i grandi autori riescono a concedere. È una libertà derivante dalla sicurezza con cui il regista ha prima messo insieme con impareggiabile abilità la moltitudine di indizi, elementi, considerazioni di cui si è parlato. A quel punto, solo nella scena finale, l'esattezza implacabile può permettersi il lusso di giocare con l'onirico e il surreale, lasciando nel dubbio chi guarda e sfumando sui titoli di coda nell'unico momento in cui il racconto scivola verso il caos.


09/07/2023

Cast e credits

cast:
Marin Grigore, Judith State, Macrina Bârlădeanu, Orsolya Moldován, Zoltán Deák


regia:
Cristian Mungiu


titolo originale:
R.M.N.


distribuzione:
BiM Distribuzione


durata:
125'


produzione:
Mobra Films, Why Not Productions, France 3 Cinéma, Filmgate Films, Film i Väst, Les Films du Fleuve


sceneggiatura:
Cristian Mungiu


fotografia:
Tudor Vladimir Panduru


scenografie:
Simona Pădurețu


montaggio:
Mircea Olteanu


costumi:
Cireșica Cuciuc


Trama
Pochi giorni prima di Natale Matthias lascia di colpo il suo lavoro in un macello tedesco per fare ritorno nel suo piccolo villaggio tra i monti in Transilvania. Lì scopre che il figlioletto Rudi, rimasto con la madre (con cui Matthias non ha praticamente più rapporto), ha paura di qualcosa di indefinito che ha visto nei boschi: per di più suo padre soffre di una strana narcolessia, e anche Csilla, la donna che è stata sua amante, ha non pochi problemi al panificio industriale che dirige, visto che la popolazione locale sta rispondendo molto male all’assunzione di tre operai srilankesi...