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recensione di Davide Spinelli
8.5/10

"Anatomia di una caduta", inattesa Palma d’oro a Cannes 2023, di sicuro sussume le ossessioni delle tre precedenti pellicole che hanno reso Justine Triet una delle più promettenti registe contemporanee: il rapporto tra finzione e realtà, tra scrittura (controfattuale) e trascrizione (fattuale), in "Sibyl - Labirinti di donna" (2019); un’impostazione del psicologico cronachistica, documentaria, in "La Bataille de Solférino" (2013); una tassonomia (femminile e antifemminile) del lessico famigliare, verbale e non, in "Tutti gli uomini di Victoria" (2016).
Nel caso di "Anatomia di una caduta", l’azione è chiusa in una baita sulle alpi francesi, in cui Samuel (Samuel Theis) ha convinto la compagna Sandra (Sandra Hüller) e il figlio Daniel (Milo Machado Graner) a trasferirsi. Una mattina, Daniel, di ritorno da una passeggiata con il cane Snoop, trova il padre morto ai piedi della casa. Un anno dopo ha inizio il processo a Grenoble, secondo la pubblica accusa non ci sono dubbi, Sandra è l’unica colpevole possibile, Samuel non si è suicidato.

Delitto da camera

La pellicola di Triet propone un’interessante corrispondenza tra forma e contenuto, tra linguaggi. Ogni intenzione del film, ogni stadio interpretativo ottiene una proiezione, una controparte meccanica, cioè una messinscena. La più evidente è legata alla personificazione degli spazi chiusi, prima la baita, poi l’aula del tribunale che strizzano il peso cerebrale di ciò che è mostrato del rapporto sentimentale tra Sandra e Samuel. Al contrario, non è un caso che due delle sequenze chiave del film – il ritrovamento del corpo senza vita di Samuel (ritratto a plongée nella locandina del film), circoscritto dal contrasto cromatico tra sangue e neve (alias, colpevolezza vs innocenza); e il dialogo tra l’assistente giudiziaria Marge (Jehnny Beth) e Daniel, seduto su un prato, in primo piano in uno dei pochi campi lunghi del film, in cui il ragazzo prende coscienza del fatto che non potrà mai sapere come sono andate le cose – avvengano all’esterno. Infatti, in entrambe la drammaturgia ha bisogno di respiro, esplosione, nel primo caso tonante, nel secondo silenziosa.

Altrettanto manifesta è l’azione soffocante della camera a mano che esacerba la programmazione claustrofobica della pellicola, onnipresente, come la cartografia di primi piani che Triet ripete compulsivamente. A ciò, è affiancato un utilizzo(/abuso) dei movimenti di camera apparenti, lo zoom a seguire, il riflesso dell’emotività endogena del film, che affiora di continuo, lambisce la superficie e si muove/modifica sotterranea. L’unico personaggio esplosivo è Samuel, l’unico che vediamo solo attraverso due flashback, quello della registrazione che lui stesso (di nascosto) ha fatto dell’ultimo litigio con Sandra, e quello di Daniel, in cui il figlio, a posteriori, rilegge l’avvertimento prodromico del suicidio, in una sequenza suggestiva: il padre è doppiato dalla voce del figlio che, nel presente, sta testimoniando.

Meno evidente, forse, è la metaforizzazione della cecità (parziale) di Daniel. La convinzione non è troppo distante da quella saramaghiana: lentamente, il campo lungo sfuma e scompare, come accade dopo il prologo del film, chiuso, da lì in avanti, in un patchwork di close up, insert, zoom e movimenti di camera iper-subordinati all’azione, funzionali ad amplificare la tensione tra ciò che è reale - "i fatti", direbbe Roth - e l’apparente, il visibile e l’invisibile, la dicotomia fondativa di ogni delitto cosiddetto "da camera", in cui non ci sono testimoni, se non il sospettato, nessuno ha visto nulla, è tutto deducibile.



Hic et nunc

La vicenda processuale – diegeticamente ammiccante, con un ritmo implacabile, e diluita, al momento giusto, dalle analessi - ruota attorno all’unico fatto incontrovertibile, la già citata registrazione del litigio (due giorni primi della morte di Samuel) tra Sandra e il compagno. Si tratta, a livello narratologico, del punto d’accumulazione della vicenda, un magnete narrativo a cui si fa riferimento implicito ed esplicito più volte. Secondo l’accusa, la registrazione è una sorta di preludio, di prova generale dell’omicidio; secondo la difesa, un litigio coniugale che non può dimostrare la colpevolezza di Sandra; al contrario, l’audio (di cui noi usufruiamo visivamente – la sinestesia è uno strumento che emerge nel film) dimostrerebbe l’acredine di Samuel nei confronti di Sandra e il suo stato depressivo.
Questa sequenza, in cui il pattern di movimenti di camera resta frequente, ripetitivo, riassume a sua volta la struttura ad accumulazione di cui rappresenta uno snodo centrale: i toni, tra i due, si alzano gradualmente, tornano pacati per qualche secondo e poi esplodono definitivamente; esplosione che però ci è negata, l’ascoltiamo e basta, la messa in scena della registrazione s’interrompe, a sottolineare che la ricostruzione dell’accusa – Sandra avrebbe aggredito violentemente il marito, come quando l’ha ucciso – è un’ipotesi, non una certezza. Ciò che si conosce del litigio sono le parole, non la prossemica, non i gesti, non gli sguardi, che ci sono mostrati dalla regista in un dialogo metanarrativo, intimamente, come fossero dei segreti, tra noi e lei, l’hic et nunc, magicamente, assume una connotazione diacronica. L’ennesimo sottotema di una densa stratigrafia tematica, che più volte millanta (senza compierla, con consapevolezza) l’imminente rottura della quarta parete.

Tra le accuse reciproche – in breve: Samuel imputa a Sandra i tradimenti, di non occuparsi a sufficienza del figlio, di non ascoltare i suoi bisogni, in particolare, la necessità di tornare a scrivere; Sandra, invece, contesta al compagno di spacciarsi per vittima di una situazione che lui stesso ha creato – due hanno un peso specifico differente dalle altre. La prima – Samuel sostiene che Sandra, per scrivere il suo ultimo libro (di successo), abbia "saccheggiato" il soggetto del romanzo in lavorazione di Samuel – ha delle implicazioni determinate nel processo e non solo; addirittura, testimonia Sandra, era un’accusa ricorrente nelle loro discussioni. Dalla messa agli atti della denuncia di Samuel, nel processo entra l’elemento letterario: come sostiene il pubblico ministero, data la natura "chiaramente" autobiografica dei romanzi di Sandra, questi "devono far parte del dibattimento". È un terreno scivoloso, di cui la stessa Triet è consapevole, che però permette la tematizzazione esplicita del rapporto tra finzione (/fiction) e realtà, tra vita e letteratura, direbbe Sartre. La provocazione relata che Triet affida a Sandra problematizza ancor di più l’ostensione dello scenario: "Col senno di poi, forse, Samuel ha provocato il litigio per cercare di creare del materiale su cui basare poi la sua scrittura". Quel litigio, insomma, che sembra l’unico elemento fattuale inoppugnabile, è (forse) già fiction.

La seconda accusa di Samuel, legata alla prima, allude al fatto che Sandra abbia imposto l’uso della lingua inglese, impedendogli di utilizzare la sua lingua madre, il francese. Peccato, però, che neanche Sandra usi la sua lingua natia, ossia il tedesco. Quest’accusa evidentemente infondata è la spia, probabilmente, di una ricerca disperata: Samuel farebbe di tutto per avere un’idea, e come Sandra ha saccheggiato dal suo romanzo, ora tocca a lui saccheggiare dall’unica cosa che gli è rimasta, la sua vita famigliare. La diglossia filmica tra inglese e francese, poi - ossia tra la lingua del "compromesso" per la comprensione e la lingua dei romanzi di Sandra, e la lingua del processo, dei fatti - è l’ulteriore formato in cui Triet codifica il raffronto tra finzione e realtà, sovvertendo i rapporti di forza, la prima genera la seconda.


50 cent

Alla premiere italiana di "Anatomia di una caduta" a Roma FF18, Justine Triet ha descritto il film come una recherche della verità. È questa, secondo lei, l’amalgama che fonde i temi dei suoi film precedenti in questo nuovo lavoro. Tuttavia, sembra che con la verità, "Anatomia di una caduta" abbia poco a che vedere, a meno che con "verità" non s’intenda la "verità processuale", eppure il dibattimento, sin dall’inizio, funge da strumento, non è il fine del congegno narrativo. Ecco, questo, se ce n’è uno, il peccato di Triet che depotenzia la sua mise en page sobrissima, collaudata: manca una definizione; e il suggerimento che una definizione sia impossibile, perché la verità assomiglia a una prospettiva, forse non basta, è seducente ma consolatoria. Di nuovo, il terreno è scosceso, e in questo caso, l’unico, Triet a volte perde il controllo.
Il problema, forse, è aver assunto l’identità tra la verità e le condizioni di verità, due nozioni dissimili: la seconda mi dice in quali circostanze io so qualcosa, la prima mi dice cosa so. È in questa intercapedine che prende corpo la scelta già citata di Daniel: se non conosco il secondo, non posso di certo conoscere la prima, devo, allora, focalizzarmi sull’unica cosa di cui ho esperienza, le conseguenze (la morte del padre), con l’obiettivo di dedurne una causa, se esiste - "perché avrebbe dovuto uccidere papà?", si chiede Daniel.

L’assenza di una definizione è problematica dato l’assetto logico del film. La sensazione è che in questa dimensione, il magma tematico prenda il sopravvento, financo sulle scelte registiche che lo evocano e lo delimitano; sembra che, sul finale, l’impalcatura vacilli sotto il peso di una narrazione che in parte rinnega la ricerca di verità che sottolineava Triet, si emancipa (e non è detto sia un peccato - "un libro più avanti vai, meno è tuo", scriveva Daniele Del Giudice ("Del narrare", Einaudi, 2023)). Pare, insomma, che quest’intuizione finale non sia del tutto voluta, cercata: a Daniel, che la madre sia colpevole o meno, non importa più; non è nemmeno chiaro se il ricordo che menziona alla giuria (del padre che in qualche modo lo prepara alla sua morte) sia vero o meno. È un passaggio importante: il pubblico ministero ammonisce la giuria dal ritenerlo una prova, poiché trattasi di un’interpretazione del ragazzo del tutto soggettiva, eppure, è evidente, il ricordo di Daniel indirizzerà il verdetto della giuria.
A tema c’è dunque l’ambivalenza tra oggettivo e soggettivo, che Triet non domina come le altre relazioni del film. L’idea quantistica – se lo guardo/inquadro esiste, se non lo guardo non esiste – che investe l’intero approccio della regista francese, sul finale, forse, andava ripensata. Come, d’altra parte, accade giustamente nel prologo d’apertura, realizzato magistralmente, "dequantizzato": la musica strumentale di 50 Cent è acusmatica, cioè non ricaviamo dall’inquadratura la sua sorgente, ma c’è, è oppressiva, durante la breve intervista, quando è scoperto il cadavere del padre, copre le urla, mistifica le emozioni. C’è solo una guida, Snoop, il cane, su cui Daniel testerà le condizioni di verità.


23/10/2023

Cast e credits

cast:
Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner, Antoine Reinartz, Samuel Theis, Jehnny Beth


regia:
Justine Triet


titolo originale:
Anatomie d'une chute


distribuzione:
Teodora film


durata:
150'


produzione:
Les Films Pelléas, Les Films de Pierre


sceneggiatura:
Arthur Harari, Justine Triet


fotografia:
Simon Beaufils


scenografie:
Emmanuelle Duplay


montaggio:
Laurent Sénéchal


costumi:
Isabelle Pannetier


Trama
In una baita sulle alpi francesi, una mattina, Daniel, di ritorno da una passeggiata con il cane, trova il padre morto sulla neve ai piedi della casa. Un anno dopo ha iniziato il processo: secondo la pubblica accusa non ci sono dubbi, Sandra, la convivente, è l’unica possibile colpevole, Samuel non si è suicidato.